Se non respiri attraverso la scrittura, se non piangi nello scrivere, o canti scrivendo, allora non scrivere, perché alla nostra cultura non serve. - Anaïs Nin -
SARA' PERCHE'
Fino a ieri nessuno ha mai capito quanto mi AMAVI.
Ora la gente ha capito che mi AMI veramente.
Chissà perchè ha questa strana convinzione.
Sarà perchè parli di me con tutti.
Sarà perchè tessi, col mio nome, lodi incredibili.
Sarà perchè mi riconosci meriti che neanche sapevo di avere.
Sarà perchè mi regali ogni giorno dei fiori.
E' strano però.
Io ancora non l'ho capito quanto mi AMI.
Sarà perchè questi fiori non hanno nessun odore.
Sarà perchè questi vermi mi divorano il cervello e la ragione.
Sarà perchè c'è una distanza enorme tra me e te.
Sarà perchè c'è una lapide che ci separa.
UNA COSTANTE INCOSTANTE
Potrebbe essere come l’acqua di un fiume che scorre. Un moto persistente, perpetuo, che si insinua tra le pietre e la terra, generando percorsi lineari ma anche cascate imponenti, dove la corrente è forte e travolgente ma anche calma e senza forze. Potrebbe essere come il vento, come un tornado di grande calibro, brutale, quasi prepotente, che tutto modifica, che tutto spinge, che sblocca inverosimili staticità e che, spesso, scompone la perfezione delle cose. Così come potrebbe essere una leggera brezza di aria purissima che, appena accennata, assomiglia più al respiro di un sonno profondo che al risveglio della vita. Potrebbe essere una sorgente, inesauribile, di vapore, a tratti bollente, a tratti gelida. Un mix di sbuffi antagonisti, l’uno di riflesso all’altro. Vapore che rende morbida, ma anche dura, la materia che ci circonda. Umidità che liquefa, oppure indurisce. Materia che si trasforma in una colata di lava informe o in un cristallo policromo, bellissimo da vedere ma troppo sensibile davanti alle meteore della vita. Potrebbe essere un dolcissimo nettare salvifico o una velenosa pozione. La medicina che risana una ferita o puro arsenico, generato da illusioni e tradimenti. Potrebbe essere tutto ed il contrario di tutto ma, per ogni via che si apre c’è sempre un’opposta direzione. Per ogni interruzione c’è sempre un punto di ripartenza. Eppure, non occorre chiedersi cosa sia. Quando provi a ragionare negli schemi che ti eri costruito e ti rendi conto che sei già fuori da quegli schemi, allora la logica non ha più ragione di esistere. Quando sei convinto che è quella la cosa da fare e, dopo un attimo, hai la prova che quella era la più sbagliata da intraprendere; quando la vita ti spinge più in là del confine che avevi deciso di non varcare mai, è allora che ti trovi di fronte ad una scelta. Devi scendere a patti con lui. Con l’unica costante geneticamente incostante della nostra vita: il cambiamento. Perché ad ogni azione corrisponde la sua necessaria conseguenza, ad ogni inizio corrisponde la sua necessaria conclusione, perché non c’è niente che si fermi, che ti fermi, che ci fermi, in questo ballo senza tempo organizzato dal mutamento. Possiamo ritrovarcelo davanti, senza neanche averlo cercato. Possiamo essere travolti, senza neanche esserci accorti che stava arrivando. Possiamo farci rincorrere e superare, senza neanche aver corso un miglio. Possiamo farci prendere, senza neanche aver provato a scappare. E, di fronte a lui, ci ritroviamo come davanti ad un incrocio senza vie ombrose o soleggiate, privo di ogni indicazione. Allora possiamo soltanto scegliere: se affrontarlo in battaglia o farci prendere prigionieri, senza provare ad opporre resistenza. Certo, potremmo lasciar andare le cose per il verso in cui è naturale che vadano, senza fare troppe domande, senza spezzarsi la schiena per fare in modo che non accadano. Consapevoli che il cambiamento non pone regole né le accetta. Non definisce il tempo in cui dovrà accadere, non va di fretta né va troppo lento. Oppure bisognerebbe semplicemente accettare che di questa costante non potremmo mai farne a meno. A meno che non si voglia rimanere con i piedi incollati alla durezza ed all’ignoranza. A meno che non si voglia diventare fango in un solco di acqua stagnante. A meno che non si voglia diventare piante, travolte dal secco o dal gelo delle opposte stagioni. La mutazione si avventa su di noi e non possiamo fare niente perché non accada. Possiamo solo effettuare quella scelta, prendere una decisione. Se essere argilla e farci modellare da questa vita o rimanere pietra e, sottomessi all’immobilità, lasciarsi risucchiare, come un masso che affonda nella sabbia. Potremmo essere come un soffione fluttuante, spinto dal vento verso lidi più silenziosi e carichi di speranza, oppure stelo di marmo, freddo, granitico, incorrotto dal tempo ma corrotto dalla noia. Davanti al mutamento non ci rimane che scegliere. Perché ogni cosa che si ferma prima o poi riprende il suo cammino. Perché ogni viaggio non è mai uguale a quello che si è appena concluso.
DUE GUERRIERI
Qualcuno deve averla prevista. Ci deve essere stato chi ha deciso che, nonostante lo scorrere del tempo, nonostante le sue capacità rigenerative, per questa competizione non poteva esserci alcun rimedio, alcuna possibilità di pacificazione. Eppure la parola competizione non rende l’idea. Conflitto sarebbe più esatto ed “Eterno” il suo naturale aggettivo, legato a fuoco su quella vicenda. Due guerrieri si trovarono, si trovano e si troveranno sempre, l’uno di fronte all’altro. Sulle rive contrapposte di un fiume, torbido e limpido al tempo stesso, che divide radicalmente ogni cosa, anche i loro mondi. Due rive bagnate, apparentemente, dalla stessa acqua. Acqua che origina, tuttavia, due paesaggi confliggenti. Una sponda melmosa, corrotta da una vegetazione asfittica, soffocata da una schiuma limacciosa. Tutt’intorno un pallore inverecondo. Il cielo: uno schizzo di grigio torbido. L’aria: fredda e carica di effluvi gassosi. Dal lato opposto, invece, un’esplosione di vegetazione multicolore. L’erba morbida, mossa, come una carezza serpeggiante, dal profumo delle stagioni calde. Profumo quasi elettrico, inebriante, che si insinua ovunque, anche tra le fronde degli alberi, eternamente carichi di germogli. È questo l’incipit del loro concepimento, la forma in cui sono stati plasmati. Quello che erano ieri, quello che sono oggi. Eppure hanno qualcosa che li accomuna. Forse lo sguardo? Iridi che si intrecciano nella stessa direzione, che sbattono una sulla figura dell’altro? Non è quello. Forse il volto, colorato da tonalità contrapposte, sembra somigliarsi nei tratti apparenti? No, è solo una fugace illusione. Sono troppo diversi. Uno sembra che respiri senza muovere alcun muscolo della cassa toracica. Ha il volto ombrato da un cappuccio fuori misura, color fuliggine. Parte dalla sommità della fronte, discende su tutto il corpo, lo rende incomprensibile nel fisico. Non si riesce a capire se sia corpulento o smunto. Certo è che la mano, in cui tiene ferma l’arma severa, è magrissima, o meglio, ossea. L’altro ha la fronte libera. I capelli leggermente ricciuti, di un colore simile al grano d’agosto. Sembra femminile, nelle caratteristiche tenui del profilo, ma non è una donna. È di una bellezza estrema. La sua dolcezza è un guizzo di luce che rimane impressa nella memoria. Il fisico scolpito nei muscoli marmorei eppure pieni di morbida vita. Si ritrovano antagonisti immobili ma con i pensieri in battaglia, in questo palcoscenico che ognuno di noi ha visto o vedrà, almeno una volta, nella propria vita. Battaglia in cui non si risparmiano forze, non si conoscono colpi vietati. Ostinati ed ostili verso quello che l’altro pretende di rappresentare. Uno che rifiuta la vita. L’altro che l’adora, in ogni singola forma. Pieni di reminescenze passate, di antiche leggende, di presente, di futuro ancora da scrivere, si combattono perennemente. Sempre alla ricerca di chi dovrà primeggiare sopra ogni cosa. E se uno affonda il colpo sino al cuore, l’altro si difende vigorosamente e si ritrae, come se niente fosse successo. Perché questa lotta non la combattono tra di loro, ma su altri fronti, su altri terreni. Perché le loro pulsioni e privazioni appartengono all’umanità ed è l’uomo che li affronta, quotidianamente. È l’uomo che prova a vivere mentre cerca riparo dalla morte. Così Eros e Thanatos si muovono e si affrontano, tirando i fili, come in un teatro di burattini. Si infilano sottopelle e ci portano alla ricerca di cosa siamo e forse di chi non saremo mai. Alla ricerca dell’incipit o della fine di una storia. Probabilmente sottomessi alla sorte che scriverà cosa dovrà accadere. È l’antitesi di se stessa, questa nostra esistenza. Se nasciamo crudelmente, spremuti da un luogo caldo ed accogliente verso un mondo freddo e senza protezione, dovremmo morire dolcemente, tendendo le braccia verso un luogo vellutato ed ospitale. Questo dovrebbe essere il necessario contrappasso. Invece, se il primo afflato di vita prende possesso nei polmoni, dicono, in un modo cruento e doloroso, lo stesso accade nella morte. Quando veniamo spogliati di quel possesso, senza possibilità di riprenderlo. Rimaniamo senza forze e senza rimedio davanti a questo passaggio necessario e crudele. Così, in questa battaglia tra le pulsioni della vita e le storture della morte, i due guerrieri smuovono l’uomo, senza imporre ragionamento di tregua. Ed anche se si comprende chi dei due, alla fine, avrà il sopravvento, in molti lottano e lotteranno ancora, ostinatamente.
