ABBANDONATO

Il cielo sembrava un fardello che non poteva essere deposto altrove. Tratteneva, a fatica, qualcosa che doveva esplodere da un momento all’altro. L’aria era un calice di ossigeno rarefatto. Sottozero. Il silenzio, sceso dalla montagna di cristallo, sedeva, comodo, nella piazza. Comandava l’assenza come una necessità di sopravvivenza. “Statevene in casa” sembrava dire. Tutti ascoltavano quel muto richiamo. Nessuno provava a contraddirlo, mentre il vento sibilava tra le crepe delle case abbandonate. Il gelo, intanto, continuava a costruire amabili ricami sui vetri. Disegnava ed articolava paesaggi. Schizzi di mondi sconosciuti eppur vicini. Nella quiete prima della tempesta, l’orologio della piazza singultò un rintocco. Mezzanotte. Quella melodia, quasi spettrale, provocò una lesione nelle nubi e scivolò via, saltellando, un fiocco di tenue nevischio. Non toccò terra. Si fermò su una lettera di bronzo, scolorito dal tempo. Poi ancora uno ed un altro ancora. Fino a che uno squarcio, un lampo, aprì totalmente quei cuscini di vapore e grigio intenso. Milioni di piume ovattate si sparsero sul paese. La tormenta di neve ebbe inizio come una sinfonia d’orchestra. Rulli di tamburi erano i tuoni, a ritmo cadenzato, che squarciarono l’acuto di trombe squillanti soffiate dal vento.
In quel freddo pungente, un randagio vagava disperso, tra i vicoli bui. Tremava e cercava riparo dietro la ruota di qualche macchina in sosta.  Ma il gelido vento lo spingeva altrove. Si spostava senza logica, senza conoscere il posto in cui si trovava. Poi, d’improvviso, ecco una  cuccia di fortuna, tra vasi vuoti e fogli di giornale stropicciati. Decise di fermarsi, di accettare quel riparo ottenuto dal destino. Si attorcigliò nelle ossa, ormai era senza cibo da giorni. Si leccò la coda gelata. La ripiegò sotto una zampa. Si guardò intorno. Le case erano spente. Nessuna luce. Le serrande chiuse impedivano di guardare dentro. Solo il bagliore dei lampioni delineava il fumo che saliva dai comignoli. I camini erano accesi. Qualcuno doveva essere ancora sveglio e magari leggeva un libro, o sonnecchiava sul divano, o seguiva un film alla televisione. Certo è che stava al caldo, dentro casa. Mentre fuori la tempesta inaspriva la paura e ritagliava un pezzo di mondo che nessuno poteva vedere. Il randagio ebbe come uno scatto improvviso. Si rialzò. Lentamente si avvicinò ad un portone che gli sembrava quasi familiare. Annusò agli angoli del portone, poggiò la zampa sul marmo dell’ingresso, con l’altra cercò di graffiare il legno, di farsi sentire. “Sono qui fuori, aprite” Nessuna risposta. Rimase in quella posizione per qualche minuto. Quasi incredulo che nessuno gli avesse aperto. Poi abbassò lo sguardo. Sguardo che si era improvvisamente riempito di luce e che ora si stava spegnendo di tristezza. Ritornò nella sua misera cuccia. Era allo strenuo delle forze. Per non sentire i morsi della fame, provò a chiude gli occhi, ad immaginare. Si immaginò davanti ad un caldo camino. Era solo un’idea o la realtà di un passato ormai lontano? Un animale non può saperlo. O forse lo sa perché tutto ritornò nella sua mente. Ritornò a quando, appena nato, era stato comprato in un negozio del centro. “Papà, quello mi piace” ed era stato esaudito il desiderio di un bambino. Da quel desiderio aveva trovato una casa, una famiglia ed un piccolo ometto che lo prendeva in braccio come un giocattolo. Quel bambino era diventato il suo più fedele compagno di giochi.  Mille sorrisi ed infiniti abbracci. Erano quelli i suoi giorni felici, trascorsi e mai più ritornati. Poi il frastuono di un dolore, lo scosse nelle gracili  membra. Solo, impaurito, si era ritrovato in una campagna desolata. Aveva vagato per giorni e giorni, ma alla fine era tornato a casa. Davanti casa sua. Quella che era stata la sua casa per tanti anni fino a che non era diventato vecchio e stanco. Ora che non poteva essere più un giocattolo, ora che i suoi acciacchi lo avevano relegato ad essere un relitto di cane, quel rimorso si faceva più intenso e pungente. Non era la fame, era la vita che stava uscendo dal suo corpo ormai congelato. Era la felicità del ritorno delusa da una certezza.
No, non si era perso, come aveva sempre pensato. Era stato abbandonato, abbandonato per sempre. Fu quella certezza a fermare il suo povero cuore, mentre la neve ed il ghiaccio lo ricoprivano d’indifferenza.             

TUTTI GIU' PER TERRA

È oggi ma potrebbe essere benissimo anche ieri. Il tempo non ha importanza quando si dimentica velocemente il passato. Quando le violenze subite si mescolano a quelle inferte. È una mattina assolata, da questo lato del paese. I raggi colpiscono ovunque.  Come una sferzata di schegge impazzite. Danno il senso della desolazione e della distruzione assoluta. Qui si gioca sulle macerie e sui pilastri attorcigliati. Tra la polvere ed il fumo, che si alza costante dal sottosuolo bollente, un piccolo gruppetto di bambini si tiene per mano. Stretti stretti. Quasi a sigillare un patto di reciproca amicizia e diventare fratelli e sorelle per sempre.  Inconsapevolmente si guardano e sorridono. Hanno gli occhi lucidi di chi inizia una nuova avventura. Occhi neri e marroni, riversati negli occhi degli altri compagni. La più piccola del gruppo, forse quella più incosciente, abbozza un sorriso ed una canzoncina. Il girotondo ha inizio. Da lontano, intanto, si sente il fragore delle bombe. Una, due, tre esplosioni. Il frastuono è quasi assordante. Eppure nessuno dei bambini sembra dargli importanza. Qui si è abituati all’assenza del silenzio. Si è abituati a non sentire la quiete. Si è abituati a le urla di chi viene travolto dal fuoco dei proiettili. Quattro bambini giocano sulle pietre di una casa distrutta. Non si guardano intorno. Girano e rigirano nel loro semplice gioco dove la protagonista sembra essere una donna. Cantano mentre lei è l’unica a rimanere in silenzio. Ferma nel cerchio, al centro di quel raggio di manine sporche e umili vestiti. Nessuno dei bambini sa come si chiama. Eppure tutti la conoscono. Lei, intanto, li fissa, uno ad uno. Batte le mani in sincrono con i loro movimenti. O forse è il contrario. Sono loro che si muovono sottomessi a quel battere acuto e greve, quasi stridente. E quel clap clap, come un tam tam di guerra indiano, batte nel suono ogni altra cosa. Batte il tempo che sembra essersi fermato. Come se le nuvole avessero arrestato la loro discesa dalla montagna sacra. Come se il vento avesse cessato di muovere i panni stesi sulle terrazze assolate. Come se i lanciatori di pietre si fossero cristallizzati nel tiro. Come se i carri armati si fossero bloccati nella breccia del muro che porta alla città ribelle. Il resto dei loro compagni, chi ha già finito il gioco gridando: “tutti giù per terra”, è steso su tavole di duro legno, negli obitori improvvisati di Gaza.
All’estremo opposto, in un tempo opposto, in una storia opposta, è quasi sera. Il sole non scalda neanche più la terra, tanto il pallore dei volti è sparso ovunque. Nel lato ovest di un campo, arginato da un alto recinto, si gioca con la miseria e con scampoli di stracci. Il filo intrecciato, di ferro e spine appuntite, costringe l’orizzonte della vita a rimanere fuori.  Il vento muove dei fantocci di stracci, appesi a quel filo. Per gioco o per follia, c’è chi strappa pezzetti di lenzuola luride per farne facce, braccia, gambe, di improbabili manichini o bambolotti di fortuna. Si ha poco o niente per giocare eppure si gioca. Ma il gioco preferito dai bambini, anche da questi bambini, è sempre lo stesso. Ci si tiene stretti per mano, si intona una filastrocca che tutti conoscono e poi si inizia il girotondo. Ed è, grossomodo, lo stesso girotondo per tutti. Forse solo meno intenso e veloce. Il campo li ha privati della forza, ed affamati di speranza, lasciando solo uno sprazzo di infanzia in quegli occhi tristi. Occhi che, però, si guardano costantemente intorno, per capire se qualcuno li sta spiando. Giocare è vietato. Allo stesso modo, anche in questo girotondo, di uniformi e ossa gracili, c’è sempre una donna al centro. Una donna ugualmente silenziosa che osserva le facce dei bambini senza proferire alcuna parola. Batte le mani ed incoraggia giri sempre più veloci. Anche qui il tempo sembra arrestarsi in quel ritmo assurdo e stranamente invitante. Fermi i forni crematori. Fermi le fucilazioni di massa. Ferme le camere a gas. Rimangono solo questi quattro bambini. Il resto dei loro compagni, chi ha già finito il gioco gridando “tutti giù per terra”, è ammassato senza pietà, nelle fosse comuni del campo di sterminio.
Eppure quel girotondo, a cui tutti giocavano, era quello intorno alla morte. Quella donna, strega e sirena, che con le sue sembianze cangianti, non ha mai risparmiato nessuno. Lei che si è approfittata dell’infanzia per lanciare un terribile segnale al mondo. Lei che ha trovato il mondo assuefatto dall’indifferenza. Come l’indifferenza di quel mondo davanti ai campi di sterminio, come l’indifferenza di questo mondo davanti al massacro dei bambini di Gaza. E mentre il silenzio cade come un veleno, soffocando le bocche, chiudendo gli occhi di quei bambini, così si ripete la mattanza. Qualcuno dovrebbe avere il coraggio di imputare il silenzio come crimine di guerra. Mai più dovrebbe avvenire, si dice, ma sempre avviene.

