Se non respiri attraverso la scrittura, se non piangi nello scrivere, o canti scrivendo, allora non scrivere, perché alla nostra cultura non serve.
- Anaïs Nin -
‘’Le
emozioni si infilano nella pelle e creano la tensione nei muscoli senza bisogno
di scosse elettriche’’.
Bastevole questa riflessione a dare la gradazione del
sentire, nello scrivere dell’Autrice, della capacità di farsi largo nelle
pieghe dell’anima. La sua.
Dei protagonisti descritti senza alcun bisogno di
dar loro connotazione anagrafica. Tanto chiara è la descrizione.
I monologhi
solo per forma attengono al termine; sono, invero dialoghi con chi ha la
fortuna di tuffarsi nell’esposizione/racconto di analisi, riscontri, accuse,
denunce.
L’amore
descritto, senza l’utilizzo di tomografia, è l’amore messo all’indice, al
bando, l’amore che s’infetta del suo opposto (la violenza verbale, fisica,
psicologica).
Tra le parole però emerge possente con la sua degna veste
l’Amore. Verso il compagno/a, verso gli indifesi, i bambini.
Il monologo
acquista spessore di denuncia da sottoscrivere, da condividere, da far propria
sino a divenire nuova coscienza.
La strage di Capaci. Chabra el Chatila,
Marcinelle.
Il monologo
perde via via anche la veste di racconto per divenire notizia, ‘’pezzo’’
giornalistico. Afferra e stringe la mano del lettore divenendo Virgilio moderno
e distante, guidando a osservare con attenzione e partecipazione, passo dopo
passo, il percorso che conduce a riempirsi.
Non gli occhi. Non solo gli occhi.
Non la curiosità. Non solo la curiosità. L’anima, appunto. La propria.
Svelandole un altro modo di vedere in sé i possibili e nefasti segnali di
ottuso egoismo, di cecità.
L’amore
tossico pervade molte riflessioni de L’ultima luna. L’esperienza professionale
dell’Autrice accompagna i convincimenti espressi. La cultura e l’innata
dimestichezza dialettica perfezionano la forma e il messaggio è invito, accusa,
lectio, carezza, polso deciso. Guerriera a difesa dell’amore vero: da vivere
mano nella mano, seduti in riva al mare. Comunando emozioni e sentire. Con
passione. Avendo sposo necessario il desiderio. Condiviso.
La mitologia
ripresa e riletta e proposta, adeguata alla riflessione, carezza senza sfoggio
né saccenza, proiettando luci vivide e attinenti e solleva, allieta l’anima.
Del lettore. Della lettrice.
Persino la
morte è rivestita. Nella sua consistenza immutabile se non nelle modalità che
di essa mostra la vita. Appunto perché la morte è uno step dell’esistenza.
Inderogabile. Atroce ma porta d’accesso all’altra dimensione. Le riflessioni
sminuiscono davvero e doverosamente le preoccupazioni quotidiane di chi vive
solo del suo giardino.
Ho avuto il
piacere di presentare in anteprima questo libro in radio.
Nella
gabbia della paura, carica di silenzio, le parole facevano a gara per non
fiatare. Tenute ferme, strette sino a soffocare, dai pugni e dalle sberle che,
come “regali d’amore” ricevevo quotidianamente. Anche questo Natale sarebbe
stato carico di lividi sapientemente sistemati, quasi con “eleganza”, come
palline sull'albero. Un albero che tuttavia resisteva alla pesantezza degli
“addobbi” perché saldo nelle radici. Le mie gambe non si erano mai mosse nonostante
l’anima fosse praticamente evasa…da un bel po’. Ricordo il primo “regalo”,
arrivò nel periodo di Pasqua. Consumai in silenzio, come cibo frugale ma sapido
di dolore, l’identico percorso della Passione, insieme a Cristo, denudato,
deriso, flagellato, c’ero anche io. Denudata, derisa, flagellata dalle parole
che con “sapienza” mi “donò” senza limiti di sorta. Infiocchettate e incartate
insieme al fantoccio della gelosia, iniziò con un “togliti quel trucco e quella gonna che sembri una sgualdrina”. Cosa
mi costava fare quello che mi chiedeva? Nulla. Fu così che presi del latte
detergente, tolsi il trucco. Sfilai la gonna, indossai un pantalone. Mi guardai
allo specchio, sembravo quasi un uomo. Ero come mi voleva lui. Mi aveva
denudata della mia femminilità in un solo istante. Eppure ancora non ero
“esattamente” come lui desiderava. Se penso che quel giorno dissi che le parole
fanno più male delle sberle adesso posso affermare, con assoluta certezza, che mi
sbagliavo. Sento ancora l’eco, nella mia mente, di quel “primo” ceffone che,
improvvisamente, “mi regalò”, mentre litigavamo sul mio andare a cinema “con quelle puttane delle tue amiche”. Il
palmo della sua mano si stampò prima sul naso, poi sull'occhio e mi rivoltò la
faccia, da sinistra verso destra, facendola sbattere, come un cencio, contro il
muro della cucina. Proprio lì si sviluppò la “foto tessera” di questo rapporto.
Il mio sangue vivo aveva creato un profilo di donna quasi perfetto. Sangue che
mi colò dal naso (rotto) per quasi un’ora prima di arrivare in ospedale e dire
che “ero caduta dalle scale”. Neanche
allora le mie gambe si decisero a lasciarsi andare, restarono salde, ferme in
quel terreno arido di sentimento, nonostante un lieve tremore le avesse
percorse a lungo. Da quel giorno in poi non mancò occasione per dimostrare che
“l’uomo dei miei sogni” aveva praticamente cambiato personaggio ed era diventato
“l’uomo dei miei incubi”. Eppure io continuavo a chiudere gli occhi e dormire,
sognare, sperare di risvegliarmi “in un giorno nuovo, diverso, pieno di sole”.
Ma ogni volta che le ciglia si aprivano la mia razionalità combatteva una lotta
violenta con il cuore. Cuore sempre in ombra, quasi completamente assuefatto
dalle lacrime a comparsa sistematica dopo l’orrore accompagnate dai soliti: “mi dispiace, perdonami ma io ti amo troppo.”
Avvolgevo da sola il mio destino, chiudendolo in un sacchetto di plastica,
come carne da conservare e mettere in congelatore. Mi dicevo che un giorno
l’avrei tolta dal freddo per gustarla nella sua naturale bontà e non avrebbe più
avuto quel sapore metallico che aveva oggi. Perché io lo sento, ancora adesso, il
sapore del pugno che mi diede quando mi intravide, davanti al bar, mentre
parlavo con un mio vecchio compagno di scuola: Samuel. Eppure lo aveva salutato
con garbo scenografico ed un sorriso di circostanza prima di dirmi che avevamo
un impegno e dovevamo tornare a casa. In macchina diventò o meglio tornò ad
essere il mostro che era: “Se ti vedo ancora
parlare con quel negro di merda ti ammazzo…” ed il pugno, non solo uno, fu
l’inizio delle successive e “solite scuse”.