SOLO COSI'
Il respiro del vento si rigirò tra le foglie, sibilando un
accennato lamento. I rami, arti contorti dal tempo, furono smossi nella loro
apparente rigidità. La corteccia, scura e rugosa, una barriera inestricabile a
protezione della linfa vitale, vibrò, inspiegabilmente, al semplice tocco della
mano. Quando il palmo si posò sul tronco, spinto dalla disperazione di lasciarsi
soggiogare da un peso tremendo, un’impronta si definì su quella pelle legnosa.
A stento si potevano udire le voci provenienti dal villaggio. Flebili echi in
lontananza, si spensero alla seconda folata di vento. Un soffio corrosivo e
gelido che preannunciò l’arrivo del silenzio. Silenzio pesante, oppressivo, sceso
a spingere terrore su quelle spalle smagrite. “Padre” riuscì a dire, poi cadde
in ginocchio. Le gocce di sudore, che prima si rincorrevano sulla fronte,
iniziarono a colare, come piccole perle luminescenti, sul terreno arido di
pioggia. Ed ogni volta che precipitavano, creavano un tonfo ovattato. Un rumore
impercettibile che, tuttavia, distruggeva la serenità del volto, caricandolo di
tormento. Forse era solo quello il modo in cui poteva piangere. Le lacrime
rimanevano ferme, immobili, confuse nell’iride stanca, arrossata, incredula. Non
poteva dire di no. Non poteva tirarsi indietro. Lo sapeva bene. Così era
stabilito. Così doveva essere. L’arrivo dell’UOMO era ineluttabilmente iniziato.
L’innesto della paura, nella sua anima eterea, aveva preso l’arteria principale.
Nulla riuscì a fare per bloccare l’ingresso del dolore nella sua carne sacra.
Tutto fu così violento, crudele, quasi rabbioso. Gli sembrò che il fiato gli fosse
entrato, per la prima volta, nei polmoni. Tirò l’aria dalle narici e venne travolto
da una sensazione di caldo intenso, bollente. Nessun argine poteva bastare a
quel sentimento che, furioso, gli strappò ogni minima resistenza. Fu come
ingoiare il mondo intero in un sol boccone amaro. Senza indugio era entrato,
senza indugio lo aveva accettato. O forse aveva indugiato soltanto un secondo,
credendo che il disegno poteva mutare. Impossibile. Il suo compito era scritto.
Quella pagina doveva essere riempita del finale. Da quel finale doveva nascere
la storia dell’uomo. La nuova esistenza dell’umanità senza peccato, senza
miseria, senza catene. Con le mani, percorse da inediti brividi sanguigni, scarnificò
una zolla d’erba secca. La schiena ebbe un sussulto. Una scarica, un fulmine che
si avventa sul midollo appena creato. Le ossa si cementificarono sull’anima
bianca. I muscoli si svilupparono lungo nuovi percorsi. Radici di nervi crearono
la rete per il futuro dolore. Gli impulsi invasero la materia cerebrale. Divenne
uomo e padrone di un corpo già rapito da una pena mai provata. Le redini del cuore
si sfaldarono, sopraffatte da un caldo rovente. Tutto era cambiato. Se prima avvertiva
il freddo del dovere ora sentiva il caldo abbraccio di suo Padre. Un galoppo
muscolare, tonico, creò l’immagine, prima solo accennata, della sua nuova esistenza.
Di quello che era stato fino a pochi istanti fa. Di quello che doveva essere adesso.
Il protagonista dell’agonia sulla croce, del tragitto faticoso, della via
dolorosa che lo separava dal Golgota. Una visione della realtà, della
coscienza, della mente, del figlio di Dio, che era appena diventato uomo per
morire come un uomo. La trasformazione dell’Agnello che viene immolato sul
calvario del mondo. Solo così tutti avrebbero visto la morte. La sua morte. Non
vissuta come un Dio, ma come un uomo semplice. Uguale ad ogni altro uomo che
muore e che soffre per morire. Nessuno sconto, nessun aiuto, solo vita che
viene tolta nella forma più dolorosa possibile. Prima la flagellazione, poi la
prostrazione davanti al peso della croce. Poi i chiodi, infissi nella carne
senza alcun ritegno. Poi il pianto di una madre. Poi la preghiera, l’urlo
rivolto all’infinito, la condizione ultima, prima del perdono. Solo così
sarebbe potuto risorgere come Gesù Cristo e sedersi alla destra del Padre. Solo
così avrebbe potuto salvare noi, ingrati, peccatori eterni.
UNO STRUMENTO
Fu questione di un attimo. L’istinto primordiale che
prende il sopravvento sulla razionalità indotta dalle convenzioni. Le dita
delle mani che si annodano a formare un pugno, stretto e deciso. Pugno che afferra
i bordi di una veste, fatta di seta purissima ed inserti preziosi. Poi uno
strappo, improvviso. Il rumore, degli abiti che si lacerano, squarciò il
silenzio di quel giorno come tanti, eppure diverso da tutti gli altri. Gli
occhi della folla, increduli, guardavano quella rappresentazione di follia,
senza gettare fiato e parole sulla scena. Soltanto un grande suono di
incredulità, una “O” aperta e corale, si avvertì quando i lembi sbiechi, di
quella veste, così offesi dalla necessità di un mutamento, caddero a suoi piedi.
La caduta dei peccati davanti al pentimento. Lembi, eleganti e raffinati, che abbracciarono
la nuvola di polvere, arida e misera, che si era sollevata dalla terra. Quell’uomo,
così gracile eppure forte, dai tratti esili e cortesi, stava rinascendo dalla
sua stessa carne. Come se fosse stato quello il suo primo giorno di vita. Riemergeva
nel presente, cancellando, con un gesto inconsulto, buona parte del suo
passato, se non tutto. Si risvegliava da un sonno troppo lungo e ingombrante da
sopportare. Risorgeva dal suo corpo come se, da quella nudità improvvisa,
avesse potuto comprendere il vero senso di se stesso. Tremendamente indifeso, foderato
solo della sua pelle bianca, da quel momento aveva udito, sentito, il richiamo
di una voce amica. Una voce che lo aveva smosso nella coscienza. Che lo aveva sostenuto
nelle forze. Che gli aveva dato la spinta per quel gesto, per alcuni versi
folle, per altri necessario. Una voce che lo rendeva unico ma incompreso
davanti al mondo. Una voce, forse un sussurro discreto, che gli mostrava la via
da percorrere. Una via in solitudine ma non da solo. Una voce che era parte di
una vita più grande, immensa, che lo avvolgeva di una luce eterna. Voce che lo
purificava nello spirito, prima così inquieto, ora così etereo e distante dalla
normale essenza dell’uomo. Lontano dalla ricchezza, da ogni cosa che si poteva
barattare o comprare. Vicino alla povertà, sorella di virtù, fede e carità. Fu
così che, quasi assuefatto dalla calura del sole, rinvigorito di nuova linfa,
si mise in cammino. Il respiro composto, non più incostante ed oppresso dalla
paura. I piedi scalzi. L’incredibile ed improbabile ristoro che sentiva nei passi,
veloci e sicuri, sulla nuda terra, a tratti erbosa, a tratti pietrosa. L’aria,
l’ossigeno impalpabile, che stimolava la sua tenacia. Ed ogni prezioso dono
della natura, che gli era di contorno, sembrava guidarlo in quel percorso,
sicuro ma lontano dalla sua casa natale. La strada era remota, distante, ma gli
sembrò un guizzo di metri e nulla più. Arrivato davanti ad un ammasso di ruderi
sbilenchi e travi spezzate, rimase folgorato dai tratti di una vecchia scultura.
Si avvicinò, mutando il portamento in segno di assoluto rispetto. Posò la mano
sulla base di quel legno logoro e malridotto e sentì, di nuovo, quella voce.