UNA CONDANNA


Nei frastagliati sentieri del mio corpo, nelle vene contorte e silenziose, il sangue scrive, ogni giorno, il tuo nome. Lo scrive come onda che si rifrange sulle pareti di uno scoglio. Se la spuma non lascia alcuna traccia, del suo impatto travolgente, lo lascia il sangue. Lascia la domanda ed insieme la risposta ad ogni mia imprecazione.
Vorrei poter dipingere, con quel gettito purpureo, la mia consistenza attuale. Eppure non so fermare la sua piena. Non ho modo di bloccare il flusso che scorre e scorre senza darmi tregua. Se potessi aprire una piccola sorgente, potrei rivivere, in un solo secondo, tutte le forme delle stagioni passate. Quando ti abbracciavo, ti tenevo stretto. Quando non avvertivo alcun timore. Quando le mie narici non la smettevano di respirare la vita che avevi addosso. Quando, mentre dormivi, potevo passare, lentamente, le mani tra i tuoi riccioli neri. Quando risaliva nei polpastrelli il calore della tua pelle bianca.
Erano quelli i giorni in cui i miei occhi si bagnavano di continuo. Quando i profumi e le sensazioni che sprigionavi si attaccavano alla mia quotidianità, naturalmente. Quando bevevo dal tuo amore come se fossi un’assetata che vuole prendere solo aria e lasciare la consistenza terrena al resto del mondo. Immagini di una vita che mi apparteneva, che era uscita dal mio ventre, che era mia. Vita che mi sorrideva ed aveva la forma della tua bocca.
E quel viaggio che intraprendevo, ogni volta che mi venivi incontro, il mare che si sprigionava al solo contatto, era come un’atmosfera celeste che portava la luna a brillare, così intensamente, da rischiarare ogni notturno desolato. Potevo respirare quello che eri. Il tuo spirito trasmigrava nella mia mente, facendo un passaggio veloce. Ossigeno che non entra nei polmoni, sale direttamente al cervello. Lì, ad attenderlo, la complicata architettura della mia umana consistenza. Architravi che, a stento, riuscivano a reggere il peso del tuo essere libero e vivace.
Poi una condanna. Il muro maestro che crolla senza una ragione. Mi sono ritrovata in ginocchio a ripetere il tuo nome come una cantilena. La tua faccia tra le mani. Quel pallore senza possibilità di smentita. Una madre costretta a sopravvivere al figlio. E tutto quello che era stato, finisce in un pianto disperato. Il domani resta fermo ai ricordi. Il presente si carica di aria faticosa da respirare. Una tenda pesante ha coperto la luce dei tuoi occhi. L’iride, che non rivedrò mai più, è diventata un’istantanea nella mia anima sbiadita dal dolore. Ora, ho solo poche parole da scrivere su questo foglio bianco. Non c’è inchiostro. Sono parole scritte dalle lacrime. Bagnano il foglio di parole che nessuno mai vorrebbe pronunciare. Parole difficili da comprendere. Parole che pronuncia un cuore sconfitto da un destino innaturale. L’inverno ha portato con se la traccia del gelo. Ha cristallizzato gli ultimi giorni che hai vissuto nella mia vita. Eppure era estate inoltrata.
Quest'angoscia così intensa e profonda, pretende che io rimanga qui, a piangerti, senza sapere dove sei. Il mio mondo si sgretola senza che nessuno possa fermare la corruzione del tuo corpo. Io non posso mutare il fatto che tu non ci sei. Tu non puoi mutare il fatto che non sei più qui. L’amore esige tutto. Bene e male. Ragione e follia. Gioia e dolore. E così, questo dolore, esige ogni cosa da me. Se fossimo completamente uniti, anche stavolta, tu sentiresti la profondità con cui, questo coltello, scende ed affonda nella carne. Sentiresti la lama che taglia, maldestramente, ogni lembo dell’anima. La vita che mi ha condannato a vivere senza di te non mi da appello.
Vivere la tua assenza, figlio mio, è amare la morte e pretenderne il ritorno. Sono in attesa. Aspetto che venga, presto, a riportarmi da te.

Dedicata a tutte quelle madri che hanno avuto la condanna di perdere un figlio.

UN MARTIRIO

Lo sai, questa doveva essere una preghiera più che una richiesta. 
In fondo non chiedevo poi tanto. Più che una voglia era una necessità. 
Ma va bene lo stesso. Dove sono arrivato ora, non ha più importanza. Signore, mi prendo il destino che era scritto per me. Quello che spesso viene scritto per i puri di spirito. Volevo soltanto poter vivere senza di lei. Eppure non ho avuto modo di arginare la sua presenza. Sin da quando ho preso questa toga, ha fatto parte del mio mondo, del mio essere uomo. Era come la carne che mi portavo sulle ossa. Chi l’ha conosciuta sa di cosa parlo. 
Per qualcuno è una stilettata intensa e profonda. 
Per altri é un guizzo di corrente che prende all’improvviso. Per altri una zaffata di acido corrosivo. Per me, invece, é stata una compagna di vita. Se devo essere sincero, forse la più fedele. Non ha mai considerato l’abbandono, era una megera. Mi scopriva le carte della vita e puntava il dito sempre sulla stessa figura. Se ritiravo lo sguardo altrove, per non fissare quel teschio in chiaroscuro, lei si arrabbiava. Urlava, mi inseguiva. Veniva a prendermi ovunque mi trovassi. 
Saliva le scale con passo morbido ma pesante. Entrava nella stanza, faceva stridere, lentamente, la porta, come se avesse voluto agguantarmi di soppiatto. Sentivo il suo respiro sul collo. Sentivo il calore di quel fiato corto e quasi singhiozzante, come quello di un bambino atterrito da un incubo notturno. Mi diceva, quasi implorandomi, di desistere, di smetterla, di chiudere un occhio, di limitarmi, di non indagare, non confiscare. 
Voleva che non facessi, sino in fondo, il mio lavoro. Quella era la sua traccia genetica. Quello era il modo che aveva per pretendere rispetto, attenzione. Nel suo spartito, il mio ruolo non era autonomo, doveva essere sottomesso al suo volere. Ma era una guerra che aveva perso in partenza. 
Non poteva arginare la sete di giustizia che avevo nella gola. Ero il suo ostaggio non collaborativo. Se riusciva a legarmi nei sogni, mi slegavo alle prime luci dell’alba. Quando la realtà plasmava il mio lavoro tra le mura del Tribunale. Potevo e dovevo essere libero. Libero di agire e di reagire alla prepotenza del terrore, alla mafia. Ogni giorno l'ho avuta al mio fianco e quasi mi ero anestetizzato alla sua presenza. 
Così anche quel 21 settembre 1990. Prima di uscire di casa, ho dato uno sguardo alla finestra. 
Quella era la mia consapevole ossessione da un po’ di tempo. Ho preso macchina, mi sono seduto al volante. Ho adagiato i codici sul sedile posteriore, lasciando libero quello accanto al mio. 
Lei era solita sedersi lì. Lo faceva senza che io la invitassi a salire, senza dare nell'occhio. Nessuno la vedeva. Non amava mostrarsi alla gente. Ed anche se io non le davo la benché minima confidenza, la PAURA era lì con me, nonostante tutto. Una figura ingombrante ma evanescente.
Invasiva ma inconsistente. Dominava il mondo e cercava di dominare anche me, ma senza riuscirci. Ho capito sin da subito che, quello, sarebbe stato un viaggio diverso da tutti gli altri viaggi verso il Tribunale. Era stranamente agitata. Si guardava alle spalle ad ogni curva. La sentivo mugugnare senza capire cosa dicesse. Ogni tanto buttava lo sguardo nello specchietto retrovisore. Poi ad un tratto ha messo la sua mano sul cambio: “Accellera, ti prego, non ti fermare”, mi ha urlato, quasi supplicandomi. Non ho avuto neanche il tempo di capire. 
Una scarica di colpi è entrata nella carrozzeria. 
I vetri in frantumi. Riesco ad uscire dalla macchina ancora vivo. Lei si è aggrappata al mio fiato, come sospesa nel vuoto. Corro verso la campagna senza vedere dove vado. Potrebbe essere la mia via di fuga. Ma chi mi insegue vuole braccare ed abbattere l’animale. Lei è pesante, mi taglia le forze nelle gambe, non riesco a fare molta strada. 
Il martirio ha avuto inizio e procede come programmato. Mi raggiungono e mi sparano al volto. Che strana quella sensazione. 
Prima che i colpi entrassero nella carne, lei si era staccata da me. Ero libero, avevo solo la preghiera a sostenermi il cuore. Cado e mi rialzo nella navata di una Chiesa. Una folla mi saluta mentre esco in una bara. Ero così giovane, qualcuno mi chiamava ragazzino, ma lo diceva in tono sprezzante. 
Ma il mio pensiero va alla paura. 
Ci insegue durante la vita e non sa sopravvivere alla morte, come io sono sopravvissuto alla mia, grazie alla fede in Dio, all’amore per la Giustizia. 
Eppure non a tutti è concesso questo privilegio.