O forse dovrei dire l’inizio della fine perché da lì in poi cominciò anche a colpevolizzarmi
dicendomi che “se mi picchiava era solo colpa
mia”. Riflettevo, chissà quante donne, come me, vivono una vita piena di
questi “regali” e la domanda restava appesa, senza punto interrogativo. Quasi sospesa
nell'iride liquida di mia madre che ricompare, proprio adesso, come un tarlo, e
mi implora di stare zitta, di resistere, tenere il segreto come aveva fatto
lei…che mai aveva detto ad anima viva cosa le faceva mio padre. Ma io ho deciso,
siamo quasi nel periodo più “bello” dell’anno e per strada già si sente “l’aria
della festa”, l’annuso come un cerbiatto che sente il suo predatore. Così
aspetto che esca per andare al bar, prendo con me soltanto la borsa e il
telefono, in memoria ho foto e messaggi che mi potranno servire, muovo le
radici e sposto quest’albero prima che arrivi il “solito” Natale. Per strada mi
fermo un attimo a pensare, “che sto
facendo?” ed eccola quella gabbia di paura dove le parole fanno fatica ad
uscire. Poi una rosa, mi compare sotto il naso, alzo lo sguardo quasi
spaventata ma è solo il mio amico Samuel, che mi porge quel fiore e mi chiede
perché piango. Con una semplice rosa, “regalatami” da chi celava un’arma pronta
ad uccidermi, era iniziato l’inferno. Ma in quell'inferno non volevo e non devo
tornare più. D’istinto lo abbraccio, senza parlare mi ricarico di coraggio,
respiro fiducia in me stessa e in un attimo sono davanti al portone della
Questura: “Buongiorno, vorrei fare una
denuncia…mi chiamo Eva!”
Nella genesi del mito di Edipo,
accanto a Freud e immediatamente dopo di esso, solo per ragioni temporali, si innesta
un libro che, in una forma corposa ed analitica (qualcuno lo chiamerebbe
giustamente saggio ma io dico che è un unicum ossia un saggio ed un libro di
narrativa insieme), si diversifica e si rende autentico rispetto al già detto,
al già letto tale da prendere un posto di assoluto rilievo e vi rimane per
tracciare, fondare una variante acuta, intelligente, autentica dello stesso.
Parliamo di EDIPO [Per una genealogia dell’umano (Pensa Editore)] l’ultima opera
nata dalla genialità eccelsa di Luigi Anzalone, professore di storia e filosofia,
filosofo di grande intuizione stilistica e devoto alla critica dell’Humanum, personaggio politico di spicco
della sinistra italiana (quella vera) negli anni in cui l’arte di governare o
la scienza dell’amministrare era ancorata a valori, ideali di appartenenza, fortemente
devota al benessere sociale e alla parità di diritti (e doveri) ma anche
totalmente priva di qualunquismo e spurio populismo. Luigi Anzalone era e lo è tutt’oggi,
con un pensieroso disincanto, un comunista marxista nel senso più idealistico del
termine, forte di una grande e vasta cultura che abbraccia ampiamente la sua
terra d’origine, quella di elezione (e non solo quella) e va, speditamente, oltre
confine. E’ stato altresì corrispondente dell’UNITA’; consigliere del Comune di
Avellino; segretario provinciale del PDS; assessore regionale della Campania al
Bilancio, al demanio e ai rapporti con i paesi del Mediterraneo; presidente
della Provincia di Avellino; vicepresidente della Commissione Regionale
Anticamorra. Ha scritto numerosi libri e saggi sulla filosofia antica (Socrate)
e moderna (Nietzsche, Colli, Croce, Arendt) e sulla questione meridionale. Tra
i testi di maggior spessore si segnalano (per brevità di esposizione): Memoria
e utopia in Ernst Bloch; Lungo il fiume senz’acqua; La Dea Bianca e la comunità
interculturale; Eroi nel paese della mafia. Storie italiane: Impastato,
Ambrosoli, Falcone, Borsellino, Don Puglisi. Anzalone è un fine pensatore ma
anche un attivista senza indugi, figlio di quell’indissolubile ideologia che
vide, in Gramsci e Berlinguer, i maggiori esponenti. Questo UNICUM, mi si passi il termine
descrittivo di un’opera singolare ed innovativa nel suo genere, consta di una straordinaria
quanto stringente e radicata introduzione di Giuseppe Cantillo, accompagnata da
una prefazione ed una nota a margine ad opera dello stesso Anzalone. Seguono
quattro parti divise in sette capitoli ed una conclusione. La prima parte,
rubricata: EDIPO E IL REGNO DELLE MADRI
analizza Bachofen, l’interpretazione Hegelina dell’Antigone di Sofocle
unitamente a Freud e al complesso di Edipo (come fondamento della
psicoanalisi). La seconda parte, rubricata: EDIPO E LA STORIA racconta, con le spinte e i tratti stilistico
letterari propri di un romanzo avvincente, la nascita del mito, il percorso
evolutivo, l’ira degli Dei, il destino eroico-tragico dell’uomo affetto da
Hybris, la morte di Giocasta, la morte dei figli uno per mano dell’altro ed
infine quella di Edipo in esilio per terminare con lo scontro tra Creonte ed
Antigone con la condanna a morte di quest’ultima. Segue una terza parte, rubricata:
EDIPO, LA SFINGE E L’ENIGMA, su cui concentreremo
la nostra indagine, oltre a una quarta rubricata: L’ANIMALE CHE CAMMINA NEL TEMPO dove si racconta l’evento
metafisico originario, l’uomo, l’anamnesi materna della preistoria, l’animale
che muore e la nascita dello spirito. Con questo libro, con Edipo, Anzalone
compie, dal punto di vista dell’indagine filosofica e speculativa e altresì da
quello narrativo – letterario, un “triplo salto mortale carpiato con
avvitamento”. Qualcosa di davvero difficile e sorprendente (ma non troppo per
chi ha la fortuna di conoscerlo) che gli riesce con una semplicità, a tratti,
decisamente sconvolgente. Nella sua indagine, nella riflessione investigativa
sulla nascita dell’uomo, nel dileguarsi nella notte del Sé, in cui tutto può
scomparire oppure essere conservato, qualsiasi cosa diventa un dilemma, una
domanda, una incognita, in una parola un enigma. In questa notte
indecifrabilmente spaventosa ma meravigliosa, che fissa l’uomo negli occhi, scrutandone
l’inconscio, ecco venir fuori quell’alito di passato, quella radice profonda,
da cui ognuno di noi proviene. Dal “già vissuto” dell’incosciente notte si
materializza la coscienza del giorno. Da quella che Hegel chiamava “notte della
conservazione” prende vita, corpo, dimensione, quella genesi e genealogia
insieme dell’umano. Un soggetto che cammina, perennemente, sul filo di un
rasoio, sulle altezze pericolose della coscienza e dell’incoscienza insieme.