Era arrivato. Piangendo di gioia, si inchinò alla croce e disse: “Oh Signore, fa di me uno strumento della
tua pace. Dove è odio, fa che io porti l'amore, dove è offesa, che io porti il
perdono, dove è discordia, che io porti l'unione, dove è dubbio, che io porti
la fede, dove è errore, che io porti la verità, dove è disperazione, che io
porti la speranza, dove è tristezza, che io porti la gioia, dove sono le
tenebre, che io porti la luce. Maestro, fa che io non cerchi tanto di essere
consolato, quanto di consolare, di essere compreso, quanto di comprendere, di
essere amato, quanto di amare. Perché è dando, che si riceve, perdonando, che
si è perdonati, morendo, che si resuscita a vita eterna.” (S. Francesco
D’Assisi)
GUARDA OLTRE
Metti le tue mani nelle mie. Sono così piccole. Tremano al solo contatto.
Non aver paura di me. Lasciami prendere il freddo che provano. Lascia che lo
porti via. Anche solo per il tempo di tenerle strette. Di farle sentire
protette. Al riparo. Adesso prova a chiudere gli occhi. Lo stai facendo? Bene.
Ora dimentica. Dimentica quello che hai visto sino ad ora. Dimentica il bianco.
Dimentica l’odore di disinfettante. Dimentica queste spine nel braccio. Ripara
l’iride dal ricordo del presente. Lascia che le ciglia, ancora bagnate di
sofferenza, chiudano quella porta. Hai una chiave. Usala. Devi girarla nella
serratura. Fare quante più mandate puoi. Devi sigillare ed abbandonare questa
stanza. Abbandonare ogni cosa che ti faccia ricordare quello che sta
succedendo. Non ritirare le mani. So che non è facile, ma prova a fidarti di
me. Sento ancora che hai le briglie strette. Trattieni la tua fantasia.
Liberala. Lasciala andare. Spingila lontano. Falla correre senza meta. Chiudi
gli occhi ed adesso guarda. “Guarda oltre”.
Oltre quello che hai. Oltre la logica della ragione. Oltre questa tremenda paura
che ti scorre nelle vene. Oltre la finestra che ti separa dall’aria fresca e
dalla gioia. Se lasci che i tuoi occhi vedano, vedrai quello che “gli altri hanno deciso di non vedere”. Vedrai
che bellissimi capelli ricoprono la tua testolina tonda. Vedrai come sono
morbidi, profumati, lucenti. Vedrai che pelle rosea ha il tuo volto. Nello
specchio che ti si aprirà davanti, vedrai dipinta una fanciulla, una
principessa, ma anche una guerriera senza armatura. Se lasci che il frastuono
delle voci si inchini al tuo volere, vedrai che diventerà sempre più ovattato.
Allora potrai sentire il tuo cuore. Che note forti, incessanti, dinamiche, creano
i battiti in costante ripresa. Ed ora prova a darmi una gioia. Piccolissime
perle sono nascoste tra le tue labbra. Lascia che io le veda. Lascia che le
vedano tutti. Ti prego, sorridi. Nel sorriso puoi rinascere e vivere l’età che
hai, nascondere i pensieri più tristi, cancellare i fantasmi. Il sorriso ti farà
sbocciare. Ti prenderà per mano. Ti porterà lontano. È un anestetico
potentissimo. Ridurrà, fino a farlo scomparire, quel peso dolente che, ogni
giorno, diventa più severo ed assurdo. E come inizierai a sorridere, come la
bocca si trasformerà in un grande abbraccio di luce, così la tormenta smetterà
di soffiare ai vetri spessi di questa stanza. Il gelo della disperazione si
scioglierà in un secondo. Sentirai la rassegnazione diventare coraggio.
Sentirai la schiena diventare più forte. Sentirai le gambe com’erano pochi mesi
fa. Ancora padrone di passi e corse spensierate. Vedrai quanto è bello quel
giardino in cui sei arrivata. Adesso puoi correre a piedi nudi. Puoi sentire
l’erba bagnata sotto i piedi. Il tiepido sentore della rugiada che si spande
sulla pelle, appena riscaldata dai raggi, più delicati, della prima alba. Puoi
sentire il vento. Come ti carezza le braccia. Quasi volesse danzare insieme a
te, in questo mondo che solo tu sai di possedere. Fatto di silenzio e di immensa
bellezza. Un mondo che è solo tuo. Allora lascia che sia così. Lascia che
questo sorriso ti renda più forte. Se vuoi, puoi afferrarmi il naso. Vedi, è di
plastica. Fa un rumore strano se lo stringi. E questo fiorellino che spunta dal
mio camice? È un birbante. Spruzza acqua a chi non gli è simpatico. A chi non
sa ridere o a chi non ci prova neanche. Ecco, da brava, impara a sorridere.
Sorridi insieme a me e trasforma questo posto in un circo. In un parco giochi. Guarda
quante giostre ci sono. Puoi salire su tutte quelle che vuoi. Divertiti ed impara
questa magia. Impara come tutto si può trasformare in qualsiasi cosa tu voglia.
Ma deve restare ben salda nella tua mente. La devi custodire. Non devi
permettere a nessuno di portartela via. Solo così dimenticherai quanto è
devastante questa malattia. Solo così darai ai tuoi genitori la possibilità di
sperare. Sorridi anima indifesa. Sorridi a questo dottore travestito da pagliaccio.
Sorridi e dammi la forza di credere. Di continuare in questa battaglia contro
la tristezza. Sono un medico e non dovrei credere nei miracoli. Sono un medico eppure
sono convinto che il sorriso sia la miglior medicina per guarire. [“Divenni un
esploratore dei continenti dell’esperienza e del divertimento facendo ricerca
nel laboratorio dell’umanità.” Hunter
Doherty “Patch” Adams]
DO UT DES
Non è stato
semplice. La mia decisione era senza margini di dubbio. Sono stata io a cucirmela
sulla pelle. Nessuna lo avrebbe fatto al posto mio. Così, quando venne a
prendermi, non opposi alcuna resistenza. Avevo gli occhi bassi. Le ciglia socchiuse.
Nelle narici entravano solo nugoli d’aria in movimento. Mentre si avvicinava
sentivo il richiamo delle tenebre. Intorno a me c’era pochissima luce. Uno
schizzo, o forse poco meno, di pallida luna, che tremava al posto mio. Aveva
tra le mani una torcia spenta. Il simbolo di una fiamma perduta. Non avrebbe
potuto fare niente di diverso. Il suo compito era chiaro. Non osavo guardarlo,
ma non chiamatemi codarda per questo. Quando mi cinse la vita, con le sue braccia
fredde e nerborute, fiatai a malapena. Tentai di trattenere quanta più aria
potessi. Non volevo che uscisse neanche un sentore, anche se incredulo e
sottile, di paura. Eppure un sibilo si staccò dalla gola. Fu quasi
involontario. Come se la bocca, arsa dalla sete di vita, mi stesse implorando
di non arrendermi. Nessun ripensamento, ero pronta. Se qualcuno crede che per
me sia stata una scelta difficile si sbaglia. Avevo maturato l’idea della
consegna, spinta dall’impulso più recrudescente e severo. Ero pronta a
rinunciare a me stessa. Buona parte delle persone erano state interpellate. Quando
il sole mutò d’aspetto, quando si fece più fendente nei raggi, allora fu chiara
a tutti la necessaria conseguenza. Molte domande erano state poste. Eppure l’unica
risposta comprensibile, nel gioco della sorte, fu un NO. Un rifiuto secco, senza
ripensamenti. Troppo alta era la posta in gioco. Troppo assurda la richiesta di
offrirsi o immolare la propria carne per un altro uomo. Sacrificare l’essere
per un viaggio verso il non essere. Lui era di fianco a me. Un dipinto grezzo,
nero, dai tratti mutevoli. Avvolto, quasi completamente, nelle vesti del buio. Un
ologramma intermittente, appariva, per certi versi, come demone barbuto ed
alato, per altri, come un fanciullo dai piedi torti. Di lui si diceva che
avesse il cuore di ferro, le viscere di bronzo. Credo che fu per questa ragione
che decisi di non pregare, né implorare. Non sarebbe servito a niente. Era totalmente
insensibile alle preghiere. Una supplica mi avrebbe stravolto le idee, sarei
scoppiata in lacrime, e non dovevo piangere. Le nostre nozze, un mancato
sacrificio, la nostra stanza da letto invasa dai serpenti: ecco la rabbia, implacabile,
di Artemide. Fu solo grazie ad Apollo che Admeto, il mio sposo, fu graziato. Il
Dio del Sole pretese da Moire di non porre termine alla sua vita, nel giorno stabilito
dalla Sorte. Il favore gli fu accordato a patto che, nel giorno fissato per la
morte, qualcun altro si fosse mostrato disposto ad immolarsi, spontaneamente, per
lui. Ecco il giorno stabilito: il mio giorno. Solo io, Alcesti, fui pronta a
rinunciare alla mia vita per prolungare quella di Admeto. Fu così che, secondo la
promessa fatta da Apollo alle Moire, Lui venne a prendermi. Thanatos mi travolse
nel suo abbraccio mortale. Mi condusse nell’Ade. Un non-essere si impossessò
del mio essere. Il destino? La sorte? No, è il mondo che conosciamo. Limitato e
perfetto, incompiuto e scellerato, spesso carico di scelte infelici e crudeli, che
ci capovolge. Che ci fa essere e poi non essere in pochi istanti. In Thanatos
ogni cosa si dissolve. E’ una realtà quasi necessaria. Trascendente. Che prima
o poi arriva per tutti. Come il fuoco della notte ha dato origine all’universo,
così il non-essere spegne la fiamma e si incammina nei solchi della terra più
desolata. Prende la forma del nulla e, tremendamente, ci ricopre di fango e
sterco. E’ una legge di natura. Il dinamismo dell’essere e la caducità degli
esseri sono l’immagine del modo in cui l’uomo supera l’imperfezione imposta
dalla materialità. Tutto ciò che in un determinato momento appare poi, in un
momento successivo, si trasforma in altra cosa. E’ così che si dice: “la vita è
un continuo morire e nascere”. Il seme si deve sacrificare per generare la pianta.
