La vertigine del taglio. Floriana Coppola

"Io racconto. Non sono mai innocente, mantengo il passato e il possibile uniti con le parole. 
Cuciti insieme con nodi stretti. Ogni verso prepara lo sguardo per incontrare l’altro. Ogni racconto svela una bugia e nasconde una verità, ma non è possibile saper discernere la prima dalla seconda."

Inzia così, dopo una citazione pregnante di Fernando Pessoa "Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso. [...]" il libro di Floriana Coppola: La vertigine del taglio. L'incipit è di quelli che smuovono i respiri dell'essere, riannodano emozioni alla carne, leggono parole che suonano nei timpani caldi e accoglienti, si insinuano a scavare nel profondo dell'umanità alla ricerca delle sue variegate figure, delle melanconie e delle difficili esistenze, come delle sofferenze che, imbizzarrite, cavalcano nei reconditi angoli del mondo e pretendono di raccontarsi urlando nel silenzio dell'indifferenza. Ed ancora salgono a tracciare (le parole) solchi nelle terre inesplorate, per piantare riflessioni, prima districando le selve burrascose e spinose delle dimensioni più remote dell'Io in un saliscendi in cui la finzione si innesta nella realtà e catapulta fuori, dal chiuso angolo delle solitudini, indefinite storie che si pretende e si vuole definire. 

Già la catalogazione degli "argomenti" trattati ha un suo intimo e innovativo modus operandi, una prima chiave di lettura la si trova alla fine, nell'indice, nei titoli da cui si dipana il tessuto espositivo dell'autrice a cui fanno seguito le creazioni di parole, suoni, sensazioni. Qui ogni elemento si muove nel sentiero della raffigurazione senza maschere e senza preconcetti, libera e scevra da orpelli inutili, chiari carmi d'essenza privi d'innaturalità ma concreti, quel "tanto più che serve" a rendere la "cronaca" emotiva e la "descrizione" del presente e del passato quanto più aderente alla genesi dell'Io che pretende d'essere ascoltato. capito, accompagnato nel viaggio a ritroso nei propri crateri interiori.  
Per questo le "distinzioni espositive" (che impropriamente chiamo così solo per un  mio ordine espositivo) partono da: Io racconto; Racconto; Racconto e invito; Mi chiedo; La mia grammatica; Racconto e non voglio; Racconto e cerco; Racconto a me stessa; Scrivo del padre e della madre. Da ognuno di questi, poi, si generano le ramificazioni della pianta autorale, di quell'ulivo che, con la potenza secolare, districa esistenze e finzioni nel frutto della "sussistenza vitale e realistica" di uomini e donne, o forse più donne che uomini, rispetto all'indagine qui evidenziata, senza la sovraesposizione assolutoria delle prime sui secondi ma con la pregnanza di chi comprende che l'arco di volta dell'universo ha una sua base da cui non si prescinde per evitare la disfatta dell'umanità: la donna. 

Anche la postfazione, a cura di Pasquale Vitagliano*, ci da un'altra chiave, per meglio aprire tutte le porte di quest'opera che ha, al suo interno, una mirabolante serie di altre scatole, dove ogni argomento ha un dentro e un fuori che si scavano a vicenda e tentano di emergere sempre e comunque, anche dalla punteggiatura usata, dalle pause, dai daccapo. a riprova del fatto che la vita dell'essere umano altro non è che una Matrioska [una parola russa utilizzata come diminutivo del nome Matrena, letteralmente "matrona", come capofamiglia femminile in una società matriarcale. La matrioska rappresenta simbolicamente la figura materna e la generosità ad essa correlata con un collegamento alla fertilità della terra e della donna - ma di questo, e del significato che per me riesce ad avere in questo testo, parleremo più avanti].

"*Al termine di questa notte ci restano in mano le parole dell’autrice, sabbia eppure traccia di quello che abbiamo passato. Grazie a queste posso personalmente affermare, pur ancorato alla mia identità, che tutte le mie virtù sono femminili. Insomma, non c’è più Cromwell in lotta contro Afrodite, ma esseri umani che si scoprono soli nel dolore delle esistenze e scoprono, senza retorica, la necessità dell’incontro con l’altro, prima e più della (ri)scoperta di un qualsiasi sentimento amoroso."