Eppure quegli occhi, che Edipo si caverà per la dolorosa scoperta dell’incesto,
servono, prima ancora che a raccontare la tragedia, a costruire una questione
ontologica: il discorso sull’essere uomo, uno e pluralità. Per ricondurre
l’essere dall’oggettivo al particolare e dal soggettivo all’universale, in uno
scambio di interdipendenze reciproche di memoria, coscienza, conoscenza, sapere
positivo, storia in un percorso verso “l’evento metafisico originario”.
Quell’evento che generò il mito di Edipo, partorito, se così si può dire, con
sangue e dolore, dalla lotta acerrima tra patriarcato e matriarcato. Di questa
visione, cruda e carnale insieme, l’autore prima si veste dei suoi poderosi studi,
da quelli sul matriarcato di Bachofen a quelli di Freud, nell’accezione
psicoanalitica di “Complesso”. Ne crea un abito elegante, rifinito con cura,
preciso nei dettagli e nei particolari tuttavia alquanto stretto, per la
complessità della sua materia cerebrale. Per tale ragione, ad un certo punto
della sua analisi clinica, quasi si trattasse di un’autopsia per conoscere le
reali cause di una morte, se lo strappa di dosso, lo lascia cadere sul
pavimento, dimostrando, in questo modo, l’autenticità e la modernità del suo
argomentare. Anzalone comprende che, per parlare di Edipo necessarium est nascere o dovremmo dire: rinascere. Uscire dal
magma del ventre materno, respirare il primo afflato d’ossigeno, piangere
disperatamente per il distacco, essere o voler essere un bambino che ha appena
visto la luce del giorno, le cui iridi sono ancora vergini rispetto alla
infelice tragedia del mondo che lo circonda. Solo rivestito di pelle, ancora
calda e umida per il parto, con le autenticità della materia ancora non
plasmata, ma pronta a formarsi nel percorso evolutivo, si diventa uomini, con
tutto quello che ne consegue. Ed ancora da quel bambino, poi abbandonato per un
presagio di sventura, ma ricondotto dagli eventi o dal fato fino al principio
della sua genesi, che parte l’incipit di ogni cosa. E’ un Edipo uguale e
diverso da tutti gli altri, tesi e antitesi di domande indefinite, rivestito
della sua pelle originale e “solo sua”, quella pelle che gli dà modo di creare,
dal mito, conosciuto e riconoscibile, un essere concretamente attuale, tratteggiato
con delicata autonomia. Un racconto indagatore, di critica e assoluzione, senza
tuttavia condanna, in una soggettiva e per questo direi quasi riformata versione.
Con estrema sapienza, con inziale cautela eppur senza paura, si tuffa nell’oceano
prima calmo, poi burrascoso, delle teorie, conosciute e conoscibili, con
quell’acrobazia così complicata e difficile di cui ho detto prima. Una volta
completamente sommerso, quando tocca la profondità della conoscenza, riesce a riemergere
portando con se un’essenziale e particolare (unica) materia plastica che gli
servirà a costruire e celebrare quella saga mitologica caratterizzata principalmente,
ma non esclusivamente, dal germe della violenza. In questa genesi paradigmatica,
che altro non è se non una rinascita del mito, viene ricomposto, ristrutturato,
rimodernato, sino a giungere a compimento, il mito nella sua grandezza e nella
sua tormentata esistenza. A differenza di Freud che, nell’Interpretazione dei
sogni, espone la teoria del “complesso” edipico, muovendo dall’Edipo Re di
Sofocle, certificandone l’antica genealogia e vitalità carnale del complesso, quindi
analizzando il rapporto con la madre e amante con Giocasta, Anzalone cerca di
estrapolarlo dalla carnalità incestuosa tentando (riuscendoci, come diremo
avanti) una complessa operazione di spostamento dell’attenzione o dell’indagine
dal factum principis ad un fatto
collaterale ma per ragioni di analisi filosofica decisamente fondamentale per
disvelare tutto il resto. È sulla sfida, quella di Edipo con la Sfinge, che si
incentra un’insolita ma più attrattiva definizione del mito. Come una statua che
si sgretola dalle fondamenta, che supera la staticità in cui era stata
relegata, nella lettura di questo testo riusciamo quasi a vedere la caduta del
materiale che teneva bloccato il mito, immobile, fermo, nella posizione di
attesa perenne. Statua che era ancorata, con funi solide, a un’idea o più di
una, convergenti e fisse nella profondità di un terreno, in alcuni punti, fatto
di sabbie mobili, tendenti a farlo soccombere nei sotterranei della perdizione.
Legato così fermamente e stabilmente da non consentirgli alcuna fuga o passo in
avanti. Eppure quella statua, originariamente, era un valoroso guerriero su
cui, un Dio Malvagio, aveva colato, senza possibilità di salvezza, argilla
mista a marmo, per tenerlo inevitabilmente pietrificato. Nel libro di Anzalone
il focus principale è sull’enigma vista non solo come un tratto morfologico
della grecità ma come drammatico contrasto tra due leggi, o potenze etiche,
pregna di un carattere totalizzante ed assoluto. Ma cosa vuol dire enigma?
L’autore parte dalla parola latina “aenigma” derivante dalle parole greche ainigma e ainigmos che rinviano, di poi, ai verbi ainissomai e ainittomai,
che significano “parlare coperto”, “accennare oscuramente”. Aristotele
definisce l’enigma come una “formulazione antifatica” collegandolo
inscindibilmente alla metafora e alle sue ambigue contraddizioni. Quindi mentre
l’enigma consiste nel dire quello che si ha da dire mettendo insieme cose
impossibili, nella metafora vi è il trasferimento ad un oggetto il nome che è
proprio di un altro e questo trasferimento avviene o dal genere alla specie o
dalla specie alla specie o per analogia. Alla categoria dell’enigma, citando
Colli, vi è origine ed essenza del potere divinatorio religioso e filosofico
greco fino ad arrivare alla sua stessa civiltà. Sul terreno della mania
l’esperienza umana e culturale dei Greci fa incontrare Apollo e Dionisio.