Così come la pianta deve distribuire la propria vita, impoverirsi, per generare
il frutto. Frutto che poi è devoto alla distruzione per dare vita al seme. Ecco
la molteplicità. Ecco il divenire. Ecco l’amore. La sostanza che ci permette di
vivere e sacrificarci per un bene più grande. Un Do ut des immateriale e Karmico.
Mi doni il tuo amore, ti dono la mia vita. Mondi che si accendono e si spengono
in un istante. Così prendo la morte come il dono più bello che faccio alla vita
del mio uomo. Mi anniento per non fermare il suo cuore. Per fargli bere
l’assenzio della morte, nell’inoltrata vecchiaia. La mia esistenza desiste
grazie a lui. Rinuncio al mio essere per dargli prova del mio amore. La rete di
Thanatos mi trattiene nell’oltretomba. Io non mi divincolo. Avevo fatto i conti
con l’eclissi del mio mondo, se non fosse per Eracle che mi prese. Che mi
riportò nel tenero rifugio del mondo, con i piedi ben saldi sulla terra. Terra
ormai rigogliosa della mia femminilità, dove sacrificio ed amore si annodano
eternamente.
ACHILLE SENZA TALLONE
Alla fine della corsa, quando il petto attraversa la linea del traguardo, quando gli spot elettrici spaccano l’urlo della folla, allora l’impresa si materializza. La gloria esulta negli occhi, lucidi, del vincitore. Davanti a quella scenografia del trionfo, nessuno osa guardare indietro. Della storia che si lascia alle spalle non ha contezza il mondo. Gli uomini non comprendono quelle sensazioni, quei pensieri in fuga dalla realtà, quella corsa senza gambe, quei respiri affannosi e tremolanti. Nessuno conosce, veramente, cosa sia il dentro. Di quale materia sia fatto. Di quali e quanti puzzle sia composto. Tutti guardano quello che esiste fuori. Quello che è ricoperto dal sole prende la sua forma assoluta. Ciò che è avvolto dalle tenebre rimane padrone del silenzio e dell’oblio. Rimane poca o nuda materia. Senza attenzione. Mai scandagliata. Mai veramente capita. La stampa ci dice cosa dobbiamo leggere. Quale idea dobbiamo farci. Eppure, l’ombra che si cela dietro la notizia, sovente, non è dato vederla. Titoli rimbombanti, tessuti da fili invisibili, diventano simulacri di verità e menzogne. Forse calibrate sapientemente. Forse abbozzate con l’intenzione di farci ragionare in un senso soltanto. Eppure, quello che viene raccontato, spesso, non equivale alla trama che ci viene veicolata. Marionette di immagini e parole si muovono su un palcoscenico illuminato da un faro, fisso ed abbagliante. Faro che acceca ogni possibilità di guardare oltre. Il fatto, l’analisi dei fatti, porta la coscienza critica a definire chi sia il colpevole, chi la vittima. In un susseguirsi di indagini sul movente e sull’arma, si crea la scena del delitto. Scena che, sadicamente infarcita di retroscena, diventa pasto succulento per i giornali. Per quelli che potremmo chiamare “scoop famelici”. Tutto viene inglobato nella ricostruzione di una sceneggiatura. E più questa prende forma, più la tragedia assurge a protagonista indiscussa del momento. Ha il suo attimo di gloria. Un esempio su tutti? La tragedia del moderno Achille. Un Achille senza tallone. L’ascesa e caduta del Dio della tenacia e della forza di volontà. Consacrato all’Olimpo dei campioni. Descritto, virtualmente dai media, come “l’esempio esemplare dei giovani diversamente abili”. Il suo nome era simbolicamente intriso di un senso primordiale di vittoria. Vittoria su un destino che aveva tranciato, in tenera età, la sua innata potenza. Storia che si ribalta nelle protesi al carbonio che la scienza medica agganciò ai quei gracili monconi. Progresso che ha fatto di un uomo, un uomo bionico. Ma sempre di uomo si tratta. Uomo che ha amato e che fu, forse, riamato da una donna perfetta. Una donna su cui, qualcuno, potrebbe avanzare un dubbio: “amò veramente l’uomo o soltanto il campione?” Certo questo è un dettaglio di “poca o scarsa importanza”, ma rimane, comunque una domanda insoluta. Alla luce di quello che è avvenuto potremmo ipotizzare: “magari le protesi avessero riguardato le braccia...”. La mano al carbonio sarebbe stata in grado di sparare? Qui nasce o dovrebbe nascere la riflessione che non vuol dire assoluzione. Chi era Oscar? L’Achille dei nostri tempi? Eroe invincibile ma assurdamente vinto dalla gelosia? Nessuno si è mai chiesto dove fosse il suo tallone. Poteva avere un tallone se non aveva le gambe? Certo. Le protesi non hanno un vero e proprio tallone. Sono materia inanimata. Sintesi di studi e di materiali moderni. E se il suo intimo tallone fosse stato proprio quella protesi al carbonio? Forse la realtà è più semplice di quanto si pensi. Non era né un Dio, né un semi-Dio, era solo un uomo, fra tante umanità vaganti sul pianeta, ad essersi rialzato dal baratro in cui una malattia tremenda lo aveva buttato. La sua discesa alle glorie dello sport era soltanto quello che il sole rifletteva? Qualcuno si è chiesto cosa fosse stato il suo vissuto? Come il suo cuore batteva di notte? Possiamo dire con verosimile evidenza che, in questo mondo di certezze è tutto incerto. Tutto cambia. Nessuno può essere uguale a ciò che è o che crede di essere. Perché l’Universo va avanti, battendo i secondi di quello che accadrà nella nostra personale clessidra. Forse Oscar era molto più umano che bionico. Forse era un uomo stanco, una vittima di se stesso e della frenesia di uno sport, sempre meno sport e sempre più anabolizzante. Forse, è stato proprio il suo “tallone” ad imbracciare la pistola e sparare. Uno sparo, più che contro qualcuno, probabilmente, contro se stesso.
COME UNA BARCA
Una nuvola grigia, nella forma simile ad una mano, spinse il sole fuori dall’orizzonte.
Lo lanciò, come una palla rotante, nella gola del mare.