E la raffigurazione più iconica di questa "vertigine" ci viene immediatamente "donata", come uno schiaffo in pieno volto, dalla stessa autrice, in uno dei primi racconti o forse sarebbe più giusto usare il termine, maggiormente calzante, di prose poetiche: "Questa vertigine che addolora e ubriaca, un'orma sulla/spiaggia che va e viene e si dilegua in sabbia./A tratti la perdo e poi ritorna, più sbiadita. A labbra chiuse./Sono la sentinella accesa dal tuo sguardo./E allora mi sollevo al ramo, come impiccata." [Wish pag. 9]

Comunque la si voglia identificare, in qualsiasi modus la si voglia "catalogare" (se per forza di cosa si propende per questo esercizio dal quale io rifuggo sempre) nella sua estensione lirica o poetica o addirittura monologante, la scrittura di Floriana Coppola mi lascia senza fiato. La mia percezione sensoriale rimane fulminata dalle immagini evocative, dalle sensazioni che scalciano in ogni singola frase, mai banale, mai scontata, bensì pregnante di vissuto, di esperienza, di dimensione, di percezione, di studio (tanto), ossia di tutto quello che serve, a una scrittrice, per attirare l'attenzione del lettore. Nelle sue "pittoriche" ed "edificanti" "cattedrali" di "carnalità poetiche", negli spiriti inquieti che si rincorrono tra le pagine del libro, come se fossero quasi legati da un sortilegio che avvolge la narrazione, i personaggi vengono alla luce, senza mai chiedere permesso ma con la prorompenza che si accompagana alle storie "vere". Come, ad esempio accade, alla "signora perbene" di Bloomsbury [pag. 13] "Piatta come una lisca e dura negli occhi e nel ventre./Niente figli la signora, niente lavoro, solo carte./ Pagine e pagine che riempie ogni giorno con la puntigliosa ossessione di un malato di nervi, deve pur sfogare./"

Così come ogni raffigurazione plastica e coscenziosa delle "anime" che qui si raccontano, di quelle che in silenzio attendono di essere liberate dalle parole, che risultano collegate ad altre storie, come in un gigantesco puzzle da dove nascono armonie disarmoniche in un mondo sempre più "crazy" e cattivo come quello che si assiepa dietro le prime ombre della sera ed è pronto per sbranare ogni cosa. Anche la descrizione dei vissuti, che si snodano nelle vie notturne si aprono alla comprensione, alla compenetrazione di chi scrive e di chi legge, creando un dipinto verista, senza sbavature, pregnante e corroborante nella sua eccezionale potenza plasmatica oltre che poetica. 

"Racconto. Ho bisogno di un soggetto che racconta e un oggetto che è raccontato. Il mio punto di vista è l’ospite segreto. Mescolo le sue carte e spariglio le coppie. Vittima e carnefice, sono il Giano Bifronte. Solo i dettagli mi servono per salvarmi dalla netta demarcazione."

Dettagli esternalizzati e accattivanti, anche quelli di maggiore impatto dolente, come le sensazioni di chi sta per soffocare davanti ad una nota di agro-calice sanguinolento, nelle crasi delle vite e delle sopravvivenze, dei fallimenti e dei piani distrutti dalla violenza, dal tormento che si infila fin sotto pelle e cuce agonie sempre nuove e sempre più destabilizzanti. Il soggetto della poetessa indossa, di volta in volta, pelle, carne, ossa, sempre diversi, con un solo filo conduttore, la realtà di un'esistenza ai margini della felicità, poco distante dal precipizio della follia, ferito a morte, molto spesso, dai casi e dai corsi incerti ed inversi della vita, in una battaglia che sembra persa in partenza. Statue di cera che si liquefano davanti agli occhi increduli della società, spesso cieca ai richiami di fumo, a quel simbolo d'aiuto che si libera dal fuoco dell'egos e si riduce a sporcare l'ossigeno dell'universo. Le parallele sono queste vite, incomprese eppure comprese nel gioco dei chiaroscuri, nell'enfasi di movenze, di esperienze, corde che stringono e riducono a "poca cosa" ogni principio di ribellione oppure istinto di salvezza.  