Dionisio manifesta nella violenza il gioco, Apollo, viceversa, nel gioco la
violenza. La pluralità e la totalità della vita nasce dal loro reciproco
rinviarsi. Nel dionisiaco c’è la raffigurazione dei limiti entro cui si muove
l’esperienza umana: l’animale e il Dio. Nell’apollineo si riflette il carattere
conoscitivo ed ermeneutico di tale esperienza. Per questa ragione “a Delfi si manifesta la vocazione dei Greci
per la conoscenza. Difatti il sapiente non è il ricco di esperienza, chi
eccelle in abilità tecnica, in destrezza, in espedienti, come lo è invece per
l’età omerica). Odisseo non è sapiente. Sapiente è invece chi getta luce
nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi precisa
l’incerto” (estratto da Colli: La nascita della Filosofia; come e più
estensivamente citato nel libro di Anzalone). Considerando, senza svelarlo,
quello che avviene nella sfida tra Edipo e la Sfinge e nel prosieguo della
vicenda, prima “trionfale e felice” poi “drammatica e persino tragica” Anzalone
avanza l’ipotesi, oppure il sospetto, che “il senso dell’enigma di Edipo come
enigma dell’uomo, della condizione umana nel mondo, possa non essere tale da
sciogliersi”. Ma cos’è la Sfinge? Cosa in realtà rappresenta? Innanzitutto è
opportuno distinguere fra due tipologie sfingi: quella egizia e quella greca,
che rimandano a significati simbolici assai diversi. Quella dei monumenti egizi
(che Erodoto chiama androsfinge, per distinguerla da quella greca) è un leone
accovacciato, con testa d’uomo; rappresentava, si congettura, l’autorità del
re, e custodiva i sepolcri e i templi. Per converso, la sfinge greca ha testa e
petto di donna, ali d’uccello, corpo e piedi di leone. Altri le attribuiscono
corpo di cane e coda di serpente. Dicono che desolasse la regione di Tebe,
proponendo enigmi agli uomini (poiché aveva voce umana) e divorando quelli che
non sapevano risolverli. Anche la posizione varia nelle due culture: la sfinge
egizia è distesa sulla pancia, spesso con le zampe anteriori in posizione di
offerta, mentre quella greca sta seduta sulle zampe posteriori, col busto
eretto e le mammelle sporgenti. Gli Egizi la chiamavano Shespankh (statua
vivente) carica di uno slancio vitale quasi che il suo granito vibrasse a
livello molecolare; "guardiana delle
soglie proibite e delle mummie reali. Ascolta il canto dei pianeti, veglia sul
limitare dell’eternità, su tutto ciò che è stato e che sarà. Vede scorrere in lontananza
i Nili celesti e navigare le barche del sole" (estratto da "Il
libro dei morti"). Quindi la sfinge è simbolo strettamente connesso alla
morte, al passaggio ad un mondo al di là. La sfinge greca, invece, non è più il
guardiano delle porte dell’infinito, bensì diventa una specie di mostro
terribile, più crudele che enigmatico, nel quale si può facilmente vedere il
simbolo della femminilità perversa e pericolosa. Nella tradizione mitologica
della Grecia antica la sfinge è figlia di Echidna, essere ibrido mezzo
fanciulla e mezzo serpente, madre di esseri mostruosi quali la Chimera, Scilla,
la Gorgone, Cerbero, il Cane Ortro. Frutto dell’accoppiamento incestuoso tra
Echidna ed Ortro, la sfinge verrà conosciuta, grazie a Freud, quale simbolo
dell’inconscia pulsione incestuosa presente nell’uomo. Portatrice dell’enigma
che causa la morte di chi non lo risolve, simbolo della dissolutezza e del
dominio perverso: essa fu mandata da Era contro la città di Tebe per punire il
re Laio ritenuto colpevole d’omosessualità. Sconfitta solo dall’intelletto,
dalla sagacia, in contrapposizione con l’istupidimento ottuso nella sua
posizione statica aderisce indissolubilmente alla roccia sulla quale poggia. E’
dotata di ali ma non vola e non le servono neanche per salvarsi dall’abisso nel
quale si getta per suicidarsi. La Sphynge greca, nei tratti femminilizzata,
diviene simbolo della vanità tirannica e distruttiva. Jung ne ha sottolineato
gli aspetti legati all’archetipo della madre nella sua valenza negativa,
aspetti con cui ciascun soggetto umano, per divenire tale, deve potersi
confrontare. Aspetti che non dovrebbero essere sottovalutati né sminuiti
essendo, per ognuno di noi, la "grande prova" per divenire adulti. Fatta questa premessa, se la vicenda
di Edipo può essere presa a modello di quella umana questo vuol dire che l’uomo
quando si conosce e si comprende come uomo, sia nel “farsi”, nel “diventare ciò
che è” resta un “enigma” ignoto a se stesso, un “miscuglio dialettico di
possibilità ed impossibilità” oppure “una possibilità impossibile o una
impossibilità possibile”. Ebbene, i Tebani ed Edipo sono uomini nel senso pieno
del termine? Se gli uni perdono la sfida e sono divorati dalla Sfinge mentre
l’altro lo risolve, costringendo la Sfinge al volo mortale, allora è chiaro che
i primi (i Tebani) siano quasi l’emblema dell’immagine capovolta della Sfinge.
Insomma sono più animali che uomini (la Sfinge era per metà animale e per metà
umana). Soltanto Edipo sa rispondere e svelare l’enigma e la cosa gli riesce
nel modo peggiore ed ambiguamente beffardo. Le sue possibilità esistenziali si
convertono nel loro opposto, tanto è che le nozze con Giocasta sveleranno la
loro atroce fisionomia solo quando non si potrà più porre rimedio al male
tremendo che hanno cagionato. Si potrebbe senz’altro dire, quindi, che la
risoluzione dell’enigma, la vittoria di Edipo sulla Sfinge risulta, infine solo
apparente perché se è vero che chi risolve non vive e viene divorato e chi risolve
vive e viene proclamato Sapiente, Re di Tebe, ecco che la stessa vittoria lo
conduce all’estrema vergogna, all’accecamento, alla perdita del trono. Per tale
ragione, dal momento in cui Edipo risolve l’enigma, ecco il germe della
disperazione e della morte che si innesta nella sua vita. Apparentemente
vittorioso porta in se la genesi di un nuovo dolore, questo comprensibile e
vissuto sin nella carne, con la razionalità di un uomo che non è più un bambino
abbandonato ma un Re. Il trionfo di Edipo, quindi, prelude alla sua rovina e la
nascita dell’uomo, in quanto uomo e la sua morte in quanto animale non accade
mai definitivamente. Anzi l’autore dice che accade soltanto in parte e altresì
riconducendo la soluzione dell’enigma alla morte dell’animale per metà donna,
si allude non solo alla fuoriuscita della specie umana dall’ordine di Madre
Natura ma anche e soprattutto all’eventus
dell’uomo che “si fa uomo” mediante il camminare eretto, il linguaggio, il
pensiero simbolico e trova la sua primordiale interazione nei primi anni di
ogni essere umano dopo che fuoriesce dal grembo della madre. Dalla nascita ci
si lega, per converso, in maniera stringente, alla morte, come una necessità
assoluta per la definizione autentica della prima e, lo diceva semplicisticamente
anche una canzone, “si muore un po’ per
poter vivere”. Eppure “la morte -
diceva Heidegger - è lo scrigno del
nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di
semplicemente assente e che, tuttavia è, addirittura si dispiega con il segreto
dell’essere stesso. La morte alberga in sé ciò che è essenziale dell’essere.”