In memoria del Giudice Rosario Livatino

THE END

Non è un azzardo dire che gli attacchi sono stati decisi con precisione inaudita.
L'occhio fisso all'orologio. Quando si procede per queste strade i tempi sono essenziali, fondamentali. Si cronometra al secondo.
Quello che doveva essere lo scopo finale, gli obiettivi sensibili da colpire, doveva essere raggiunto e raso al suolo senza alcun ripensamento. A monte la preparazione è minuziosa.
Ogni cosa al momento giusto, il "progetto distruzione" doveva, però, essere percepito poco o niente. Meglio niente. Per questo si è tentato di sviare l'attenzione su altri argomenti. Si è cercato di fare disinformazione. Si è mossa la gente verso altri problemi. Si è alzata la polvere attorno a casi creati ad arte. Ogni passo da fare viene contato, come se non ci si potesse allontanare mai dallo scopo. Vietato tornare indietro. Quando si prende una decisione, qualunque essa sia, a qualunque costo, questa deve essere portata a termine. Eppure sembra una giornata come tante. Il periodo è lo stesso. Anche il tramonto sembra uguale. Settembre. Forse anche la data è evocativa.
Ma il forse in questo caso è un eufemismo. Sembra tutto uguale ma lo scenario è diverso. Si snoda e si lancia a milioni di kilometri da Manhattan.
E' l'undici settembre. L'undici settembre delle genti d'Irpinia. Non è un pensiero assurdo. A pensarci bene, ognuno di noi ha un undici settembre.
È quando si ha la consapevolezza che qualcosa cambierà per sempre.
E qualcosa cambierà uccidendo quel che resta della speranza. Sembra una scena in cinemascope, un film drammatico. Eppure è tutto reale.
Una realtà che ci fagocita in questo incubo dalle proporzioni ancora non correttamente valutate. Noi, attori senza copione, comparse senza un perché. Ci vedete?
Dal caldo delle nostre case siamo stati cacciati con violenza e portati nelle piazze più grandi dei nostri paesi. Costretti a guardarci in faccia, gli uni con gli altri. A salutarci, a darci l'addio prima di non poter più neanche parlare. Abbiamo gli occhi perduti. Generazioni che si ritrovano a vivere lo stesso momento di terrore. Uomini, donne, bambini, anziani. Alcuni non sanno bene cosa stia succedendo, ma il resto della gente sa, comprende. Forse comprendere è il dramma più lancinante. Quello che ti spezza le forze e ti costringe a metterti in ginocchio, anche se non vorresti.
La percezione della sconfitta è forte, quasi nauseante. Nelle piazze il silenzio è assordante. Ammutoliti, piegati su noi stessi, qualcuno piange, altri si tengono per mano, altri ancora lanciano gli ultimi urli in pasto al vento. Il sibilo che crea, nelle fessure delle vecchie case, è come una sirena che annuncia l'arrivo della "fase finale".
Quei pochi che si sono spesi, che hanno combattuto, che hanno cercato di non arrendersi davanti all'evidenza di una fine annunciata, passano tra la folla e si fermano a parlare, a stringere mani, a carezzare volti, ad abbracciare chi piange.
Alcuni prendono in braccio i bambini, cercano di sorridere sforzati, simulano anche qualche faccia buffa. Eppure sono loro che moriranno per primi. Ma non importa, non ci fanno caso. Per loro la morte è arrivata quando hanno compreso che non sarebbe servito a niente salire sulle barricate. Eppure sono saliti lo stesso e ci hanno provato.
Le piazze sono collegate tutte a due grandi strutture, distanti l'una dall'altra, ma avvolte da fili e candelotti di dinamite in maniera equivalente.
Si attende la miccia. Non si sa dove sia ma tutti sanno che c'è. Le strutture esploderanno e collasseranno in sincrono, mentre tutti non sanno più cosa fare, mentre tutti sono consapevoli di morire. Una morte programmata, calcolata, prevista, voluta, quasi pretesa. L'ora è arrivata.
Il vuoto che aleggia sembra crescere a dismisura. C'è chi abbozza una preghiera, poi si blocca, ripiomba il silenzio. La lancetta si ferma all'ora esatta e da lontano si avverte un giro di fogli. Qualcuno che volta delle pagine. Poi un gettito d'inchiostro ed una firma. La miccia è accesa.
Non ci resta che fare il conto alla rovescia. Tre, due, uno, zero. Dei piccoli lampi di luce saettano nel cielo. Scie che annunciano destini perduti.
Un fumo carico di cenere si espande dalle basi di ingresso. Si crea una nuvola plumbea ed i due Tribunali, di Ariano Irpino e Sant'Angelo dei Lombardi, vengono giù come se fossero di carta pesta. Nello stesso momento un nuovo terremoto scuote le piazze che implodono a loro volta. Contenimento costi raggiunto. L'economia vince sulla giustizia, che paga il prezzo più alto.
E' una costante di questi tempi. Giustizia negata che si trasforma in un futuro cancellato. Tutto si sfalda, niente si salva. Neanche un misero pezzo. Ecco la fine, la fine dell'Irpinia "decretata con decreto". The End

NEL BATTITO LA SUA CONDANNA

Spesso la luna ha un volto familiare. È uno sguardo severo che niente dice ma che indaga nel nostro lato di mondo, nella nostra vita, quella che spesso teniamo celata agli sguardi indiscreti, come un segreto inconfessabile.
Muta, immobile, un pezzo di luce che tenta di schiarire un colore cupo e quasi spettrale. Cosa potremmo aggiungere a questa esistenza se non la parola fine?
Se potessimo scappare da questo corpo, che ci lega anima e cuore al presente, potremmo trovare la forza di darci delle risposte, eppure ci lasciamo travolgere dalle domande. Intanto il sangue scorre e continua a inondare la nostra pianta di nutrimento.
Se solo potessimo fermarlo, se solo potessimo farlo uscire e farlo tornare purificato, allora accetteremmo il dissanguamento senza fiatare, senza perdere i sensi. Chi non ha mai concesso asilo al dolore?
Ognuno di noi lo ha fatto. Spesso consapevolmente altre volte senza rendersene conto. È entrato e non è uscito il dolore così come è entrato e non è uscito l’amore. Ogni cosa, anche opposta ed incompatibile, rimane impressa nel cuore.
Eppure nessuna ombra prende forma se il cuore non vuole. Nessuna parola vibra nella testa se il cuore non la fa sua. Nessun sorriso ti libera dalla tristezza se il cuore non decide di lasciarsi liberare. Nessuno sguardo ti trafigge se il cuore non decide di perdersi in quegli occhi. Nessuna carezza ti scopre nelle difese se il cuore non si lascia scoprire. Nessun abbraccio ti avvolge se il cuore non si lascia avvolgere. Niente e nessuno entrerà nella nostra vita se la porta del cuore rimane chiusa, tranne il dolore.
Quello entra senza chiedere il permesso, senza dare al cuore alcuna alternativa. Vorremmo poter guardare senza gli occhi, vorremmo poter sorridere senza la bocca, vorremmo poter correre senza le gambe, ma nessuna di queste azioni è possibile senza una determinata parte del corpo, ognuna dipende dall’altra, non ci sono storie.
Solo il cuore è condannato a fare tutto da solo, a vivere il dolore nella carne, giorno per giorno. Povero cuore costretto a indossare, spesso, abiti che non gli stanno a dovere, a stringere i pugni per non lasciarsi corrompere dal resto del mondo, a sfiancarsi nonostante la stasi degli altri muscoli, perché il cuore batte anche quando il corpo riposa e nel battito è insita la sua condanna. Scala le montagne del nostro ego, si precipita verso la meta, alla fine riprende fiato e ricomincia la discesa, in un moto senza interruzioni, in un solstizio di sensazioni. Ha resistenza, soffre, si dimena, si graffia, sanguina ma non si scoraggia, sembra sconfitto, vorrebbe cedere la staffetta, ma non c’è nessuno che lo aiuti. Il cuore batte, sempre e comunque, in estrema solitudine.
Basterebbe concedergli un po’ di riposo anche solo per un secondo, o poco meno, giusto il tempo di spegnere la luce e resettare ogni cosa. Un lampo di sogno basterebbe. Ogni pensiero ed ogni emozione che fa male potrebbe essere eliminata per dare al cuore la possibilità di pulsare ancora, il secondo seguente, senza pesi e senza strascichi di sofferenza.
Solo l’amore basterebbe a dargli la speranza di non battere invano.  