Il lemma, il certosino richiamo alle interiorizzazioni dei vissuti, si ricalca sulle figure che vengono richiamate all'attenzione dell'autrice, con la sezione anatomica del suo dire, del suo muoversi nei meandri del non detto, dell'incessante richiamo al dentro, a quello che gravita nel cuore e ne fa il centro di ogni subitanea emozione da catalogare, chiarire, esporre, così che nulla dovrà rimanere fuori dal focus che, la Coppola, si da come habitus narrativo fondente, poetico nei richiami stilistici all'eleganza della parola, alla ricerca, non leziosa ma pratica, del miglior termine per "narrare" di una vita che si apre come fiore di campo, battuto dalla tempesta, e prova a spandere il suo profumo nelle narici del mondo. 

E dunque, tornando alla Matrioska, la concezione che qui mi sento di dare alle storie che si muovono in chiave post-moderna, è quello della "guida", un modo per fare un viaggio alla scoperta del nocciolo della vita. Credo che sia tutto qui il focus del libro, un pregnante e sofferto lavoro che, certamente, ha lasciato non pochi strascichi emotivi anche nel suo modo di scrivere. nella scrittura futura, in quell'esondanzione dall'argine naturale che fluirà, di poi, verso la completa comprensione delle storie che mette in evidenza. 

La sua opera parte dal "fuori", dalla consistenza più grezza, per poi entrare, attraverso le bambole che si dischiudono, di volta in volta, di sezione in sezione, nel "dento". In quella che molti chiamano "anima" o "essenza" in un flusso lavico senza sosta, il magma caldo della vita che pretende ascolto, precipita nell'incavo delle parole, costruendo armistizi in battaglie senza sosta, avanzate in combattimenti non ricercati, come se la dominante eclissi della luna, di tanto in tanto, si sposasse col sole caldo dell'estate, senza mutare le cose nella loro sostanza, disvelandone i segreti più reconditi che si muovono come sementi nel miracolo della germinazione più feconda: "(...) Scrivo perché è l’unica cosa che so fare con/ estremo piacere, con estremo godimento. Senza alcun/ pudore."  Una scrittura che diventa argilla per definire nei minimi particolari esterne apprensioni ed interne divagazioni, in una "scultura della parola" non lasciata al caso, ricondotta nelle vene, vive e fenconde, dell'autrice che diventano strade e dimensioni, nelle pagine del libro, ed anche arterie di pulsioni e gravitazioni nei corpi delle sue eroine moderne disincatate, disulluse...addirittura anti eroine di se stesse. Dal Paradiso all'Inferno di ciascun "privato" mondo fatto di occhi, bocca, naso, volti, gambe, braccia, pelle, sangue e di tutta la materia trasparente delle emozioni o struttuale dei sentimenti, si muove la penna della "dissezione" o dello studio intimista ed anche concreto di quel che riemerge dai fondali dell'umana conoscenza. La mente e le sue collusioni con la follia, le briglie sciolte alla bugia, la verità che si ammanta di agonia, finanche cannibalismi di soggettività mai sono state espresse così degnamente come in questo libro che definire semplicisticamente silloge di prosa e poesia è, a mio modesto avviso, una bestemmia. Quanti satelliti gravitano in queste pagine non saprei dirlo. Rende l'idea la creazione del mondo con il "big-bang" da cui tutto nacque e da cui tutto si mosse nell'evoluzione dell'uomo. In ogni storia assistiamo ad una costante esplosione che riecheggia, soffusamente, nelle altre storie, non facendo semplicemente da timpano alla ripetizione dell'eco ma creano strutture espositive inaspettate e accattivanti da cui il lettore si sente così attratto che, alla fine di questo Odisseico viaggio si resta alquanto dispiaciuti.

Probabilmente l'autrice più che Ulisse rappresenta Penelope e la sua tela. Non una ma infinite volte cuce e interseca l'ago col filo del racconto, della testimonianzia in prima persona, per poi disfarla allo scopo di creare nuove intelaiature di stoffa e fibra anche quelle più moderne, futuriste, figlie del presente e connesse alla realtà virtuale. Un'interazione simbolica e irreale, perchè vissuta tra tastiera e schermo, ma che ben rappresenta molti dei rapporti che si creano basati sulle "inesistenze" di "internet": "Ecco cosa sono stata: solo un film rubato, una stanza segreta, una boccata d’aria, un videogame, uno striptease, una torta al cioccolato, un bagno chiuso con tre specchi, un bicchiere di vino, oppure un bicchiere di wodka buttata in gola. Io sono stata per un’ora sola un sogno gratis, una passata di shampoo, un elemento spostabile nel cestino, un file scomodo da inserire in cartella, un intervallo tra una pratica e l’altra, una sbornia che non avvelena, una donna che non chiede niente, una bambina senza giardino.(...)"[Chat pag. 83]