L’Edipo di Anzalone esprime, nella sua drammatica sconvolgente esistenzialità,
l’ambiguità, la doppiezza, l’enigmaticità. Edipo è il chiaroveggente, il
decifratore di enigmi, ma è lui stesso l’enigma che, nel suo accecamento, è
incapace di decifrare. Non è quindi uno bensì un doppio come la stessa parola
dell’oracolo. E’ un re salvatore ed un mostro di impurità che concentra su di
se tutto il male, tutto il sacrilegio del mondo e che bisogna cacciare come un pharmakòs, un capro espiatorio perché la
città, ritornata pura, sia salva. Eppure il mito che racconta Anzalone non è
quello di un eroe. L’eroe, dice Schelling, è tale in quanto sfida il destino
pur consapevole, nella sua finitudine e mortalità, di essere destinato a
soccombere. Ma proprio quando egli sfida il destino, acquista la grandezza del
destino e diventa eroe. Ossia quell’uomo tragico che affronta con tenacia e
coraggio (eroismo appunto) la morte. La guarda dritta negli occhi, non ha
timore di affrontarla, quasi l’accoglie nella sua vita, pronta ad
inginocchiarsi fatalmente al destino. Edipo, per contro, è un uomo che si
ribella al destino non per diventare eroe ma per non abdicare al suo essere
uomo ossia padrone autentico di se stesso e delle sue azioni e quindi anche
della sua sorte per non essere un oggetto in balia del destino o vittima di
questo. Un destino che lo avvolge e lo travolge, che lo edifica nella gloria e
lo distrugge con le sue stesse mani. Tuttavia, in questo tentativo di essere un
anti-eroe che diventa un eroe e dopo aver tanto combattuto, lottato, deve
rassegnarsi a quel Dio che gli cola sul corpo una sorte già scritta, sin dal
primo vagito. Edipo è quindi l’eroe, l’emblema, dell’infelice condizione umana.Edipo scioglierà l’enigma della Sfinge ma mai
scioglierà l’enigma di se stesso. L’enigma delle tre età, l’evidente allusione
alla filogenesi dell’uomo, che la Sfinge propone ad Edipo, si riferisce non
solo alla portamento fisico, al modo di camminare dell’umanità ma alla sua
sostanza psicologica, alla mentalità, al carattere esistenziale ed esistentivo
dell’essere umano. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che è “nell’evento metafisico originario” che si raccoglie e si condensa
la vita dell’uomo, molteplice, ricca, complicata, diversificata e
diversificabile rispetto a tutte le altre vite umane e soprattutto animali. Si
tratta del passaggio dall’ominide all’uomo, l’anello mancante dell’evoluzione
o, se vogliamo, il momento in cui l’evoluzione raggiunge un livello così alto
da essere inadeguata. Ed ecco che l’uomo si costruisce, materializzandosi
scientemente, nel suo interpretarsi: l’uomo è un animale “ermeneutico”. Il
momento culminante di questo evento metafisico Edipo lo vive nell’affrontare la
Sfinge quando si stabilisce, nella risoluzione dell’enigma, che l’uomo si muove
nello spazio, innanzitutto perché lo percepisce nel tempo, nel prima e nel poi
e anche nella simultaneità dei momenti. L’uomo muore come animale perché è
coscienza, più precisamente diviene coscienza. Coscienza che fruttifica nel
pensare ed essere pensiero. L’uomo quindi si scopre uomo, coscienza, tempo, proprio
nel fatale cammino sulla strada della morte, impegnato in una sfida costante (e
impari) con questa. Nella risoluzione dell’enigma, nel movimento dell’uomo nel
tempo, nei tre stadi della vita, infanzia, maturità, vecchiaia, la Sfinge
lacera le sue carni nell’abisso e nella morte dell’animale subentrare la
nascita (ma anche la rinascita) l’uomo, il suo essere diverso. Uomo che tuttavia,
nel cogito ergo sum dell’esperienza intuitiva Cartesiana, demolisce il sogno
(per dirla alla Husserl “il sogno è
finito”) perché sa che il tempo non è pieno ma parziale, che gli rimane da
viverne un pezzetto, perché comprende di essere mortale. Concludo, per non
disvelare tutta la bellezza concettuale di un testo che va letto, evidenziato
nei passaggi più impegnativi per essere poi riletto, riassorbito-rielaborato-rivissuto
con consapevolezza critica, richiamando una frase di Eraclito che meglio
evidenzia, ad inizio opera, su cosa focalizzerà l’attenzione il suo autore nel
racconto e nella peculiare rivisitazione del mito: “Tentai di decifrare me stesso. La trama nascosta è più forte di quella
manifesta. I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure
se percorrerai tutte le strade, così profondo è il logos che le appartiene”.
Sabato, tre Novembre alle ore 17:30
presso il Circolo della Stampa di Avellino si terrà l’incontro-dibattito sul
libro L’ULTIMA LUNA, di Emanuela Sica. Interverranno, moderati da Gianni Festa
[Direttore Quotidiano del Sud]: Simona Stammelluti [Giornalista]; Luigi Anzalone
[Professore]; Rosa D’Amelio [Presidente Consiglio Regionale Campania]; Antonio
Bassolino [Presidente Fondazione Sudd]. L’evento ha ottenuto il patrocinio
della Presidenza del Consiglio Regionale Della Campania e della Fondazione
Sudd, in collaborazione con il Circolo della stampa di Avellino.
L’ultima luna [Pensa Editore] di
recente ha vinto il Premio della Critica al Premio Letterario Internazionale
“Tra le parole e l’infinito” - Award Cultural Festival International [XIX
Edizione].
Breve sinossi del testo.