Cascate di ombre si avventarono, come macchie di fuliggine, sul cielo ormai nudo. Una leggera brezza di maestrale iniziò a soffiare. Prima debolmente, come un respiro asmatico, difficile, quasi sfibrato. Poi prese vigore. Ricucito come da un ago di ferro rovente. Un polmone che si gonfia e spinge fuori un muro d’aria. Aria che travolge ogni cosa. Un’ora dopo l’uragano, preannunciato da un lampo fragoroso, che tagliò il cielo in due lembi di carta, esplose in tutta la sua potenza. Come un fuoco che si propaga dall’acqua salina, che accende i flutti quasi fossero fatti di benzina, così il vento, con un’impressionante progressione, iniziò ad aumentare d’intensità. Era tutto buio ma una luce, quasi impercettibile, illuminava, come una macchia intermittente, un pezzettino del mare in tempesta. Durò pochissimo. Venne inghiottita, all’improvviso, da un sudario d’acqua nebulizzata. Le onde erano maestosi avvoltoi. Rapaci spettri d’acqua nera e spuma voluttuosa. La notte aveva trasformato il mare in qualcosa di tremendamente violento. Pauroso. Aggressivo. Ad ogni sbalzo della piattaforma marina, quando l’acqua sembrava innalzarsi fino a toccare il cielo e tutto diventava un puzzle scomposto, di vuoti e montagne russe, si poteva sentire una voce che urlava insieme al vento. Materializzava un suono greve, che sbatteva, con una potenza straordinaria, contro il legno della carena. Quasi superando i sibili, atroci, delle onde in tempesta.“Non abbiate paura…”. Ma i pescatori urlavano, soverchiando quelle parole con la paura di morire. Cercavano di stringersi intorno all’albero maestro. Chi con le funi, chi con la sola forza delle braccia. Era difficile rimanere in piedi. Difficile non cadere ed essere trascinati in acqua. Flutti voraci e cavalloni imbizzarriti, dalla prepotenza del fondale in ebollizione, tenevano in scacco il destino di quegli uomini. Storie di vite prossime a spegnersi. Trascinate, chissà dove, da onde insaziabili. Di nuovo, poi, quella voce. Stavolta dipinta su una figura. Era al centro della piccola nave, fermo, senza alcuna titubanza, senza alcun impaccio, sulle sue gambe. Non cercava appoggi, non si teneva a nessuna corda. Mentre l’imbarcazione si muoveva e girava nei vortici del mare, quasi fosse in bilico su un barile, rimaneva in equilibrio. Nonostante quell’ondulazione spaventosa, a tratti impennante, a tratti quasi risucchiata dalla furia della tempesta, rimaneva tranquillo. Come se niente stesse accadendo. Nella mano destra teneva la lanterna che poco prima si era spenta. Rivolse gli occhi allo stoppino, generando la fiamma senza alcun aiuto esterno. Quella luce chiarì i tratti del suo volto. Una leggera barba gli incorniciava i lineamenti. I capelli lunghi, quasi a toccare le spalle. Gli occhi grandi e profondi, leggermente infossati, di un colore straordinariamente cangiante. Quasi ipnotico. Di media statura, longilineo. Avvolto da una tunica di color avorio. I piedi scalzi. Si spostò di pochi passi in avanti, portandosi sulla punta esterna della prua. Si chinò, sino a toccare l’acqua con una mano. Come ad accarezzare un toro infuriato. Fu allora che un boato di silenzio si scaraventò sul quel mondo in agonia. Come richiamati all’ordine, strattonati da redini incredibilmente severe, i cavalloni in battaglia si calmarono, inchinandosi alla pace. Sull’acqua si creò una traccia di salvezza cristallina. Rilucente, come una via di fuga. La barca seguì quella scia, come attratta da una calamita. Velocemente arrivò sulla riva opposta al punto di partenza. I pescatori balzarono sulla terraferma, quasi increduli. Sconvolti ma felici di essere vivi. L’uomo che aveva placato la tempesta, rimase a guardare quelle scene di giubilo. Rivolse, di nuovo, gli occhi alla lanterna. Spense la fiamma, cancellando il buio. Il sole riprese la sua calda e lucida potenza. Ogni cosa venne affrescata da nuovi colori. La serenità si era riappropriata di quel giorno. Tutto ritornò com’era prima della tempesta. E forse fu proprio quella tempesta ad esaltare la bellezza della quiete ritrovata. Ci sono giorni in cui la vita assomiglia ad una piccola barca, persa tra le onde nel mare agitato. Ogni cosa, intorno a noi, è scura, come avvolta da una tempesta. Ci sentiamo soli. Come se nessuno ci possa incoraggiare o aiutare. Si ha voglia di lasciarsi affogare in quelle onde. Di lasciar perdere tutto. Eppure, al nostro grido di aiuto qualcuno risponde: Gesù risponde
- Salmo 107 (106) 21- 43 “Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare. Si rallegrarono nel vedere la bonaccia ed egli li condusse al porto sospirato.”
FILI: ODISSEA DI UN AMORE
E’ giorno. Un giorno compagno della pioggia e della mia tristezza. Le mie lacrime battono sul legno e fanno rumore. Il telaio si inceppa. Prende fiato la mia desolazione. La pioggia e le lacrime si abbracciano. Si stringono. Uniscono le forze. Mitigano la paura. Lo sconforto di fronteggiare un giorno che non vorrei mai veder arrivare.
Poso lo sguardo tutt’intorno. La stanza è familiare. Calda. Uno scrigno di ricordi mai indeboliti. Anzi rinvigoriti. Attaccati alle pareti, agli specchi, ci sono le immagini della sua figura. Nelle lenzuola, riposte con cura su un letto ancora immacolato, c’è il senso del suo essere uomo unito alla mia femminilità, quasi dimenticata. La mattina, qui dentro, appare quasi serena. Ma è così piena di paura che tutto va in secondo piano. La pioggia prende forza. Assume le sembianze di un concerto di tamburi. E’ greve, eppure sembra essere distante. Una melodia che assomiglia ad un respiro affannoso, ad un mare in tempesta. Onde che impazzano e si rifrangono sempre nello stesso sospirato ideale. Che lui ritorni. Che mi riprenda, così come mi prese tanto tempo fa. Eccola. Ora mi assale di nuovo. La follia dell’impossibile si avventa sui miei pensieri. Li sottomette al suo volere. Mi riduce in catene. Non dà modo di liberarmi.
Perché io non voglio essere liberata, voglio essere schiava. Schiava del suo amore. Dovrei inventarmi un’altra vita. Ma non so far altro che tessere questi fili. Fili che si intrecciano, allontanandolo da me. Che lo avvicinano, quando si sfilano. Quando li sfilo. Ecco il modo. La possibilità di salvezza. Tessere una tela. Un simulacro. Un sudario. Un ricovero per un corpo morto, per Laerte. Eppure potrebbe essere un bozzolo dove potermi ritirare, schiudere le ali da farfalla ancora strette nelle ossa. Volare sin dove lui si trova. Sospesa nell’aria, anche solo nel primo dei suoi pensieri, vorrei poter librare. Senza parole. Quel che occorre è essere vicini in spirito eppure il mio corpo anela i suoi abbracci. Anela l’improbabile ritorno a casa. Perdonami, ma non riesco a continuare. La trama che si infittisce, i fili che si annodano, vanno ridotti a quello che erano ieri notte. Gomitoli ancora acerbi di lavoro. Quello che ho creato stamattina, stanotte deve essere distrutto. In questo gioco infinito e circolare, in questo cerchio concentrico si assiepa la mia vita, fatta di tradimento e fedeltà. Fedeltà verso Ulisse. Tradimento verso chi vuole prendermi in sposa con la forza. Distesa sul suo petto vorrei ritornare, quando il sole si fa oscurare dalle tenebre. Mi basterebbe dormire, un sogno me lo farebbe riavere. Ma la notte non mi è concesso riposare. Devo lavorare e distruggere con solerzia quello che il giorno fingo di creare.
Una lucciola, ogni tanto, illumina lo sguardo che poso verso il mare. Sembra il faro, il flebile richiamo di un’anima che non vuole arrendersi ma che sembra, oramai, allo strenuo delle resistenze. Questo palazzo è la mia famiglia ed è la mia prigione. Questo telaio è la mia unica voluttà di sopravvivenza. La mia unica e forse incredibile speranza. Sono ostinata, la gente mi rimprovera per questo. Perché mi ostino ad attendere colui che non tornerà. Smettere di sognare il grande amore. Quello dovrei fare. Un amore che potrebbe non arrivare mai. Un amore che già potrebbe essere in fondo al mare.
Un amore che non smette di bussare alla porta dei miei sensi, ogni notte ed ogni singolo giorno della mia esistenza. Qualcuno mi chiama illusa. Non sono più la donna che ero prima. Non ho più la bellezza di un tempo. Ma so che lui mi ama ancora. Che mi amerà per sempre. So che lui mi vorrà di nuovo con sè. “Chissà fra quali virginali braccia ora il suo Ulisse si consola?”, confabulano le ancelle credendo di non essere ascoltate. Ma io le sento. Faccio finta di niente. “Chissà fra quali inviolate fanciulle l’uomo trascorre le notti?”. Ancora quelle voci ed il tarlo della gelosia mi assale. Un tarlo che non trova legno buono. Affonda pochi morsi. Muore del suo stesso pasto. Non mi lascio prendere da questi pensieri. E se mi prendono è solo per pochi ed inafferrabili momenti. Attimi che svaniscono appena la notte ritorna. Appena sfilo la trama infinita di questa tela. Il mio uomo è diverso, lo conosco. Potrebbe avere tutte le donne che vuole, per età, per colore degli occhi, dei capelli, per le forme sottili o generose. Ma non le vuole. In qualunque parte dell’Odissea si trovi, avrà sempre uno scenario: il ritorno a casa. Da me, da suo figlio. Io sono con lui. Lui è dentro di me.
E nel suo viaggio attraversa, non soltanto un mondo ignoto e pericoloso, ma anche tutta la mia anima. Attraversa Penelope. E dalla mia speranza indomita, di riaverlo ad Itaca, prende le forze per non dichiarare la resa. Io sono la sua donna. Sono l’Amore. Sono la Tenacia. Io il suo Destino. Io non mi arrendo. Non lo farà neanche lui. Mi ha promesso che verrà. Conservo negli occhi la promessa che mi scrisse nel cuore, abbracciandomi forte. In quella stretta ha lasciato la sua parte migliore. La parte che non distrugge ma rigenera l’amore. È vento da non incatenare, ma è anche tormenta. Una voragine che genera sempre e solo desiderio. Tutto inizia, tutto finisce, poi ricomincia. Di giorno a tessere il mio atroce destino. Di notte a disfarlo, perché la mia vita non è questa. Ho messo il telaio davanti alla finestra. Un giorno, sono sicura, volgendo lo sguardo al mare griderò: “è tornato!”. Allora la tela sarà uno straccio.
La calpesterò, la ridurrò in brandelli, per correre ad abbracciarlo. E se non dovesse tornare? Allora andrò io da lui. Ho questa ultima possibilità. Scenderò tra le onde del mare. Mi spingerò sino nei flutti più profondi. Gli andrò incontro. Ci incontreremo nell’aldilà.