Coppola crea l'abito del mondo che, tuttavia, non disdegna di spogliare, crea le direzioni soggettive di "povere criste", di "donne incomprese", di "smagrite naufraghe del presente" o addirittura di "porno" Lolite Web. Da ogni singolo "format" dei trascorsi raccontati c'è tanto e tale materiale da farci altre mille storie, mille divagazioni. Eppure la "brevità" scelta, la stringata composizione depone a favore dell'essenzialità. Nulla che non serva viene narrato, la parola è tornita in modo tale che pochi siano gli scarti da lasciare sul pavimento. Una sorta di ermetismo 2.0 volto a coagulare il contatto drammatico della scrittrice con la realtà in una poesia pensante, densa di espressioni analogiche e simboliche ma anche di, e qui vi è l'innovazione, aderenza al contatto visivo, al presente descritto con la decisa percezione dell'occhio clinico che esclude il superfluo, le inutilità, e va alla definizione esatta di ciò che si vuole descrivere, analizzare, studiare, evidenziare. Ed ecco quella tensione metafisica che richiama Sartre e Quasimodo ma anche Rilke, Eliot, García Lorca, condensati nelle loro più elastiche estensioni stilistiche in una scrittura tutta al femminile. In questa, credo, vi sia la caratteristica poetica di Floriana Coppola perseguire l'ideale di una “poesia/narrativa pura” in cui ribolle il senso della solitudine disperata della donna (ma anche dell'uomo moderno) che ha perduto fede negli antichi valori, nei miti della civiltà positivistica e non ha più certezze a cui ancorarsi saldamente. 

"Racconto a me stessa la mia storia. La mia pagina conosce una nenia antica. Inizia sempre tutto da un fotogramma interno. Le immagini sono simulacri ancestrali che ritornano tra le righe, annusano la mia padronanza del lessico familiare, delineano la cartografia nascosta delle emozioni e di ogni battaglia. Vado come una rabdomante alla ricerca del senso. So di non potermi fermare fino alla fine della scadenza prevista. La carta principale è la ruota della fortuna."

Eppure, c'è una speranza di fondo da ricercare in un mondo che ha perso l'aspirazione ad essere bello, accattivante, denso di significato e di poesia? L'autrice si muove verso quell' indagine, quell'esplorazione "non dogmatica" che nella disomogeneità delle esperienze tragga omogeneità d' analisi aspirando a "categorie universali: il sacrificio e la felicità, il/ dono e il destino, il bene e il male, la differenza tra l’amore/ e il legame. Andare oltre la siepe, dice il poeta. Rimane/ come puntello inaccessibile la conoscenza del dolore. Cerca ancora te, la mia anima anfibia."

Dalle pagine si riesce a sentire, a percepire, anche ogni singola fragranza, accattivante, coinvolgente, avvolgente, dirompente, di quelle caparbie, altalenanti, emozioni di vite srotolate, riavvolte, riannodate, vissute e stirate nei confini, che si aprono e si chiudono, così come avviene nella mescolanza di fiori secchi, foglie, erba e cortecce aromatiche, che raccontano di storie passate eppure pregne di aromi ancora presenti e corroboranti tali da non incedere nella strada della dimenticanza. Il viaggio è non soltanto narrativo, poetico, ma olfattivo, sensoriale, finanche tattile, le descrizioni assurgono la materia a elemento da toccare con mano, come se fosse a nostra disposizione il corpo, di carne ed ossa, colato in una statua nel museo di quell'umanità muticolore, immobile, sia in ascolto che in delirio.   

"Scrivo del padre e della madre. Scrivo del perdono e dell’abbandono. Delle mezze verità che portano a uccidere dentro e delle mezze bugie che mi tengono in piedi, che mi fanno sopravvivere. Scrivo del gioco dei ruoli che non si interrompe, delle costellazioni familiari in cui si affoga e si rinasce nuovi. Scrivo del passato per sostenere il presente. Scrivo perché è l’unica cosa che so fare con estremo piacere, con estremo godimento. Senza alcun pudore."


La vertigine del taglio. Editore: Terra d'Ulivi - Collana: I granati - Codice EAN: 9788832006933 -Anno edizione: 2021 - Anno pubblicazione: 2021 - Dati: 144 p., brossura

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