Lavoro letterario il cui titolo è
ispirato dall’omonima canzone di Lucio Dalla (artista e maestro delle
introspezioni più meditanti ed umanistiche dai tratti essenzialmente onirici)
affronta la vita, l’amore, la morte, la mitologia in un intreccio di fatti ed
eventi, il più delle volte, realmente accaduti ed a tratti mitologicamente
agganciati alla storia dell’umanità. Vite che si innestano nella genesi
dell’essere, nella sua trasformazione, evoluzione ed involuzione. Nel libro si
racconta l’AMORE e le sue infinite metamorfosi e catarsi; la VITA e le sue
concretezze di cronaca, attualità e storia, in una danza cruenta (e impari) con
la MORTE; la MITOLOGIA e le sue strabilianti storie nell’eterna lotta tra Eros
e Thanatos. Racconti e monologhi che aprono, scenograficamente, il sipario su
un mondo, antico e moderno, fatto di uomini e donne che (realmente -attraverso
storie vere- oppure mitologicamente) con le loro azioni, omissioni o
sottomissioni hanno lasciato un segno, a volte profondo a volte superficiale,
nella vita di ognuno di noi. L’incipit è un germoglio che diventa pianta. Il
seme è quello dell’Amore. Amore che cresce e si trasforma (a volte) sino a
diventare l’involuzione del suo stesso nome, si trasforma in peius nel suo
significato originario, diventando amore tossico e dando nutrimento e linfa
alla più atroce violenza di genere. Si prosegue con la cronaca, con le storie
nere e vere, di terribili martirii. Si narrano le esistenze di esseri umani che
chiamiamo eroi oppure conosciamo solo in punto di morte nelle stragi di mafia e
di terrore, figlie innaturali dei vecchi e nuovi tempi. Ancora racconti e
monologhi come cospicue testimonianze, liricamente meditanti, della grave crisi
della civiltà in cui viviamo con un'opposizione condotta, manco a dirlo, in
nome dell'humanum, ovvero dei valori razionali ed emozionali su cui si fondano
la libertà, la dignità e l'uguaglianza, di cui una delle più significative ed
eminenti espressioni sono le humanae litterae. È questa la traccia di
quell’infinito (ed oltre) “sentire” in un mondo che ci appartiene ed a cui
siamo legati, nella felicità o nella sofferenza, nonostante tutto ed anche con
tutte le sue assurde contraddizioni.
I principali temi ed argomenti
trattati nel testo: AMORE; AMORE TOSSICO: VIOLENZA DI GENERE -FEMMINICIDIO -
VIOLENZA PSICOLOGICA - VIOLENZA SESSUALE; AMORI STORICI E MITOLOGICI;
SORRISO-SPERANZA-ETERNA LOTTA TRA IL BENE E MALE; INFANZIA ABBANDONATA; STRAGI
DI MAFIA (FALCONE); TRAGEDIA MARCINELLE; TERRORISMO (STRAGE DI NIZZA); FINE
VITA – EUTANASIA (VICENDA DJ BOBO); GUERRA IN SIRIA; ATTENTATO TERRORISTICO
BERLINO (IN MEMORIA DI FABRIZIA DI LORENZO); STRAGE DI SANT’ANNA DI STRAZZENA
1944; TERREMOTO; STRAGE DI SABRA E SHATILA 18 SETTEMBRE 1982; NAPOLI VISTO DA UN
FANTASMA: TOTO’; PEPPINO IMPASTATO; VIOLENZA; GLI ULTIMI: I BARBONI; VIOLENZA
NEGLI ASILI; TRATTAMENTI DISUMANI NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO; PALESTINA E
CAMPI DI CONCENTRAMENTO; OMOSESSUALITA’; ABBANDONO; MARIA TERESA DI LASCIA.
Un libro che è una storia nella storia, apre scenari di conoscenza paesaggistici, culturali, professionali e sentimentali.
Una corolla che si apre ed ogni petalo contribuisce alla bellezza ...finale
E’ elegante nello stile, nella veste e nelle descrizioni, raffinato negli intarsi dei dialoghi fra l’io e l’altro, con a tratti passi che introducono e sfociano nella pura poesia. Un caleidoscopio di emozioni, che avvince il lettore, ma lo costringe ad interrogarsi, a riflettere a parteggiare, ad intromettersi così lo trasforma nel fantasma invisibile e sofferente perché vede tutto e non può interferire.
Intrigante nella conoscenza della doppia visione, maschile e femminile, in un gioco di pensieri e parole, emozioni e sensazioni, diversi ma non differenti, complementari e non contrapposti, che rappresentano il genere maschile e femminile nella loro espressione più naturale, cercarsi con cautela, per incontrarsi e conoscersi sempre sostenuti dal rispetto dell’altro attenti a non invadere, per timore di allontanare l’altro.
La Sicilia è la terra dove tutto si svolge, la Sicilia separata dal Continente, in preda ad un potere che abitua alla sopraffazione, dove la coercizione seduce e protegge ma esige silenzio ed obbedienza, ambigua e guardinga, la Sicilia dei luoghi comuni, della passione e gelosia, dell’onore e disonore, della parlata stringata ed essenziale, dove essere donna è difficile ed essere donna libera è quasi impossibile, la Sicilia sfregiata e disonorata dalle immagini e dai luoghi comuni, la Sicilia del potere maschile, la Sicilia dei vinti di Verga.
La Sicilia dove le donne sono femmine e sfidano la morte per amore, libere nell’animo vincono e perdono ma sempre con onore. La Sicilia dove le donne sopraffatte sono capaci di esercitare l’unica libertà possibile, segregarsi e immolarsi ad una morte lenta e giornaliera o scuotersi ed ingaggiare battaglie impossibili nel tentativo di arruolare amazzone ferite. La Sicilia di Alcamo, dove è nata Franca Viola, la ragazza che con un no, ha cambiato la storia e le leggi.
La Sicilia dei profumi, dei colori e dei sapori che ti struggono con un’inguaribile malinconia, la Sicilia del ritorno a casa, degli affetti intensi che sono balsamo lenitivo di qualsiasi ferita.
L’amore, sognato vissuto sperato violato quello vero e quello “tossico”, del “ti amo da morire”, dove tutto è deciso senza mai chiedere a lei, dove violare il corpo è una pratica di possesso, e la violenza è giustificata dal “troppo amore” come se l’amare troppo fosse una forza incolmabile e straripante impossibile da contenere, un’energia meccanica che richiede attrito per dissiparsi, per riaffiorare indebolita e gestibile sotto vesti innocue e persuasive, in un’altalena ciclica che è disorientante, destabilizzante perché tutto quello che accade nell’alchimia del rapporto è colpa tua perché hai un corpo con una fuoco sensuale che accende e provoca, che deve essere spento alzando ogni volta l’asticella della violenza.
Tentare di rianimare bocca a bocca un cobra pronto a mordermi, ad avvelenarmi, è stata la mia unica colpa. Crocerossina di un sentimento, il suo, inesistente. Dipendente, come una droga, da una passione che veniva vissuta senza complicità, e senza unicità, meritavo quelle botte? Meritavo di morire per quell’amore? Ho pensato anche a questo, ho pensato giustamente ancora una volta a dare la colpa a me di quello che era appena successo ... se non avessi fatto o non avessi detto.....