Perché se lui non torna è solo perché è già morto. E se lui è morto io non ho più necessità di vivere ancora.
DEAMOSTRUOSA
Da quando si ingoia il primo respiro, a quando si perde l’ultimo, pochi secondi prima dell’oblio, sembra un organo incompleto. Nei primi istanti dell’esistenza, quando la vita è ancora acerba, quando si è ancora nudi, ricoperti del sangue materno, è un miscuglio di gorgheggi, di suoni quasi inconsapevoli.
Poi, quando il presente prende forma, quando ci si rapporta ad un altro essere, quando si ha necessità di captare le attenzioni, diventa segno di presenza. Riesce, per lo più, a modulare quel bisogno di sopravvivenza, senza troppe pretese. Quando si è piccoli è scevra di pensieri. Fluida, senza briglie. Quasi disinibita nella sua ambizione di trovare espressioni sempre più precise, sempre meno incomprensibili. Però è ancora pulita dalle convenzioni. E’ materia cellulare utile ad esplicare una parola, un concetto semplice. In seguito, quando la società, i costumi, intervengono sulla materia, quando il vissuto diventa maturità, è solo allora che prende la sua forma originaria. Quella per cui sarebbe stata creata. Sarebbe, perché non sempre il progetto assume la forma ideale. Qualcuno, suo malgrado, per un ingiusto segno del destino, è costretto a convivere con la sua assenza. Si dice che questa sia una delle più atroci sofferenze che l’uomo possa subire. Chi la possiede, invece, sa di avere una dea bellissima, come compagna di viaggio. Eppure dovrebbe sapere che possiede anche Medusa. C’è stato un tempo in cui Medusa era una bellissima fanciulla. Il suo nome rappresentava i cicli del Tempo, con i suoi stadi di passato, presente e futuro. I Cicli della Natura, con i suoi stati di nascita, morte e rinascita. Medusa, guardiana di immensi tesori e grande mediatrice dei regni del cielo, della terra e di quello sotterraneo, aveva in sé la capacità di costruire e distruggere. Era la verità ultima oltre ogni possibile dualismo. Eppure, nell’immaginario Greco, denotò un salto, un filo che si spezza. Sembra sia stata tutta colpa di Atena: in un impeto di rabbia e di antagonismo femminile trasformò la stupenda Gorgone, amata da Poseidone, in un mostro. La capigliatura tramutata in un groviglio di vipere, i suoi denti in zanne. Un mostro il cui sguardo pietrifica ogni creatura vivente. Ciò che l’uomo possiede è, quindi, un grande tesoro oppure un immenso tormento. E’ la lingua: il segno distintivo dell’uomo dall’animale. Tuttavia è ambigua, spesso mutevole. Ha parecchie vite che si confrontano e si scontrano a ripetizione. Spesso in accordo, altre volte in antitesi. Spinta dal cervello, dal ragionamento, scatta a comando, si muove negli argini della riflessione. Spinta dall’impulso non si lascia frenare. Perde ogni cognizione di causa. Diventa un aggeggio convulso, travolgente. Avere un cervello pensante senza una lingua che riproduce quei pensieri in suoni, parole, è come avere la chiave di accesso al paradiso e non trovare mai la porta. Provare delle emozioni, le più disparate e non poterle esprimere in verbo significa mostrare il fianco all’incomprensione, spesso al malinteso. La lingua è uno strumento fondamentale per l’essere umano, per essere ciò che vogliamo. La lingua articola vocaboli, ci fa parlare. La lingua articola pensieri, ci fa ragionare. La lingua definisce un concetto per la condivisione all’esterno, ci fa comunicare. La lingua analizza i sapori, ci fa gustare. La lingua misura la passione di un bacio, assapora quella sensazione, quel sentimento, che comunica l’altro corpo. La lingua pesa la dolcezza o la freddezza di un amore che inizia o che non ha più significato. La lingua è al nostro servizio ma può anche sottometterci. Può farci inchinare al male, alle cattiverie, alle invidie. È uno strumento di difesa e di offesa. È un’arma a doppio taglio. Diventa lama affilata, una spaccatura sull’esistenza, una frattura, un segno di distruzione. Talvolta è foriera di morte, quando esprime un concetto definitivo senza diritto di replica, senza appello. E non è solo la morte fisica il suo obiettivo. La lingua è capace di uccidere anche senza le armi convenzionali. È capace di materializzare la fine di una persona. È capace di generare la morte sociale. In quel caso diventa discredito, maldicenza, denigrazione, calunnia. Diventa una freccia avvelenata che si conficca nel tessuto sociale e crea una percezione ingannevole della realtà. Altre volte, usata a dovere, diventa strumento di accusa. Fondamento di prova. Testimonianza di verità. Quando si prende coscienza che dire il vero può distruggere un sistema di illeciti, allora diventa paladina della giustizia. Diventa unico argine alla criminalità delle coscienze assopite dal non vedo, non sento, non parlo. Allora diventa catarsi, ci purifica dagli spettri che si agitano sul mondo. Ecco cos’è la lingua. Può consegnarci al paradiso dell’anima e dei sensi, attraverso la poesia del linguaggio, della ragione. Oppure può gettarci nella Geenna della perdizione e, come Medusa, può pietrificare ogni cosa.
L'ERRORE
Ma quello che non capita mai, credo, non esista.
Prima o poi succede quello che non ti aspetti.
Scorre, davanti ai miei occhi, una pagina di vita privata e pubblica, dai contorni sfocati. Il riflesso della mia immagine nel televisore mi sorprende. Ero intenta a scrivere un articolo ma qualcosa mi ha fermato. Non digito più neanche una parola. Il tema che avevo in mente si è disintegrato nell’intervista che sta andando in onda. Ho le mani che fremono sui tasti del portatile, ma il cervello non da nessun input. Di fronte a quella pagina bianca, dove lampeggia l’icona del mouse alla fine di una parola troncata, insolitamente, resto indifferente. La mia attenzione è una pietra nella fionda degli occhi. La molla si tende, si inarca. Il colpo parte. Si frantuma su quel programma, sintonizzato per caso. La percezione di un problema modifica uno stato. Si accende la curiosità. Vorrei capire. Comprendere cosa ha portato quell’uomo fino a quel punto. Fino a costruire delle ali di ghiaccio davanti ad un sole fondente. Forse è la stecca che capita ad un concerto. Il rigore tirato alto sulla traversa. Il tuffo carpiato con l’ingresso in acqua sbagliato. Una partenza anticipata, l'ingresso nei box in accelerazione. La scalata verso la vetta più alta e l’aggancio ad una roccia fragile, precipitare. Cose che succedono quando si commette l’errore. Quando questo semplice termine cancella la gloria. Quando la nota del telecronista diventa dolente. Quando l’angoscia diventa un urlo di dolore. E non ci sarà nessuno in grado di dire che “non è niente, non fa niente.” Quando si comprende di aver sbagliato. Quando l’imprecisione è palese, drammatica, non esiste chi addolcisca la pillola. Non esiste carezza per calmare i nervi tesi. Non esiste unguento per suppurare la ferita aperta. Quando si sbaglia il primo censore diventa la coscienza. La tua coscienza. Sei tu. Tu che ti dai ogni colpa. Tu che accetti l’agonia interiore ma non accetti la conseguenza esterna. L’umiliazione del pubblico sfrenato, ebbro di cattiveria. È quel frammento infinitesimale di te, quel piccolo strappo alla normalità, quello che nel dizionario può essere chiamato con i termini più diversi, colpa, peccato, difetto, disonore, macchia, vergogna, demerito, onta, che per noi uomini diventa una persecuzione. Una catena senza lucchetto. Un boa che ti avvolge la gola sino a farti smettere di respirare. Lo sa bene chi ha sbagliato un rigore in una finale importante, chi ha perso un titolo mondiale quando era più difficile sbagliare che fare la cosa giusta. Ma quando non si vuole fare i conti con questa eventualità. Quando non si vuole mettere il piede in fallo. Quando non si vuol commettere l’errore di cadere nella normalità di un mondo in cui essere umano sembra una banalità, è allora che si commette l’errore più grande. Quello per cui la pena diventa non commisurata, ma necessariamente sproporzionata. Se non si accetta di essere quel che si è. Se si vuole fagocitare il dna e la sua genetica debolezza per trasformarlo in reperto bionico, è allora che l’uomo si trasforma in qualcosa di spietato. Un essere insensibile alle regole ed alla morale. Un unico obiettivo: vincere. Per essere sempre e comunque il più forte. La volontà di essere una spanna sopra gli altri. La necessità di dimostrare di valere più degli altri. Forse è questo che spinge uno sportivo, un campione a drogarsi. Ad assumere sostanze dopanti per afferrare il mondo e tenerlo per la gola. Ma quella che avevo davanti era un’immagine diversa. C'era qualcosa che mi portava a guardarlo con commiserazione. Non vedevo il campione ma vedevo la sua paura. Quella più grande, quella di essere uno dei tanti di passaggio. Uno dei tanti che viene al mondo senza averlo chiesto, che trascorre una vita anonima, fino a quando muore nella più totale indifferenza. Forse è questo quello che spinge a superare il limite del lecito. Del logico. Del si può fare. Il vuoto nelle sue parole era quasi assordante. Rispondeva si, come un automa. La giornalista incalzava e ripeteva con incidente saccenza, sempre la stessa frase, o meglio rigirava lo stesso concetto già chiaro a tutti. Ha mai preso sostanze dopanti? Si. Ha mai usato sostanze dopanti per vincere le gare? Si. Ha mai usato sostanze dopanti per vincere il Tour de France? Si. Ed in questo girare, rigirare, che si apriva, sino a risucchiarlo, il maleficio del doping. Lo sguardo perso, davanti ad una telecamera vorace, mentre ogni secondo, ogni minuto, nel suo scorrere, ingrandiva quel labirinto ed i piccoli caratteri di quelle piccole parole. Parole che accennava come briciole al confronto della colpa: tre si. Un carcerato libero dalle sbarre ma agli arresti domiciliari nella sua coscienza, ecco quello che mi è sembrato.