FORSE E' STATO SOLO UN CASO



Su questo siamo d’accordo. E’ vero, la vita può essere difficile, severa e piena di ostacoli. Ma sono questi ostacoli a farci grandi, anche quando ci annientano. Quando davanti a noi si aprono due strade, quando ci sono delle scelte da fare è allora che si crea la frattura del mondo in due parti, da un lato i buoni, dall’altro i cattivi. Chi sceglie deve essere considerato un uomo, non importa quale delle due strade scelga. Chi ha deciso lo ha fatto assumendosi tutte le conseguenze. Mi chiamo Davide, sono un partigiano, ho scelto la libertà e la liberazione come condizione per la mia redenzione. Sapevo che questa terra aveva bisogno di sacrifici e se ero in grado di tenere in mano una pistola allora potevo combattere il fascismo. Avrei dato la mia vita per la liberazione. Avrei donato, senza lesinare, tutto il mio sangue alla resistenza. Non fate l’errore di pensare che partigiano significhi essere soltanto “un comunista”. Nella resistenza al fascismo una componente molto significativa fu quella cattolica. Io ero uno di quelli. Aiutavo Don Mario nella sagrestia e spesso tenevo lezioni di catechismo ai bambini. Avevo tre figli piccoli e mia moglie era morta sotto i bombardamenti. Avrei potuto scegliere solo una strada e quella scelsi. Così decisi di diventare un combattente armato. Non facevamo parte di un esercito regolare. Organizzati in bande tentavamo di fronteggiare il dominio tedesco e di ingaggiare quella che molti chiamavano la guerra “asimmetrica”. Non eravamo soldati. Eravano legati alla difesa del nostro paesino, delle nostre genti, dei nostri luoghi, delle nostre mura di casa. Ettore, invece, scelse di lottare dall’altro lato. Decise di essere un figlio di Salò. Eravamo compagni di scuola, avevamo trascorso buona parte della nostra infanzia a dividerci ogni tozzo di pane. Eravamo amici e ben presto saremmo diventati nemici. Ettore voleva seguire Mussolini, diceva di aver scelto l’Italia, il suo governo. Diceva di essere dalla parte del giusto, idealizzava la rinascita di una minoranza che ben presto sarebbe diventata, nuovamente, maggioranza. Era senza timore e senza paura. In questo eravamo uguali. Ognuno di noi si è battuto sino alla disperazione credendo di avere la ragione assoluta dalla propria parte. Con Ettore ci siamo affrontati a viso aperto. Entrambi avremmo dato la vita per un ideale, giusto o sbagliato che fosse a questo punto non ha più importanza visto il corso che ha preso la storia. Eppure, avevamo lo stesso sangue che scorreva nelle vene, gli stessi tratti italici, la stessa pelle. Abitavamo poco distante l’uno dall’altro, ci separava l’idea. Io avevo nei cromosomi l’idea della liberazione dal Nazi-Fascismo, lui aveva impressa a fuoco l’idea della supremazia e della lotta a fianco dei Tedeschi. Due concetti che avrebbero portato all’implosione della nostra amicizia e della vita di uno dei due. Eravamo nati nello stesso paese, da bambini sognavamo e giocavamo come ed insieme agli altri. Correvamo lungo le strade storte rincorrendo la spensieratezza come una farfalla multicolori. Andavamo alla stessa scuola. Qualche volta bigiavamo per andare a nuotare nei campi di grano. Siamo cresciuti con persone simili a noi, ma oggi siamo giudicati diversi. Io il ragazzo della resistenza, il partigiano, lui il ragazzo di Salò, il fascista. Alla mia voce si può associare la voce di chi ha vissuto ed è morto per la resistenza e non solo, si può aggiungere la voce anche di chi ha perso. Per entrambi vivere la vita ha significato viverla fino al limite nella maniera che ognuno pensava essere giusta. Oggi non voglio parlare delle ragioni, quelle erano e sono ragioni che si possono giudicare positivamente o negativamente a seconda dei punti di vista. Le mie ragioni erano quelle della maggioranza del mondo civile che provava orrore e sconcerto per l’ideologia razziale ed antisemita della suprema razza ariana, per le violenze mortali subite dagli oppositori al regime. Ora vorrei spostare l’attenzione sulla vita dell’uomo e non penso che possa esistere una morte giusta o sbagliata. La morte, qualunque uomo rapisca, va considerata con timore e rispetto. Nessun cambiamento importante è posto in essere senza lacrime, senza dolore e senza spargimento di sangue ed il 25 aprile ci dovrebbe far comprendere non solo che i regimi e la tirannia andrebbero combattuti con ogni mezzo, ma soprattutto dovrebbe farci astenere dal giudicare semplicisticamente gli uomini e le loro scelte. Giudichiamo la vita umana e teniamola elevata, sempre e comunque, sopra ogni cosa. La vita di ognuno è idealmente suddivisa in due casi: chi vince e chi perde. E forse è stato solo un caso se io ho vinto, sopravvivendo, mentre lui è morto sconfitto. Per questo ancora oggi mi sento di dire, senza retorica, senza timore di essere smentito: viva la Resistenza e viva l’Italia libera.

SEGRETAMENTE IMPRIGIONATA

Come l’inverno con le sue corte giornate, come l’estate con le sue torride mattine, come la primavera con la pioggerella del primo meriggio, come l’autunno con il dipinto che lascia il giorno al trapasso della sera, così vorrei appartenere ai tuoi anni, al tuo passato, al tuo presente e diventare la predizione del tuo futuro. Amore mio, prima che la tua vita si legasse al mio triste percorso, prima che la tua benedizione arrivasse a detergere la fronte e l’anima inquieta, prima di ogni cosa era ancora separata la spuma dall’onda del mare, il corallo era ancora privo delle note rubiconde e orfano della preziosità degli intarsi, gli occhi erano incapaci di trattenere anche solo momenti di quiete mentre tutto il resto scivolava come imbrigliato nella corrente delle lacrime.
Ma quando il tuo arrivo ha dischiuso la soglia del mio cuore, quando risvegliandomi ho assaporato il dolce nettare delle tue labbra, quando il calore che emanava il tuo cuore è trasmigrato a portare ristoro al mio freddo supplizio, allora ho ritrovato il sapore del mondo, il gusto perduto, ed il tuo bacio mi ha totalmente circondata senza darmi via di scampo.
Così per tutta la notte, stretta nei tuoi rami rigogliosi, ho abbandonato me stessa al tuo dominio. Nella inesplorata natura selvaggia delle tue isole segrete ho trovato il medicamento e la cura, il balsamo e l’essenza di giovinezza.
Ed anche se fossi stata circondata da fuoco ed acqua lo stesso avrei provato a superare quegli argini solo per il piacere di essere tua, totalmente.
Lo sai, non sono capace di sognare se non di te, ed ogni visone onirica o semplicemente miraggio mi devasta nella tregua del risveglio. Ma quando il giorno mi ha scippato il tuo ritratto dalla mano, mentre provavo a delineare con le dita il profilo che il tuo corpo lasciava sulla parete, allora ho avuto il dono della tua presenza nel braccio che mi cingeva il corpo.             
Grazie a te l’illusione non vive più di notte, le strade conducono sempre alla tua dimora, i viaggi iniziano e finiscono nel confine del reale, nei luoghi e nelle città che abbiamo veramente vissuto mentre il canto del vento accoglie l’arrivo della mia nave nel tuo porto calmo.
Se solo riuscissi o potessi spiegarti quello che sono stata, prima di te. Quella che è apparsa essere stata la mia esistenza al resto del creato, quella che è stata la mia tristezza… allora tu stesso mi diresti di cancellare, come una mano che sfronda l’umidità da una finestra chiusa, tutto quello che ha generato il tempo andato.
Nel tuo essere vivo ed esisto, in esso rimarrò...segretamente imprigionata fino alla fine dei miei giorni.

Quello che volevo chiederti...

Ho una richiesta da farti. Te lo chiedo adesso, ora che siamo una treccia di carne e sudore, ora che siamo legati anima e corpo, ora che siamo noi...solo noi.

Lasciami senza fiato e prenditi buona parte del mio respiro. Lasciami senza battiti e prenditi buona parte del mio cuore. Lasciami senza forze e prenditi buona parte dei miei muscoli. Prendi buona parte del mio essere e ridammelo sotto forma di baci. Riempi i miei occhi del tuo profilo. Accogli quest’uomo tra le morbide mura del tuo corpo. Chiudi ogni uscita e lascia che la tua anima divaghi con la mia, nel nostro privato universo.

Voglio sentire la tua voce. Voglio custodire nelle orecchie le note delle tue parole. Quella danza di suoni e calore che fuoriesce dalle tue labbra appena colorate.

Assetato e senza dimensione, mi inebrio di vita e di piacere quando poggio la testa sul tuo seno ed il tuo cuore mi carezza la mente. Abbracciarti i pensieri, quello vorrei, eppure so di non poterli contenere. Sono un illuso lo so, eppure di quell’illusione mi sono vestito anche oggi. Oggi che ho avuto coscienza del tuo essere donna, nella lotta dei sensi e delle pulsioni. Oggi che esco sconfitto e soggiogato da questa passione.

Ma la carne non si placa. Pretende di averti ed averti ancora. Se tu sapessi l’immensità che si chiude nel tuo corpo, se tu sapessi quanto è grande questo fiume che scivola lungo la schiena e che mi inonda ogni volta che le mie mani si spingono ad esplorare ogni parte di te, allora capiresti l’agonia del non averti.

Viaggio nella musica della tua bocca, mi fondo con l’anima che riversi nella mia, anima selvaggia e voluttuosa. I tuoi capelli, la tua pelle, le tue forme contengono tutto un sogno, il mio sogno.

Ecco quello che volevo chiederti: “Ti prego non svegliarmi…”.