Avrei dovuto riprendere la mia dignità, le forze che mi erano rimaste, darle in pasto all’orgoglio ferito, fuggire dal cimitero dell’anima, capire che l’amore non ti scarnifica nella dignità, non ti impaurisce, non ti pianta spille nel petto, non ti canzona se piangi..., ma è quello che ti unisce senza pretendere di cambiarti, che ti fonde senza annullarti, invece si resta preda di una gelosia, sempre in allarme, senza possibilità di uscita, in silenzio perché il silenzio è un mezzo di protezione, perché eroicamente ci si immola per proteggere gli altri, e si sceglie di essere sole ma quando si è sole si è vulnerabili, si affida la propria vita a chi la disprezza e la possiede, a chi in ogni attimo può recidere il filo, dandoti la colpa perché in fondo hai scelto tu, perché in fondo sei tu che l’hai permesso trascinata dall’illusione di un amore unico ed incontenibile, slegarsi è difficile ma non è impossibile, una rinascita richiede volontà e coraggio, per ricominciare, per ricredere, per fidarsi, come Camila, che saputo trovare la forza di riprendersi la propria libertà, che ha saputo essere determinata ed ha annientato la facciata per bene di un uomo che celava la bestialità con una vita sociale di finzione mentre svelava la sua natura al riparo dagli occhi degli altri, perché i violenti sono abili mistificatori, manipolatori crudeli, titolari del privilegio di possedere gli altri, per cui negano e minimizzano la violenza, sono vincenti e forti, sanno ammaliare ed affascinare, voraci della libertà altrui. Difficile ammettere per chi cade nella trappola della seduzione del violento, viatico della schiavitù di essersi sbagliata, ci si ostina a ritrovare una sembianza che da qualche parte pur deve essersi celata, con la colpa di averla squarciata, si persiste per espiare, perché intanto si è sole, perché per risalire dallo strapiombo ci vuole forza e si è fiaccate e si resta sospese nel timore e nel desiderio di essere scaraventate definitivamente, così tutto finisce. Risalire per rinascere, è possibile ci vuole una mano tesa che ti tiri su, ma è necessario che tu l’afferri, perché la vita è un dono prezioso che viene fatto ad ognuno di noi, uno per uno, unica e irripetibile, è un disegno da colorare ma i colori li devi scegliere tu.
La vita è fatta di tempo, ed il tempo sprecato la vìola, il tempo rubato la marchia, la vita si nutre di libertà, “Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”.
Allora ecco questo libro diventa un’opportunità di vedersi allo specchio, un messaggio di speranza, insegna che volere è potere, che la scelta è la chiave di volta della propria vita, e nessuna scelta è per sempre, perché la vita ha un disegno meraviglioso che non si palesa se non alla fine, perché
“la vita è tutto ciò che ti accade mentre fai altri progetti”.
Questo
libro è la rappresentazione in parole dell'anima dell'autrice che ci conduce
per mano, scandagliando le varie sfaccettature del cuore umano, in un percorso
che si dirama e si riflette nelle varie immagini che lei descrive e che
magicamente si concretizzano, anche in modo molto crudo e disperato, ma che
danno il senso di un dolore che nella maggior parte dei casi non si riesce ad
esprimere, si tiene dentro, come un compagno scomodo, di cui non si riesce a
fare a meno.
L'amore è delineato in vari stadi, ognuno con un proprio spazio,
che assorbe il tempo del pensiero e si trasforma pian piano: la metamorfosi
dell'amore diventa una sorta di creatura quasi metafisica che addenta l'anima,
è una sensazione fisica che consuma e si apre all'altro con voracità, quasi
dilaniandolo. Non ha la leggerezza di un sentimento, ma è come se afferrasse la
parte più intima e fragile, mentre la disperazione di un amore venduto si
trasfigura attraverso parole dense di significati reconditi che si immergono
nel magma incandescente del dolore e della natura e ne escono purificate,
conservando tuttavia tracce e cicatricidi ferite indelebili.
L'autrice
riconduce tutti i suoi monologhi a un'idea ciclica che permane l'odierno senso
della vita, la difficoltà di condividere i propri sentimenti e, in un certo
senso il rifiuto di ascoltare l'altro e anche se stesso,non fermandosia guardare l'altro e ciò diventa una mistificazione
di un sentimento importante, ma che si può spezzare o ridurre a brandelli a
contatto con la realtà. La sua “anima allo specchio” riflette i sogni spezzati
e le speranze deluse delle donne, costrette a vivere sentimenti non autentici.
L'amore
viene vissuto e rappresentato, attraverso i pensieri frammentati, come una
malattia, che non si riesce a definire, ma scava dentro di sé, con immagini
vivide che danno un profondo afflato emotivo e ci circondano in un abbraccio
che sottende tuttavia un'unione e un senso di condivisione e di speranza.
La
violenza estrema, pervasa di veleno, come una cicuta, viene così descritta in
modo vivido e forte, ma tuttavia mascherata da immagini, perchè è qualcosa che
va al di là dell'essere umano, non dovrebbe esistere e l'autrice ne sfuma i
contorni, creando una metamorfosi e dando voce a chi non ce l'ha. Vengono
espresse tutte le varie sfaccettature del dolore di una donna e del suo eterno
sacrificio, la dignità di donna vituperata e umiliata dalla necessità di un
guadagno, ma che a volte diventa una maschera, per quanto deformata e
irriconoscibile, dietro cui nascondersi.
Le
storie, flash intensi su un percorso di vita personale, denso e pregnante,
delineano l'inizio di un attimo senza fine, qualcosa di transitorio, che
vorremmo fermare, mettendo delle dighe all'anima e legando metaforicamente coloro
che amiamo, alla nostra vita. Bisogna far scaturire in noi la necessità di
accettare la nostra debolezza, che a volte si trasforma in forza, “lasciarsi
andare” senza perdere mai la speranza, ma soprattutto vivere nel sogno che si è
costruito con l'innocenza e la spensieratezza della giovinezza, nonostante
quello che ci circonda.
A
volte sembra come se due mondi, quello della realtà vera e quello di una realtà
diversa, immaginata o al di là della vita, si intrecciassero e si prendessero
per mano ed è necessario compiere “giri enormi alla ricerca di risposte” che
nessuno può darci.
L'autrice,
attraverso un uso sapiente e immaginifico delle parole, “tessitrici di una
storia” fa rivivere con grande sensibilità eroine mitologiche, in cui far
palpitare e condividere i propri segreti e sensazioni.
Si
avverte, attraverso le pagine del libro una sensualità profonda, ricreata con
un linguaggio apparentemente semplice e al tempo stesso evocativo di una realtà
che viene imprigionata dalla quotidianità e dalla cattiveria umana che a tratti
sconfina con la malvagità, in cui viene “ ridotta a brandelli la speranza” a
causa della violenza perpetrata ai danni di una donna, in cui l'autrice si
immedesima profondamente , dando il senso di una paura e tensione continua.