Scorre, davanti ai miei occhi, una pagina di vita privata e pubblica, dai contorni sfocati. Il riflesso della mia immagine nel televisore mi sorprende. Ero intenta a scrivere un articolo ma qualcosa mi ha fermato. Non digito più neanche una parola. Il tema che avevo in mente si è disintegrato nell’intervista che sta andando in onda. Ho le mani che fremono sui tasti del portatile, ma il cervello non da nessun input. Di fronte a quella pagina bianca, dove lampeggia l’icona del mouse alla fine di una parola troncata, insolitamente, resto indifferente. La mia attenzione è una pietra nella fionda degli occhi. La molla si tende, si inarca. Il colpo parte. Si frantuma su quel programma, sintonizzato per caso. La percezione di un problema modifica uno stato. Si accende la curiosità. Vorrei capire. Comprendere cosa ha portato quell’uomo fino a quel punto. Fino a costruire delle ali di ghiaccio davanti ad un sole fondente. Forse è la stecca che capita ad un concerto. Il rigore tirato alto sulla traversa. Il tuffo carpiato con l’ingresso in acqua sbagliato. Una partenza anticipata, l'ingresso nei box in accelerazione. La scalata verso la vetta più alta e l’aggancio ad una roccia fragile, precipitare. Cose che succedono quando si commette l’errore. Quando questo semplice termine cancella la gloria. Quando la nota del telecronista diventa dolente. Quando l’angoscia diventa un urlo di dolore. E non ci sarà nessuno in grado di dire che “non è niente, non fa niente.” Quando si comprende di aver sbagliato. Quando l’imprecisione è palese, drammatica, non esiste chi addolcisca la pillola. Non esiste carezza per calmare i nervi tesi. Non esiste unguento per suppurare la ferita aperta. Quando si sbaglia il primo censore diventa la coscienza. La tua coscienza. Sei tu. Tu che ti dai ogni colpa. Tu che accetti l’agonia interiore ma non accetti la conseguenza esterna. L’umiliazione del pubblico sfrenato, ebbro di cattiveria. È quel frammento infinitesimale di te, quel piccolo strappo alla normalità, quello che nel dizionario può essere chiamato con i termini più diversi, colpa, peccato, difetto, disonore, macchia, vergogna, demerito, onta, che per noi uomini diventa una persecuzione. Una catena senza lucchetto. Un boa che ti avvolge la gola sino a farti smettere di respirare. Lo sa bene chi ha sbagliato un rigore in una finale importante, chi ha perso un titolo mondiale quando era più difficile sbagliare che fare la cosa giusta. Ma quando non si vuole fare i conti con questa eventualità. Quando non si vuole mettere il piede in fallo. Quando non si vuol commettere l’errore di cadere nella normalità di un mondo in cui essere umano sembra una banalità, è allora che si commette l’errore più grande. Quello per cui la pena diventa non commisurata, ma necessariamente sproporzionata. Se non si accetta di essere quel che si è. Se si vuole fagocitare il dna e la sua genetica debolezza per trasformarlo in reperto bionico, è allora che l’uomo si trasforma in qualcosa di spietato. Un essere insensibile alle regole ed alla morale. Un unico obiettivo: vincere. Per essere sempre e comunque il più forte. La volontà di essere una spanna sopra gli altri. La necessità di dimostrare di valere più degli altri. Forse è questo che spinge uno sportivo, un campione a drogarsi. Ad assumere sostanze dopanti per afferrare il mondo e tenerlo per la gola. Ma quella che avevo davanti era un’immagine diversa. C'era qualcosa che mi portava a guardarlo con commiserazione. Non vedevo il campione ma vedevo la sua paura. Quella più grande, quella di essere uno dei tanti di passaggio. Uno dei tanti che viene al mondo senza averlo chiesto, che trascorre una vita anonima, fino a quando muore nella più totale indifferenza. Forse è questo quello che spinge a superare il limite del lecito. Del logico. Del si può fare. Il vuoto nelle sue parole era quasi assordante. Rispondeva si, come un automa. La giornalista incalzava e ripeteva con incidente saccenza, sempre la stessa frase, o meglio rigirava lo stesso concetto già chiaro a tutti. Ha mai preso sostanze dopanti? Si. Ha mai usato sostanze dopanti per vincere le gare? Si. Ha mai usato sostanze dopanti per vincere il Tour de France? Si. Ed in questo girare, rigirare, che si apriva, sino a risucchiarlo, il maleficio del doping. Lo sguardo perso, davanti ad una telecamera vorace, mentre ogni secondo, ogni minuto, nel suo scorrere, ingrandiva quel labirinto ed i piccoli caratteri di quelle piccole parole. Parole che accennava come briciole al confronto della colpa: tre si. Un carcerato libero dalle sbarre ma agli arresti domiciliari nella sua coscienza, ecco quello che mi è sembrato.
L'AMIGDALA
Io ti amo. Ti desidero. Lo ripeterò finché questi due concetti non lascino un sigillo nella tua mente. Te lo ripeterò, fino a che avrò voce e forza per gridarlo. Perché questo urlo inascoltato possa toccare i tuoi timpani insensibili. Penetrando nei cunicoli del cervello, fino a toccare l’AMIGDALA e darle una sferzata. Quasi una scossa per farla acquietare. Per farla smettere di mandare impulsi equivoci al sistema nervoso. Per farla smettere di bloccarti nella voglia che hai di vivermi. Per farla smettere di generare paura. In fondo è grande come una mandorla. È irrilevante, marginale, quasi banale. Può mai competere con la grandezza del mio cuore? Con la grandezza di questo sentimento travolgente e stravolgente? Ti prego: guardami! Guardami quando ti parlo. Fissa gli occhi su questo cuore che si confessa attraverso il corpo. Che si confessa attraverso la bocca. Che si confessa attraverso le parole. Parole che non hai mai voluto comprendere. Parole che avrebbero dovuto darti l’idea di un’attrazione senza freni, quasi virulenta nel suo dna. Eppure sono così semplici. Chiare. Quasi cristalline, nitide, senza alcuna sbavatura. Senza alcun fraintendimento. Ti amo. Ti desidero. Te lo sto dicendo da una vita e tu, neanche adesso, mi rispondi. Non accenni ad un sorriso di comprensione. Non accenni ad uno sguardo d’intesa. Neanche adesso mi guardi come una donna dovrebbe guardare l’uomo che la ama più di ogni altra cosa al mondo. A volte mi sono chiesto, me lo chiedo anche ora, se capisci il significato della parola amore? Lo comprendi? Se mi amassi come ti amo io, come io ti desidero, ora saremmo solo noi. Noi ed i nostri stracci mortali da qualche parte nel mondo, magari davanti ad un tramonto mozzafiato. Noi e le nostre passioni carnali, su qualche isola infuocata. Passione che ci terrebbe stretti, abbracciati, mentre il rumore delle onde rende mistico il nostro amplesso. Questo è l’amore ed il desiderio, il suo sposo necessario. Tenersi abbracciati, stretti, in un nodo che non dovrebbe mai sciogliersi per niente e nessuno al mondo. Un nodo che si forma e si conforma alle nostre vite e ne fa una vita sola. E non cercare di dire che non è così. Tu sbagli. Tu non vedi quello che io vedo. Tu lasci che sia quella piccola centrale di impulsi nervosi a generare l’immagine di chi hai davanti. Tu lasci che sia lei a formare il mio aspetto. Guardami, ti ho detto di guardarmi. Ancora non riesci a capire. Non ce la fai proprio. Ancora non riesci a toccare la durezza di questo sentimento. Ancora non riesci ad intuire quanto sia profondo. Quanto sia sceso nella carne. Quanto abbia scavato nell’anima. Quanto abbia perforato il cuore. Quanto lo abbia reso fragile nelle strutture. E quando batte, in ogni battito, fa sempre più male, materializzando un dolore che vivo in estrema solitudine. Tu non lo senti. Non puoi sentirlo. Ma se ti spogliassi, per una volta, della paura, e ti rivestissi delle mie sembianze, forse capiresti. E solo allora comprenderesti, quale e quanto affetto è assiepato nel mio essere. Ma tu non mi ascolti. Perseguiti un silenzio che mi trivella la mente come una sirena spiegata. La sirena di un’autoambulanza che si avvicina sempre di più al nostro palcoscenico. All’arena del nostro amore finito. Un acuto suono che si mangia ogni cosa, anche il mio respiro. Che ingoia anche questo odore di sangue. Tu non parli e rimani immobile in questo lago rosso che ancora fuoriesce dalla tua testa. Quando ti ho chiesto di amarmi dovevi dirmi di sì. Amare è sottomettersi ai desideri dell’altro. I miei desideri. Ma tu non hai voluto. Non hai mai voluto. Ed ora, che sono io l’artefice della tua fine, ancora mi disprezzi. Ancora simuli indifferenza. Hai gli occhi sbarrati sul soffitto e neanche mi guardi. Se solo non mi avessi respinto. Se solo avessi ricambiato il mio bacio, avrei potuto salvarti. Sapevo dove colpire per spegnere la tua vita e dove l’avrei solo ferita. Ed invece no. Non mi hai dato scelta. Ho sbagliato tutto. Dovevo ucciderti prima. Prima che ti conficcassi nella mia mente come un dardo avvelenato. Prima che prendessi fuoco nella mia anima gassosa. Prima che diventassi la mia perdizione. La mia maledizione. Prima che diventassi il mio unico e grande AMORE.