SE E FORSE - in memoria di Piermario Morosini

Era quasi un rito, qualcuno lo chiama scaramantico, ma prima di entrare in campo io guardavo sempre il cielo. Ogni volta che i tacchetti affondavano nel manto erboso, prima di ogni partita, scrutavo la faccia che aveva il cielo. Guardavo e vedevo quello che il mio cuore sperava di vedere. Gli occhi di mia madre, il suo sguardo, sempre attento, sempre presente, anche se assente nella realtà. La figura di mio padre, le sue sembianze così chiare eppure invisibili, la sua voce, l’eco di quel suo “stai attento…”. È strano ma anche quel giorno ho guardato il cielo. Il sole non riusciva a passare, l’aria sembrava cristallizzata, rarefatta. Si faceva quasi fatica a respirare o forse facevo fatica io. Ho visto solo nubi. Ho provato un senso di sconforto, una sensazione simile alla paura, ma è durata solo pochi secondi. Poi il fischio di inizio. L’adrenalina che entra ancora nei muscoli, la corsa, l’impegno, l’agonismo. Il tempo è passato così veloce che neanche mi sono accorto di essere sul punto di morire. Poi l’affondo del nemico, il dolore, ha sconfitto la barriera del mio corpo ed è entrato. Che mi avesse messo fuorigioco non solo nel campo ma anche nella vita non lo ha capito quasi nessuno, se non il mio compagno di squadra. Due volte le gambe mi hanno spiazzato, si sono piegate, sono caduto, mi sono rialzato, ci ho provato, la terza volta mi sono arreso. L’erba mi ha carezzato il volto e ho sentito le tue mani, mamma. Ho sentito la tua voce, papà. Abbracci e voci che non avevo più sentito da tanto, troppo tempo. Così la maglia che si sfila, mani che provano a far ripartire il cuore, le voci, le urla, i pianti, nessuno poteva sapere quello che già io vedevo chiaramente. Non c’era più niente da fare, non ero più su quel campo, non indossavo più i pantaloncini, non avevo più i capelli lunghi, ma ero in pigiama, nel lettone di casa, attratto dalla dolcezza dei sussurri notturni di favole incantate. Mia madre che legge il nostro libro preferito. Io e mio fratello assuefatti da quelle immagini fantastiche, poi le coperte che si alzano, il bacio della buona notte e la luce che si spegne. Come si è spenta oggi. Anche mio fratello è in campo oggi, mi sta vicino nel tragitto che mi porterà in ospedale. Ha ancora la paura negli occhi, mi fissa come se fosse preoccupato e disperato. Non capisce che anche per me il destino ha avuto lo stesso percorso, la stessa matrice matrigna. In fondo si è trattato di pochi attimi e niente più. La mia vita si è arresa ed i soccorsi non hanno potuto fare niente per portarmi via dal buio. Se fossero entrati in campo prima, se ci fosse stato il defibrillatore, se … se… se e forse… starei ancora qui a parlare della mia esperienza. Ma nessuno lo saprà mai perché i dubbi rimangono sempre alla fine dei conti, quando la vita di un ragazzo si inchina ad una morte assurda quanto inaspettata. Spero sia almeno servita se può servire la morte di un ragazzo come me …a rendere meno cieco il calcio. Se può servire a mettere le lenti di ingrandimento sui problemi e non sulle vittorie. Non so se il pugno nello stomaco sia servito a far comprendere la necessità di mettere al primo posto la salute degli sportivi e poi i risultati, in questo momento mi importa poco. Ho un solo rimpianto. Non averti visto un’ultima volta amore mio…non aver visto il tuo sorriso. Ti lascio il mio pensiero che corre, corre verso di te per stringerti e sostenerti in questo immenso vuoto che ti farà compagnia stasera. Cerca di essere forte, di non piangere ed abbraccia mia sorella per me. Non dimenticare che io sono lei.    

PRIMAVERA ED INFERNO

La primavera ha un fascino segreto eppure visibile. Il suo abbraccio caldo e rassicurante, la rinascita della natura, il suo mistico risvolto emotivo, la dolcezza delle sensazioni appena nate e già immense, da travolgere ogni cosa, somigliano alle piccole gemme che, sui rami intrecciati, si aprono e fanno capolino alla vita. Germogli di sensazioni che prendono corpo anche dentro di me. Stamattina c’è il sole. La notte appena trascorsa voglio lasciarla alle spalle. Faccio una doccia veloce, mi libero del disgusto e della ferita appena inflitta, poi esco. Voglio uscire, sentire il tocco sulla pelle dei primi raggi di luce, voglio farmi spazio nel tepore del sole, dopo tanta neve, voglio rinascere gemma, i petali li ha già recisi lui. Ho dirittto a reclamare un attimo di tregua. Dimenticarmi del male è impossibile ma voglio fare un passo in avanti e non guardare indietro. Sono appena le nove, entro ed esco dalla doccia velocemente, mi asciugo i capelli. Prendo il phon e mi guardo allo specchio. Devo decidermi a tagliarli, reciderei il passato in un secondo. Inizio ad asciugarli. Le mani si infilano nelle ciocche nere e si muovono esperte come sempre. Una nuvola di vapore si spalma sul vetro, forma un’immagine imprecisa. Istintivamente, con una mano, cerco di aprire un varco, di smuovere e cancellare l’opacità appena formata. È questione di un attimo. L’iride percepisce il riflesso e rimango impietrita. Un gioco multifocale di illusioni poi, per un istante interminabile,  il sudore inizia a scorrere dalla fronte senza gererare alcuna goccia. Eppure lo sento scivolare dalla fronte, sul collo, un movimento sinuoso e fendente, come se mi tagliasse le corde vocali entrando dalla pelle. Attimi ancora attimi ed il cuore si inarca, come fosse imbizzarrito, sembra che si sposti dal petto. Avverto uno strappo, un dolore pungente, stringo l’accappatoio ed afferro anche la pelle. Voglio liberarmi di ogni cosa ma non ci riesco. La pelle mi sta costringendo a morire dentro me stessa. Sto per esplodere, lo sento. Il battito mi sfalda le forze. Batte come un pugno di chiodi nello stomaco e nelle tempie. Gli occhi sembrano roteare su se stessi, non riescono ad avere un punto fisso da guardare. Sembra che se ne stia andando anche la vista. Quello che ho davanti, che si proietta nello specchio è l’immagine di una lenta ed improvvisa agonia, senza motivazione e senza senso, ma c’è, la sto vivendo in diretta. Mi sembra di percepire un respiro affannosso che mi fiata sul collo. Ma sono io, è il mio respiro che si fa cupo, intenso. Inizio a singhiozzare. Nella mia bocca non entra ossigeno, solo aria che brucia. Si accavalla con i battiti del cuore e crea un antagonismo perfetto. Assurdo. L’angoscia risale dal pavimento bagnato. Ha la forma di una vecchia corda, rugosa, che si aggrappa alle gambe.  Mi stringe con violenza. Mi blocca nei passi che avrei dovuto fare per uscire dal bagno, per chiedere aiuto. Non riesco a muovermi. Sono pietrificata. Mi guardo intorno, chi c’è che mi osserva? C’è qualcuno che si gode la scena! Avverto una presenza subdola ma non vedo né capisco di cosa si tratti. Vorrei urlare, gridare, piangere, mettermi a supplicare, ma la mia paura cementifica ogni cosa. La mia anima si limita a soffrire senza chiedere aiuto. Dentro di me si ritira la speranza ed entra il dolore. Come uno tzunami mi prende e mi inonda di lacrime. Lacrime che vorrebbero uscire dagli occhi ma rimnangono dentro a sommergere ogni istinto di fuga. Non so ancora cosa mi stia succedendo ma ho una sola certezza: sto morendo. Un movimento repentino delle caviglie e mi ritrovo per terra, come se volessi raggomitolarmi sul pavimento per non sentire più dolore e sento un lamento, che smuove i miei muscoli. Non l’ho mai sentito prima d’ora. È il lamento di una bambina che piange, che si dispera, che dice non farle del male, di smetterla. Quella bambina sono io. Voglio inconscimante riappropriarmi del passato per cancellare il presente. Ed ogni singola fibra del mio corpo continua a tremare insistentmente. Come se fossero trapassate da mille fili di corrente elettrica ad alto voltaggio. Tremo quasi epiletticamente. Una spossatezza sovrumana mi vince. Un nemico silenzioso è entrato nella mia vita stamattina. La primavera è scomparsa nelle fauci dell’Inferno. Contro di lui non esiste difesa. Io mi sono arresa senza dargli modo di combattere per conquistare quel che rimane di una donna distrutta. Poi, come era arrivato, così è fuggito. Ritorna quella sensazione che tutto è passato, l’oppressione che si addolcisce e che, lentamente, diminuisce nella forza e nella potenza. Il polmoni ricominciano a respirare senza fatica. La gola si riappropria della deglutizione. La bocca emette solo un piccolo ma percettibile suono. La mia voce è quella di sempre, sono sconvolta ma viva. Contro con chi ho lotatto? Gli occhi riprendono la loro originaria brillantezza, riescono a guardare di nuovo nello specchio e li ci sono io. Sono di nuovo io. Il panico: è lui che mi ha teso l’agguato, che ha riversato al sua energia distruttiva sulle mie forme, che ha squarciato la calma apparente del mio universo femminile. Travolta, messa a soqquadro, agonizzante, ho appena vissuto il mio inferno privato. Travolta dal tutto, dalle emozioni che avevo forse represso, come un gancio nello stomaco, proprio quando mi ero fermata per dare a me stessa un attimo di tregua. Datemi ancora un goccio di primavera, ve ne prego. Ho sete di vita.  

PICCOLO PAESE MIO...