L'uomo
appare come un carnefice, non soltanto nell'atto di violenza, ma anche
nell'insensibilità nei suoi confronti, non dandole il valore che merita come
persona, oltre che come donna.
Suggestive
sono le pagine, in cui è evidente il desiderio di colmare un vuoto attraverso
il senso di appartenenza a qualcuno,anche se spesso si viene ignorati o addirittura rifiutati, il senso
profondo e disperato di abbandono, descritto con un'incredibile senso di
fisicità, in cui il palpito dell'emozione si introduce improvvisamente a creare
un'antitesi e una frattura che si dirama nell'anima.
Vi è il bisogno
imprescindibile di riprendersi le proprie radici che la vita ha staccato
irrimediabilmente, si prova nostalgia per chi si è perduto e un senso di
“timorosa schiuma di questa immensa assenza”.
La
figura della donna, tracciata in questo meraviglioso libro, non è altro che un
simbolo della perdità di identità dell'essere umano in generale, la sua
difficoltà nell'adeguarsi ad una società che lo incasella in ruoli definiti e
che spesso si trasforma in solitudine e nello “scomparire” dalla vita,
diventando un INVISIBILE.
Le
scene strazianti e crude che l'autrice non si esime dal descrivere, il
sanguinare perenne delle ferite dell'anima che non riescono a rimarginarsi,
sono espressioni di una crudeltà che diventa sempre più efferata.
La cronaca di
attentati che hanno maggiormente colpito il nostro cuore, come quello a
Giovanni Falcone, o il disastro di Marcinelle, i martiri di mafia che lottano
per avere finalmente giustizia, lo sguardo terrorizzato dei bambini in mezzo
alla violenza della guerra, l'innocenza schiacciata e deturpata, le cui
sensazioni l'autrice traccia con estrema sensibilità e acume, sono immagini
terribili, ma che non devono creare un muro, ma trasmettere un messaggio che va
al di là dei singoli eventi, un messaggio di Speranza, perchè l'essere umano
deve “ritrovare l'anima che ha perduto”.
La vita, l'amore, la morte, la mitologia, intrecciati e inscindibilmente legati all'umanità, sono i quattro temi caratterizzanti e peculiari del libro L'ULTIMA LUNA.
Si racconta l'AMORE e le sue infinite metamorfosi e catarsi, la VITA e le sue concretezze di cronaca, attualità e storia, in una danza cruenta (ed impari) con la MORTE, la MITOLOGIA e le sue strabilianti storie nell'eterna lotta tra EROS E THANATOS.
Racconti e Monologhi che aprono, scenograficamente, il sipario su un mondo, antico e moderno, fatto di uomini e donne che (realmente o mitologicamente) con le loro storie hanno lasciato un segno, a volte profondo a volte superficiale, nella vita di ognuno di noi.
Io la vedo e Lei non ha modo di nascondersi, è ovunque.
Lascia che il mondo le cammini addosso. Senza dire una parola. Senza fiatare.
Accoglie ogni cosa, la fa sua, marchiandola con il fuoco del suo nucleo vitale.
Ed anche quando una fame vorace l'assale, fertilizzante per la sua linfa, si prende giusto il tempo di morire per poi rinnovarsi nuovamente. Non serve girare lo sguardo nel vuoto, basta fermarsi in un campo incolto. Raccogliere una zolla, sfregala nella mano. Ha consistenza e colore, quasi una fragranza familiare. Solco che incolla la vita ad una vita, ci sporchiamo di lei, di quello che è. Ancestrale è la sua origine. In essa ogni cosa si fonde. Se mi fermo ad ascoltare, posso sentire la sua voce. Dalle profonde depressioni delle vallate, si inerpica lungo i crinali e l'esplosione del mattino la moltiplica. Infinite schegge si conficcano nelle cellule di ogni essere vivente e prende dimora dentro di noi, senza fare differenza. Afflato e lignaggio di tutto quello che sarà, si fonde nel tempo, il nostro tempo. Tempo che la rende uguale e diversa ogni giorno. Tempo che scorre, impaziente, per vedere le orme dei miei passi che si fermano a riposare. E quando sarò lì, sentirò il caldo ventre della nascita. Ha braccia solide e profonde per accogliermi al sicuro dagli spettri della notte. Morire per lei non sarà mai una fine ma la riscoperta di quello che eravamo in principio. Lei è la terra, quello che eravamo prima di prendere forma e respirare.
Lei è la madre e la matrigna, il principio e la fine di ogni cosa. Ed io, in questa terra, mi sento un figlio ed un padrone.
Dallo strappo ombelicale al primo vagito, la mia carne prende forma, la voce segue il passo degli ululati... che prendono la salita di un respiro.
Respiro prima asfittico e poi così grande da contenere tutta una vita: la mia. Mi ritrovo come nel cono di una bottiglia, la terra mi chiama. Vuole essere abitata, vissuta, amata, protetta, anche con i denti. Denti affilati, taglienti, magari sporchi di sangue. Sangue di fame e miseria. Sangue di lavoro e abbandono. Sangue di silenzio e umiliazioni. Sangue di illusioni e negazioni. Sangue necessario per la sopravvivenza. Da dove esco entro: dal grembo di mia madre alle verdi terre di questo immenso paesaggio dipinto dalla storia.
Il destino ha segnato questa carne nella terra dei lupi, scenari e dimensioni che tracciano un silenzio quasi assurdo. Appartengo a questo luogo, spazio condiviso con l'anima inquieta.
Sintesi di giorni neri e bianchi. Senza, potrei diventare evanescente, sparire. La genesi è questa, un lupo che scende dai boschi, che vaga libero negli spazi disabitati dalla speranza e stretti nel dolore di un terremoto mai dimenticato. Un cesello di rabbia nella quiete di luoghi però meravigliosi.
Potrei cibarmi solo di ricordi, rimarrei un cucciolo per sempre.
Eppure non si può evitare il pensiero di fuggire. Vedo una via d’uscita, l’angolo dove incuneare il distacco. Se corro e non mi fermo, potrei lasciarla senza rimpianti, romperei il vetro, anelerei la fusione in altre vite. Non ho il coraggio di scappare. Ho la forza di restare. Voglio rimanere, gli spiriti chiedono vite da osservare, fiammelle per rischiarare le notti del passato.
Non c’è nessuno che voglia essere veramente dimenticato. In questa immensa Irpinia voglio vivere il presente, attendere il futuro.
Resto, inconsapevolmente vivo, nella terra dei miei natali. Senza il bisogno di sapere perché, senza attendere la salvezza.
Perché sono nell'anima un Lupo ed il mio spirito è vincolato a lei, la terra che mi ha generato: L'IRPINIA.