UNA STALATTITE
È uno strano incantesimo questo. Ogni anima che si riversi in un uomo, una donna o un bambino, ha lasciato, alle lancette del tempo, la frenesia della vita quotidiana. Si è abbandonata nel sonno.
Anche la luna ha scelto una via di fuga. Si è come volatilizzata. Se ne è andata senza dare nessuna spiegazione. Il cielo ha caricato enormi manciate di silenzio. Ha assunto una tonalità intensa. Un blu profondo, cobalto, quasi potesse contenere il mistero degli abissi marini sottostanti. O forse lo contiene? In lontananza, si riesce ad intravedere solo un puntino, all’estremo nord. Forse è Sirio, anni luce da questo universo malandato. Eppure è una scintilla di speranza nel fondo di una bottiglia. Se si fa attenzione, se ci si sofferma su quella altura di roccia marina e sedimento lavico, su cui sembra incollato un grosso castello cadente, si riesce ad intravedere una figura. Una donna si incunea dietro le grate di una finestra. Una mano si protende verso l’esterno, sgancia il lucchetto che le teneva chiuse. Il rumore dell’evasione dura un secondo. Vestita nella sua tunica di lino bianco, una fascia le avvolge i capelli. Sospira e si affaccia voracemente alla balaustra. Si inchina verso il mare. Lo guarda. Il mantello della notte sembra calarsi, leggermente, su di lei. Quasi l’avvolgesse in un tenero abbraccio. Ad ogni sussulto delle onde fa da eco il richiamo di mille cicale. Un concerto appena abbozzato che dà il senso della notte. Della primavera che bussa alle porte. L’aria è immobile, non si lascia smuovere dal vento. Vento oramai lontano, disperso su qualche montagna ancora innevata. Di sotto, la marea lentamente sovrasta la battigia. Risale. Si muove avanti e indietro. Si allunga e poi si ritrae. Lascia una spuma brillante che evapora magicamente. Disegna una traccia. Sembra una mano tesa verso qualcosa, qualcuno. Sembra uno sguardo solitario, quello della donna. Non è così. Ci sono strade lontane e vicine che si intersecano nella vita di quell’anima silenziosa. Come in un’autostrada dove nessuno vuole pagare il pedaggio per esorcizzare qualcosa che assomigli ad una fine, anche in quella donna il pensiero, le idee, le domande, si tramutano in una richiesta d’aiuto.
Anche la luna ha scelto una via di fuga. Si è come volatilizzata. Se ne è andata senza dare nessuna spiegazione. Il cielo ha caricato enormi manciate di silenzio. Ha assunto una tonalità intensa. Un blu profondo, cobalto, quasi potesse contenere il mistero degli abissi marini sottostanti. O forse lo contiene? In lontananza, si riesce ad intravedere solo un puntino, all’estremo nord. Forse è Sirio, anni luce da questo universo malandato. Eppure è una scintilla di speranza nel fondo di una bottiglia. Se si fa attenzione, se ci si sofferma su quella altura di roccia marina e sedimento lavico, su cui sembra incollato un grosso castello cadente, si riesce ad intravedere una figura. Una donna si incunea dietro le grate di una finestra. Una mano si protende verso l’esterno, sgancia il lucchetto che le teneva chiuse. Il rumore dell’evasione dura un secondo. Vestita nella sua tunica di lino bianco, una fascia le avvolge i capelli. Sospira e si affaccia voracemente alla balaustra. Si inchina verso il mare. Lo guarda. Il mantello della notte sembra calarsi, leggermente, su di lei. Quasi l’avvolgesse in un tenero abbraccio. Ad ogni sussulto delle onde fa da eco il richiamo di mille cicale. Un concerto appena abbozzato che dà il senso della notte. Della primavera che bussa alle porte. L’aria è immobile, non si lascia smuovere dal vento. Vento oramai lontano, disperso su qualche montagna ancora innevata. Di sotto, la marea lentamente sovrasta la battigia. Risale. Si muove avanti e indietro. Si allunga e poi si ritrae. Lascia una spuma brillante che evapora magicamente. Disegna una traccia. Sembra una mano tesa verso qualcosa, qualcuno. Sembra uno sguardo solitario, quello della donna. Non è così. Ci sono strade lontane e vicine che si intersecano nella vita di quell’anima silenziosa. Come in un’autostrada dove nessuno vuole pagare il pedaggio per esorcizzare qualcosa che assomigli ad una fine, anche in quella donna il pensiero, le idee, le domande, si tramutano in una richiesta d’aiuto.
“Non ti conosco, eppure ci sei. Tu sei solo? Lo sono anch’io. È come se stessimo scontando, insieme ma divisi, questa specie di limbo che ci fa percorrere strade lontane, parallele. Strade che ci riportano sempre allo stesso punto di partenza, senza mai farci incontrare. È un viaggio verso di noi ed al contrario di noi stessi. Un viaggio che iniziamo cercandoci e che finiamo allontanandoci. Nessuno dei due riuscirà mai a toccarsi. Girovaghiamo, attorcigliati alle nostre esistenze. Ci accartocciamo. Ci avvitiamo ai nostri giorni che scorrono sempre più impietosi, sempre più veloci. Ogni tanto ci fermiamo, presi dalla voluttà di ricordarci chi siamo. Ci curiamo le ferite. Poi, nuovamente, ci dimentichiamo chi eravamo e ricominciamo a sanguinare. Sento che mi chiami. Puoi sentire che ti chiamo? Le nostre voci non fondono mai la risposta per farci trovare. È una specie di apnea, quella che stiamo vivendo. Quando tu affondi nell’acqua, io respiro a grandi boccate. Quando tu riemergi, io mi inabisso. Quando tu risali la corrente, io scendo nel fondale e provo a riannodare i fili del tuo passaggio. Il mio tempo è immobile. Cristallizzato. Come una stalattite che continua a crescere, senz’aria e senza luce. Si ciba di fede, speranza, idealità. Si lascia vivere semplicemente nella sua triste crescita. Più cresce e più fa male l’assenza che genera quotidianamente. Lacrime che assottigliano una stalattite che diventa simile ad uno spillo ma che, caparbiamente, ancora si prolunga, tagliando l’orizzonte, la realtà. Come una lama che squarcia ogni possibilità di reazione. In questa assenza rotolo, ricoprendomi di polvere. Arida materia che frena l’uscita di nuove lacrime. Polvere che brucia e mi richiude gli occhi, come per istinto. Eppure non mi lascio soggiogare dal vuoto ingombrante. Continuo a ferirmi per sentirmi viva e di quella vita assaporo solo l’idea: il come sarebbe stato.”
Così, mentre il sole fa capolino dentro le crepe della notte, ed i raggi invadono le acque sottostanti, il giorno schiocca le dita e ferma la magia. Ogni cosa ritorna al suo posto. La donna rientra. Chiude il balcone. Apre l’armadio. Infila l’abito di sempre. Si fa il segno della croce, scende nella cappella a pregare. Il mattino riempie il paesaggio e svuota i sogni. Il mare riprende lo sciabordio naturale. La brezza marina si attacca alla spuma e la rivolta nelle onde. In quella genesi di giornata normale la donna ritorna suora e dimentica.
Dimentica l’uomo, o l’idea di quell’uomo. Di quell’amore anelato e non vissuto. Dimentica quella presenza mai conosciuta eppure ricercata. Ma lo dimenticherà soltanto…fino all’arrivo della notte, dei sogni.
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