Ti prego, non lasciarmi, raccogli quello che resta di me in questa sera di luna senza lucciole. Ho l’anima ferita eppure riesco ancora a vedere nel riflesso dei tuoi occhi pietrosi la voglia di tenermi stretta, di farmi rimanere. Piccolo paese mio, parli come un padre afflito davanti alla disperazione di una figlia che vuole perdersi nelle sacche oscure della notte. L’evasione potrebbe essere la soluzione, ma a che prezzo. Come in un simulacro di cartapesta la pelle attira il battito del cuore che rifiuta di arrendersi, che vuole resistere all’inedia del presente. Una falena vola all’impazzata e si uccide cercando di rimanere quanto più vicina possibile alla luce, labilissima ma fondente, di un piccolo fuoco di stoppie. Potrebbe essere il mio destino e la paura mi assale repentina, mi arde la gola. Dalle pietre risale un sospiro che nessuno può sentire. Impercettibile eppure intenso, fa tremare ogni cosa. Come una spina velenosa punge l’anima. Povero spirito inquieto, non ha sangue per soffrire eppure si dimena e si annienta nell’agonia di questo silenzio. Ho in mano un filo che mi riporta verso il borgo della mia infanzia. Lo riannodo al gomitolo e ritorno bambina, scendo fin nel grembo di mia madre. Poi rinasco e nuovamente mi trovo nel punto da cui sono partita. Eccomi, quella sono io che beve alla fontana della piazza, che si disseta senza conoscere il senso del domani, inconsapevole di esistere nella terra dei lupi. Se solo qualcuno volesse prenderne un capo potrei condividere questo immenso bene che ho per la mia terra, eppure, urge il desiderio di fuggire, anche se pesa di più la voglia di rimanere, non per sopravvivere ma per esistere. La terra mi chiama per nome, con quella voce soave e pur cangiante. Un brivido mi trattiene, trasfigurando una presenza. Uno spirito ancestrale si materializza nel tempo, poggia una coperta sulle mie spalle, mi avvolge il passato all’improvviso, nasconde la debolezza dalla luce del giorno. Ha lasciato che i miei sensi non vacillassero davanti alla voglia di evasione ed io ho deciso di richiudere le ali in questo paradiso dipinto dall’uomo e dalla natura, fatto di pietre e stemmi senza tempo, un cesello senza eguali nel verde di questa montagna.
Sono un passero che non migra al calare dell’inverno. Nessuna esitazione, quando si apre la visione nello specchio della vita, prendo quel che offre il tempo in questo momento, in attesa di vivere il futuro mentre il passato mi osserva, muto attende una fiamma che lo ravvivi nel ricordo. La solitudine è un’abitudine di cui non vorrei mai fare a meno. Qui ho tutto il silenzio e la quiete che mi serve per sentirmi viva. Il fragore ed il frastuono lo rilego in quel pezzo di mondo che non mi appartiene. Nei piccoli paesi di questa immensa irpinia, simile ad un pezzo d’argilla, si forma la speranza di poter vivere ancora, di battere l’accecante dilagare del malcostume, di riprendersi ciò che ci appartiene, salute, lavoro, la vita tutta intera, la dignità senza prezzo. Nelle gambe ho ancora i passi che mi ricongiungono con la vita che ho deciso di vivere. Rimango perché so che altrove potrei morire. Ogni altra cosa si perde nella tormenta del quotidiano assalto alle nostre terre. Lasciateci in pace, non vogliamo essere salvati da chi depreda le nostre speranze più elementari.






LA MORTE DELLE PAROLE


Dammi tregua. Te ne prego. Te lo chiedo per favore. E' inutile. Nessun compromesso né frasi di convenienza, né possibilità di fuga. Lui non ne vuole sapere. Tesse l’agguato, mi bracca, mi prende alla sprovvista, mi avvolge con tenacia, inasprisce la stretta, mi lascia senza fiato, mi risucchia nel suo vortice, mi toglie le forze. Violenta ogni mia resistenza, quando arriva non c’è parola che tenga. Prende ogni cosa, ogni singola parte della mia sensibilità e la distrugge, insieme alle mie inutili richieste di pietà. Questo è il silenzio. Questo è il suo dramma, il suo sporco lavoro. Un tormento di inutili attimi che passano interminabili. Come una lama invisibile che entra nella schiena, strappa il respiro, riduce la forza a brandelli. Così il silenzio agonizza nella mia mente, riprende il suo posto da padrone. Eppure avevo sperato di non avere più le sue mani addosso. Mai più mi ero detta. Avevo sperato di vivere nel rumore dei giorni che si sfilano veloci. Il frastuono avrebbe evitato di far partire il pensiero. Avrebbe evitato di lasciarmi nelle acque mosse del suo ricordo. E, come se non bastasse, la tristezza, sua fidata schiava, arriva come un fulmine, appena il silenzio apre le porte del mio castello. Non ditemi che sono stata io a volere il suo ritorno. Non avrei mai permesso al vuoto di radere al suolo le ultime barriere della mia anima indifesa. Eppure è tornato. Ritorna con l’avvento della notte, quando il buio si spalma sulle mie forme, come argilla fusa, mi ingabbia e mi blocca, permettendo alla debolezza di riacutizzarsi nel cuore. “E chi ho tanto amato nel mare del silenzio ritorna come un’onda nei miei occhi…”. Ritorna il pianto, ritorna la forma della sua voce, ritornano le carezze, ritorna la sfida, ritorna il desiderio, ritorna ogni cosa che assomiglia o ha la sembianza dell’amore ma in realtà è solo un sogno oppure un incubo. Rinnegare me stessa, è un passo brevissimo che mi sono imposta di fare in avanti. Eppure, se il cuore ordina un movimento e la testa o l’orgoglio lo rifugge, è allora che inizia l’agonia dei sensi, di quello che si desidera con ardimento ma che non potrà mai realizzare. Pensieri, paure, emozioni in un balletto tragico e reale dove la musica è sempre la stessa e non cambia mai. Io, sola in ostaggio del silenzio, riprendo la via della solitudine e strappo con forza le resistenze del corpo. Denudata e priva di barriere oramai sono sola, senza nessun ostacolo. Ed in questa prigionia la follia spara il suo colpo diretto alla tempia. Un proiettile che si conficca nella carne, che brucia ogni cosa, che mi divora dall’interno, che non lascia spazio al ragionamento, che non lascia spazio alla voglia di ricominciare. Ricoperta di silenzio sono niente. Niente senza una voce che mi tiri fuori dalla morte delle parole.

AMICO, TU SEI QUEL RAMO

Quante volte ho pensato di essere solo un soffio di vento, buttato lì per caso, in una mattina soleggiata di maggio inoltrato.
Altre volte, in una notte di luna piena, ho immaginato di essere segretamente legata alle ali di una farfalla notturna che si agita e si ribella alla cupezza della notte cercando la luce come unica ragione della sua esistenza.
Altre ancora, assorbita da un lampo bluastro, ho squarciato il cielo pallido... ed ho provato a capire se qualcuno ci osservava da lassù.
Ma, il più delle volte, ho immaginato di essere una goccia d’acqua che, caduta da un nuvolone carico di grigio, scivola lentamente su un albero ricurvo. Essenza liquida e trasparente, che inebria e rimbalza su una foglia rinsecchita, attesa da una piccola gemma pronta a schiudersi. Da quella forma di vita bagnata sono stata rapita per diventare un’unica particella con l'albero che aveva generato prima il fiore, poi la gemma ed infine il frutto. 
Ogni mio segreto, ogni vita vissuta nel pensiero di essere o voler essere in altri luoghi o in altri corpi, a te, caro amico, non l’ho mai nascosto. Tu che conosci il disegno del mio cuore, tu che conosci le piaghe che si generano in esso, tu che sussulti davanti alle mie debolezze, tu che sopporti le lacerazioni del mio cangiante pensiero.  Ogni mia confidenza, ogni mia parola ricercata per dire quello che già sapevi, è custodita nel tuo spirito silenzioso.
Hai sempre sorriso ed aperto le braccia per proteggere e nascondere, nel tuo immenso spazio libero, la mia vita o quello che ne rimaneva. La notte è profonda, le mura avvertono l'assenza di parole. Anche gli abitanti del crepuscolo tacciono per dare posto agli abbracci dell'anima che tu mi doni senza eguali.
Con piccoli passi mi porti, di nuovo, lungo le strade della nostra giovinezza. Ti ho rivelato, tra lacrime esitanti, tra dolore, ansia, debolezze, rissose verità, il segreto del mio cuore. Ho atteso a lungo, davanti alla tua porta e tu, nell’attimo prima che io lanciassi un pugno fragoroso, hai aperto.
Sono io, l’emissaria di me stessa, fammi entrare e donami un attimo di ristoro, ho bisogno di riposare.
Sai, hai camminato per tanto tempo accanto a me, senza che me ne accorgessi, hai guardato dalla mia stessa finestra, le fasi del giorno e della notte trapassare veloci, hai urlato con la mia stessa voce parole dense di tristezza, hai pianto con le mie stesse lacrime per arginare una ferita lacerante.
Tu sei quel ramo, la parte immobile del mio albero, quello che è carico di più foglie e quello che, nonostante tutto, soffre meno le tempeste, si agita meno al vento, ma che si carica di pioggia a tal punto da provare dolore ...e lo fai solo per non farmi bagnare. Sei l’essenza che nutre le mie radici e permette alla mia pianta di crescere e ramificare fino a raggiungere mete inesplorate.
Sei l’amico della mia anima, del mio cuore, sei vero, sincero, sai donarmi calici di felicità pura. La luce dei miei occhi si lega alla musica delle tue parole. Musica che, ogni volta, mi salva dall’oblio.
Eppure, solo ora che sei un ricordo, un momento meraviglioso di esistenza terrena, quando i nostri passi si incrociavano battendo lo stesso terreno, quando nelle interminabili chiacchierate tu mi porgevi la spalla per sorreggere il mio passo incerto, solo ora vedo il ramo....ma senza le foglie.
Quando uno stridore fortissimo ha staccato, in un istante, una ad una tutte appendici della tua vita...tu hai ampliato il vuoto, inconsapevolmente. Immenso dolore e profondi silenzi sono rimasti a farmi da scudo.
Hai preso tutta la linfa del mio tronco e l’hai bevuta voracemente. Mi hai tradito....quando mi hai detto che non saresti mai andato via. Ora sono battuta da mille tormente e non ho più foglie per ripararmi...la pioggia, la grandine, i lampi, mi segnano, ogni giorno, la tua assenza.......so che non resisterò a lungo.
Quello che tu mi hai insegnato, la lezione di vita più autentica, si conficca nella mia volontà come un pugnale affilato. Se hai avuto un vero amico....se sei stato toccato da un angelo in fuga dal cielo, allora devi essere pronto a diventare un amico.
La notte sta per arrivare...se qualcuno avrà bisogno di legna da ardere...io sarò pronta a donare i miei rami.





SE SOLO POTESSI MORIRE DI NUOVO...


Padre... credevo, anzi ero certo che il mio viaggio fosse giunto alla fine. Quando sono salito, fino dove Tu sedevi, pur sentendo venire meno le forze, sono corso ad abbracciarti. Credevo, ero sicuro, che la strada, oramai si fosse chiusa alle mie spalle.  Quello che era stato era stato e tutto il resto sarebbe diventato solo una storia da raccontare, innestata in miriadi di preghiere. Nell’istante in cui il cielo è diventato una trave pesantissima, quando ho avvertito lo spirito anelare nuovamente l’uscita veloce dal corpo, quando ho abbracciato l’aria ed ho visto l’orizzonte tingersi di un nero plumbeo, quando ho sentito l’odore del buio scendere sulla terra...quando tutto il mondo è parso trasformarsi in una immensa fornace... allora... il lume dei miei occhi ha visto la strada del ritorno, la discesa da ripercorrere, il supplizio da rivivere.
Lo confesso...qualche lacrima la sento, pare indietreggiare....cerca di non debordare dalle palpebre. Non voglio che Tu mi veda piangere. Non lo farò. Quello che voglio è che Tu mi ascolti, che Tu senta le parole di questa mia supplica, ma non dire niente, “lascia che io finisca...quello che vedo ancora incompleto...”.
La provvista del mio cuore, quello che avevo donato con tanta trepidazione, dolore e sofferenza, di fronte alla Tua ricerca di verità....era o sembrava essersi esaurita. Credevo che fosse oramai giunto il tempo di trovare riposo al Tuo fianco, nella luce del monte più alto, quello che non sembra finire mai....ed invece, la vita si è legata nuovamente alla morte che ho appena sconfitto. Essa riviene nuovamente nei miei pensieri aprendo...di nuovo....quella porta ... mi indica il passaggio. Padre mio...quando ho visto, udito, inteso il senso di quello che veniva vissuto ho capito....e questa volta sono io che te lo chiedo. Tu ascolta la mia preghiera, Ti prego ascoltami!
Lo sai, ogni parola ed ogni frase ammette interpretazioni, quella che uno pensa sia la verità assoluta è per un altro l’articolo che precede la bugia, la nervatura più profonda del dubbio. Esse potrebbero sembrare opposte parafrasi di pensieri eppure, in ognuna di esse, è insita la cruda realtà dell’esistenza, del vivere e morire, sempre e comunque.  Ho visto, conosciuto ed ancora conosco tutte le vite del mondo, nella mia pur breve esistenza. Avevo trentatrè anni e non dimenticherò mai il Tuo sguardo... Padre. Così simile al buio della notte...così intenso da penetrarmi nell’anima e dare il primo colpo di spada al costato. Quando ti ho chiesto di lasciarmi vivere ho preso la Tua risposta come una devozione di fede. Ho agito come se il sacrificio non dovesse costarmi niente, come se la paura non dovesse corrodermi le emozioni...ho continuato il calvario, a salire senza dare un colpo di fiato, senza prendere un respiro che non fosse pieno di polvere. Neanche per un istante avrei liberato il corpo dal dolore immenso che provavo...sarei potuto volare in cielo come una nuvola primaverile, scomparire senza lasciare traccia, se solo....anche per un momento ...avessi deciso di abbandonare tutto...e non tenere fede al destino che Tu avevi scritto per me. Morire e morire per l’eternità, ogni notte ed ogni giorno che nasce, ricamare nella carne la vita dell’umanità e perdersi per essa. Quando, tra le stelle più brillanti del cielo, ho visto la forma che doveva avere il mio domani, non mi sono detto “lascialo andare....” ho deciso di dedicare ad esso la poesia dell’anima mia e forgiarne l’essenza vicino a quell’ulivo secolare.  Ho rivisto il sangue che lasciava veloce le vene... avevo donato tutto quello che ero all’uomo, divagando nell’aria violenta di quel pomeriggio tempestoso, in esso la mia esistenza, quella che si ritrae nelle preghiere notturne, ha vinto la distanza con te...Padre... per dosare, in un raggio di sole, la verità della mia tristezza. Nel sigillo dell’infinito anche l’eterno mi sorride e dona nuova luce a tutte le albe che dipingi con le Tue sante mani. La creazione è in me sintesi di anima immortale.  Padre... se non mi avessi donato un’anima immortale, io Ti avrei chiesto di avere solo un giorno per conoscere il vero amore, quello degli uomini giusti. Li avrei trovati tra mille ed a questi avrei chiesto il perché delle cose. Trovare dove si nasconde il peccato che infiamma il mondo... sarebbe diventata una necessità assoluta ed incommensurabile. Una delle verità più certe e più consolanti della fede è sapere di vivere eternamente. So che la morte mi è stata data da Te... Padre. Io non la rifuggo. Non vorrei mai separarmi da Te ma accetterei di morire per dare a loro, nuovamente, il mio sangue come tributo di giustizia. Voglio morire, come sono morto e per le stesse ragioni consentirei al centurione di scavare di nuovo non uno ma cento buchi nelle mie mani. Alzerei di gli occhi al cielo e pregherei nuovamente come sul monte duemila anni fa. Vorrei subire, di nuovo, le umiliazioni della via dolorosa, il freddo del sepolcro, il cuore che si ferma...di queste moltiplicarne gli effetti sulla carne. Voglio morire perché la fine del mondo è già arrivata ma nessuno se ne è accorto. Passi da me questo calice” ...di nuovo agonizzare e sudare sangue, accettare il sacrificio con la stessa paura con cui lo accettai in ginocchio e piangente. Troverei certamente chi potrebbe tradirmi senza avere nessun rimorso....accetterei la fustigazione come ulteriore e sommo dolore prima di risalire il calvario. Abbandonare l’anima mia nelle mani Tue...Padre Mio...di nuovo...affinché sia fatta, questa volta non la Tua ma la Mia volontà. Voglio morire, per lasciare che il sole sorga di nuovo sui letti dei bambini, piano piano, come una mano che lentamente apre le tende e lascia entrare la luce nella stanza...a riscaldare e dare speranza.
Voglio morire quando tutti sono a letto e dormono, lasciando che la terra imploda silenziosamente per poi farla rinascere in un secondo, senza fare rumore, prendendo solo poche spighe in un campo di grano. Le porterei con me nella mando destra e le lascerei all’ingresso della porta celeste come pegno di quello che volevo in cambio da loro. Poche elemosinate briciole del loro amore. Niente in confronto a quanto Io li amo. E quando il sole radioso avrà inondato tutto il mondo, quando essi si saranno risvegliati dal tepore della notte, quando i loro occhi si saranno dischiusi e fermati ad osservare le distese innevate... quando ogni valle, ogni campo e radura sarà diventata solo un manto bianco, allora Io non sarò morto invano, di nuovo.
Si...voglio morire, con tutto quello che accompagna la morte di un uomo. E per loro terminerei nuovamente i miei giorni nella solitudine del sepolcro, attendendo anche cento anni prima che sorga il mattino della rinascita eterna. Versa di nuovo il mio sangue in questo calice, lascia che io lo beva di nuovo, mescola in esso tutto il male del mondo, disciogli la paura, l’ansia, la trepidazione, la malattia, la guerra, l’abominio, la fustigazione, la violenza e tutto l’inferno che trae beneficio dal crimine. Io lo berrò senza lasciarne una goccia, avrei nella mente solo il profumo delle rose, la mano calda e tenera di Mia Madre che mi pettina i capelli, l’unguento profumato che massaggia sulle mie ferite...il suo sguardo davanti alla croce, filtro che infonde coraggio al fanciullo che piange davanti ad un cane ringhioso.  Lasciami risorgere tra le strade della povertà più tremenda, degli ospedali, delle anime in pena legate un filo di salvezza, delle stelle cadute in un pozzo di petrolio ardente, delle mura fredde di una casa abitata dal dolore. Lascia camminare, di nuovo, al mio fianco il Demonio. Lascia che io gli tenda la mando nell’attimo in cui vuole ferirmi a morte. Lascia che gli mostri la bellezza dell’anima che vive di preghiera, che carezzi il suo volto livido di rabbia. Sono sicuro...potrei cambiare la tragedia che incombe...in una storia a lieto fine.
Quello che chiederei? Solo una preghiera, pur veloce o detta senza pensarci, vorrei sentirla mentre risalgo la crina del monte e così come Io mi sono consacrato a loro così vorrei che il mondo, da questa mia piaga, rinasca nuovamente. Voglio morire, perché l’amore che da essa potrà generasi è più forte di ogni cosa. Chi dona la vita per amore giunge al trionfo e corona la vittoria che ha sempre anelato. Voglio morire, di nuovo e farli ritornare come erano al principio. Voglio morire e donare nuovo spirito, come quando uscirono dal grembo delle loro madri. La morte mi serve come una benedizione, purificherebbe la macchia indelebile di quello che sono diventati, in essa potrebbero trovare anzi... ritrovare loro stessi, anime incredule in cerca di troppe risposte.
E la mia morte, nella superbia di quanti la temono, nella idealità di quanti l’anelano come momento di chiusura del dolore, quanto bene potrebbe portare: “Padre...se solo potessi morire di nuovo...”


ACCETTA UN CONSIGLIO

Mi sono sempre chiesta a cosa servano i consigli. Il più delle volte non li seguiamo o semplicemente li ignoriamo.

Spesso siamo consapevoli di incorrere nell’errore ancora prima di concepire l’azione eppure cadiamo ugualmente nel tranello dello sbaglio, salvo poi pentirci e rimuginare sul perché non abbiamo desistito. Una volta mi sono fermata ad ascoltare un vecchio che parlava da solo. Il suo cervello abitava dentro un corpo che non gli apparteneva, parlava come se fosse stato un bambino, anche se aveva quasi ottant’anni. Mi sono fermata a pensare come poteva essere stata la sua vita, cosa lo aveva portato a regredire in uno stato di fanciullezza. Un’ipotesi è balenata alla fine. Doveva essere uno dei tanti che aveva preteso troppo dagli altri e poco o quasi niente da se stesso. Essere convinti di aver sempre ragione è un acido corrosivo che, a mano a mano, distrugge la nostra vita e le relazioni consequenziali. Nessuno ha mai completamente ragione, il più delle volte è la percezione delle cose che gioca un ruolo fondamentale. Abbiamo la percezione di essere nel giusto perché ragioniamo dal nostro punto di vista, difficilmente ci compenetriamo nell’animo dell’altro. Costantemente alla ricerca della migliore soluzione per noi stessi, divergiamo o più tristemente passiamo la nostra vita a seguire strade che, spesso, ci portano in una parte del mondo che neanche immaginavamo esistesse. Nessuno sa cosa c’è alla fine della strada ma, allo stesso tempo, nessuno sa quale strada sarà la propria direttrice ideale. Vivere senza pretese e senza prendersi troppo sul serio è una verità quasi assoluta che nessuno comprende veramente se non alla fine dei propri giorni, quando il tempo che resta è solo tempo per sopravvivere. Simili alle formiche ci affanniamo alla ricerca di tutto quello che serve per superare gli inverni della nostra esistenza eppure, se potessimo mitigare la leggerezza della cicala, se fossimo una sintesi di entrambe, alla fine di ogni cosa, avremmo compreso appieno il significato della vita. Qualcuno diceva: goditi potere e bellezza della vita, li capirai sono quando saranno appassiti. Già. Siamo consapevoli di essere soli al mondo eppure viviamo costantemente in competizione con gli altri, ignari che il vero gioco si sviluppa con noi stessi. Dovremmo lasciare da parte l’invidia e concentrarci sulle nostre spinte, su quello che di buono noi riusciamo a creare, nella competizione giornaliera col destino. Guardare sempre al lato o sempre dietro modifica la percezione che abbiamo del mondo. Lo vediamo nemico quando in realtà è soltanto un luogo dove lasciare una traccia per chi verrà dopo di noi e non un terreno di conquista. La vita è una corsa, a volte siamo in testa, a volte ci affatichiamo nelle retrovie, ma quello che siamo non si definisce con un traguardo raggiunto, è qualcosa che prende forma solo nell’identità dell’uomo, non in quello che abbiamo costruito ma in quello che abbiamo condiviso. Si, prendiamo la felicità e facciamone tesoro, ci servirà spesso, come collante con la ragione per i momenti di sconforto. Preoccupiamoci poco del futuro, i veri problemi della vita ci prenderanno, comunque, di sorpresa. Saranno così improvvisi che non ci daranno tempo per pensare. Viviamo il presente con dedizione. Il tempo di oggi non ci verrà restituito domani. Ogni singola ora, ogni singolo respiro, ogni attimo di vita che fuoriesce dai pori, sono figli che escono dal tempio del nostro corpo e non torneranno più indietro. Per questo facciamo tesoro di ogni singolo istante, ognuno di questi sarà utile per farci ritrovare la strada del ritorno. Quando saremo vecchi guarderemo alle foto del nostro passato con occhi appassionati, sicuramente ci vedremo diversi da come ci vediamo ora. Gli occhi parleranno alla nostra più intima essenza, ci daranno la risposta, ci diranno se abbiamo vissuto veramente o semplicemente vegetato. Per questo accetta un consiglio o almeno accetta questo: vivi ora. Il passato rilegalo nei ricordi, il domani resta un mistero incomprensibile che si disvela solo nel momento in cui si realizza, il presente è l’unica certezza che ti rimane, anche se solo per un secondo.

L'AMORE CAPOVOLTO



È passata una vita, o un pezzo abbondante della nostra vita, e cerchiamo, magari tentiamo, di esistere ancora.
Non ricordo quando ho smesso di volermi bene, quando ho accettato di interpretare questa parte, quando la maschera che indossavo ha letteralmente scarnificato l’ossatura del mio volto, quando sono diventata tua senza alcuna pretesa. Che strana sensazione non aver orgoglio né pentimento. Prigioniera volontaria nel simulacro del mio corpo, carne assuefatta e drogata dal tuo essere. Siamo biunivoche particelle di una stessa materia. Si attraggono e si allontanano per poi avvicinarsi nuovamente, come in un gioco al massacro ed al perdono, dove la vittima ha sempre lo stesso nome, il mio.
Eppure siamo ancora qui a rincorrerci in un gioco dove tu non hai bisogno di fare tana, tanto io ci sono e ci sarò sempre. Non mi nascondo, mi faccio trovare. Mi lascio prendere e mi lascio abbandonare. E forse è proprio questa estrema libertà di esserci, senza esserci, senza dover esserci - perche non avrebbe alcun senso esserci - che forse ci ha, paradossalmente, permesso di esserci ancora. Non sono capriole di parole.
No, è l’essenza del nostro mondo, di quello che chiamiamo NOI, una volta ogni tanto. Tu non esci da me, entri. Rimani come flusso di sangue. È quel liquido purpureo che mi devasta, che mi rende folle, così folle da amarti tanto, da amare persino il tuo non amore per me. Tu sei la mia malattia. Non esistono trasfusioni per pulire il male che scorre, che piano mi devasta, con sapienza quasi certosina. Non mi uccide, mi lascia in agonia, fino a quando non ci rivediamo. Fino a quando la fusione dei nostri corpi genera il sogno, l’illusione di tenerti tra le braccia e pensare di tenerti nel mio mondo, dove tu sei solo mio ed io non potrei appartenere a nessun altro. In quei momenti, quando le parole si tramutano in sussulti di intensa passione, quando i tuoi occhi fissano i miei senza darmi modo di abbassare lo sguardo, tocco la cima più alta di questo paradiso infernale, quella che mi inebria e mi invade come acqua di mare.
Lo confesso, è questo “non-amore” che mi ha aiutato, che mi ha preso per mano, che ad “amor-vero” mi ha condotto. Ho messo tutto in conto ed il mio cuore trema ad ogni agguato della notte, quando la sfera del sole si addormenta e ritornano gli spettri ad agitare passioni mai sopite, fughe estreme senza ritorno. Non voglio convincerti a provare quello che non senti. Il cuore batte senza bisogno di avere una corda che lo metta in moto. I pensieri vagano e stagnano nella mente senza bisogno di cercare un luogo calmo per decantare. Le emozioni si infilano nella pelle e creano la tensione nei muscoli senza bisogno di scosse elettriche. Tutto nasce spontaneamente e così spontaneamente vorrei che tu capissi, che vedessi quello che hai davanti, che vedessi me, che vedessi i miei occhi, bagnati di lacrime e rimmel, quando lasciano il sentiero di casa tua.
Lo sai, talvolta è bene guardare l'anima allo specchio. Sulla destra vediamo la sinistra e ci sembra solo un gioco di riflessi. Eppure non c'è niente che assomigli di più al tempo, a quel signorile dottore che dispensa cure e condanne per i mali dello spirito e per le pene d'amore. Come la lucida lastra, il tempo ribalta certezze, forse dal dolore pietrificate, forse mai veramente vissute, forse soltanto anelate come oasi d’acqua nel deserto. L'amore capovolto, proprio come in uno specchio, ci potrebbe regalare nuove rifrangenze, non ancora estinte nel profondo del nostro cuore.
I grandi amori vissuti con la carne, con l'anima ridotta in schiavitù, a dispetto del tempo, dei giorni, potrebbero diventare l’unica verità che ancora resiste in questo mondo di menzogne e apparenza. Non ti chiedo altro, ti dico solo di guardarmi. Sono io lo specchio nel quale puoi vedere il tuo riflesso. Guarda quanto amore ho tra le mani, è così grande che basterebbe per entrambi, rifrange quello che tu potresti dare a me, fosse anche solo un pezzettino. Se solo riuscisse a passare lo specchio, potrebbe trovare il punto di crisi, aprire il varco per entrarti nel cuore, in quel tempio inaccessibile in cui vorrei poter guardare, almeno una volta. Se mi lasci entrare potrei seminare il bene che germoglia nella mia anima, lì esploderebbe in una nuova fioritura, diverrebbe la pianta da cui entrambi succhieremo linfa e vita. Capiresti…e forse solo allora proveresti anche tu cosa vuol dire amare un amore capovolto.










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