Maria Concetta Giorgi, nella prefazione, parla del libro come un: "viaggio dentro la profondità del respiro, primo intenso atto di vita. A volte è un respiro che lascia pause, a volte è un respiro circolare. Flusso di aria continuo, non c’è interruzione nell’amore tra una madre e un figlio, le poesie di questa raccolta, consolidano dunque, un’unione di tenerezza profonda. I versi di Mattia Cattaneo sono aria che entra nei polmoni e li dilata, ci troviamo davanti a una genesi, un processo di formazione, di costruzione dell’io. La scrittura per il poeta è atto creativo e allo stesso tempo recupero e pienezza del senso di esistere: “ riprendo/il sentiero dell’andare,/felicità ricomposta/ausilio per la vita”. E’ il momento in cui la mancanza diventa presenza e il vuoto non è così vuoto: “ in questo vuoto/non così vuoto/è il mio braccio d’edera/ che costruisce/una notte aperta”. L’immagine dell’edera che sale e si aggrappa all’esistenza-madre, è leggerezza, ma anche forza e consistenza. La notte è apertura verso qualcosa che avverrà dopo, una struttura ( parte portante del poeta ), che legherà i suoi versi e le parole, alla luce di quella pena pressante che per molta parte del libro si avverte e poi si allenta. Il corpo di una madre che soffre, è il pane quotidiano spezzato, la forma d’amore per eccellenza che si dona. Per dare significato alla sofferenza, Mattia Cattaneo cerca la sacralità dentro a una tristezza che turba e destabilizza. Il dolore personale, umano, si spande all’interno di un dolore più grande, così pervasivo, che riguarda tutti. La morte di una madre è la pausa, il distacco, lo stallo; per ossimoro, un’aria immobile. In molti versi, l’aria che si respira è l’abbandono, la fatica di continuare a vivere cercando sempre quella bellezza che non si può quantificare o misurare o calibrare, se non nella sfera dei sentimenti. Un’aria di abbandono che modifica il suono delle labbra e lo rende duro."
Fatte queste premesse mi addentro nella lettura al "singolare" di questo libro riferendomi, nello specifico, ad una mia personale analisi che, pur tenendo in necessaria considerazione quanto detto (bene) da altri, tende ad una "visione" più soggettiva e diciamo sganciata, per quanto possibile, da quanto già si sa o è conosciuto a riguardo.
A mio avviso la lirica che si dipana nel testo ha una connotazione quasi anatomica, esistenziale, essenziale e, in molti aspetti, reincarna, in ogni parola, pausa, accento, sintassi addirittura, l'elemento primordiale di ogni essere umano: l'utero materno.
Il percorso che si materializza m'appare quello di un uomo che, venuto al mondo da quel nido caldo, accogliente, avvolgente, fatto di sangue, nutrimento amniotico e anima materna, attraverso le prime due fasi della sua vita, infanzia e adolescenza, camminando a piedi scalzi nell'universale terra della madre, da cui ognuno ha ricevuto il suo natale, per arrivare sino alla personificazione assoluta e aggiungo "amorosa" (mutuando per questo termine la sua accezione più pura) di quella sostanza vitale, affettiva, sentimentale, di consistenza emozionale, di carne e ossa, di storie e ricordi, di percorsi fatti attraverso di lei, con lei, e mai lontano da lei. Questo perché la radice da cui è generato il germoglio prima, l'albero del domani poi, è sempre ancorato alla torba materna, locus di elezione, destinale, necessario punto di riferimento per la propria esistenza, rassicurante.
La scrittura è profonda, essenziale, diretta, senza sbavature, neppure nella punteggiatura, per molti versi dimenticata, scomparsa, ma di questo parleremo poi. Ci troviamo di fronte a una partitura dell'animus dell'autore che, appunto, scrive sulla sua stessa pelle e partendo dalle percezioni sensoriali di questa racconta le più intime ramificazioni, le sensazioni meno superficiali, quelle, per intenderci, che vanno ben al di la dell'involucro che ci protegge ma scavano nelle profondità della nostra stessa vita. Col termine partitura - letteralmente ed etimologicamente insieme di parti - prevalentemente si indica l'organizzazione grafica di più righi "musicali contemporanei, ad uso del compositore o del direttore d'orchestra al fine di controllare e gestire con un colpo d'occhio l'intera simultaneità delle parti che concorrono all'opera musicale. Si utilizza la scrittura in partitura, quindi, nella musica d'insieme, da camera, corale, orchestrale e bandistica e perfino nella musica elettronica quando la gestione di una complessa polifonia richiede una notazione scritta. Per quale ragione, quindi, l'autore ha voluto scegliere proprio questo termine come titolo del suo lavoro?
Azzardo una risposta, inserendo il mio momento di indagine nella introspezione psico-terminologica, se così può dire, volendo addentrarmi nella motivazione più recondita del significato che si vuole dare, sin dall'incipit, ad un proprio componimento poetico. Assodato che la partitura è il testo scritto di una composizione musicale e lo spartito non è nient'altro che un foglio di carta morto, lo scopo dell'interprete è quello di renderlo vivo. Vivo proprio come era il pensiero dell'autore mentre componeva il pezzo.
Pertanto il lettore suona (leggendo) la vita dell'autore così come l'autore ha deciso che vada suonata, percorrendo emozionalmente ogni singolo attimo di quell'esistenza partendo dalla genesi della nascita fino a giungere al punto di chiusura, alla morte, al lutto che ogni cosa avvolge e travolge e accompagna emozioni, speranze, oramai inespresse e mai esaudite nella terra dei morti.
Il poeta cresce, prende concretezza, nell'entropica metafora della vita che dall'ordine arriva al disordine mutando, di volta in volta, di tempo in tempo, al di la delle circostanze, delle recriminazioni e delle aspettative, nella prospettiva della morte che genera la distruzione di un equilibrio in modo tale da rendere impossibile trovare la dimensione utile alla sopravvivenza.
come se avesse
sparato le nuvole,
è la cura
che sostituisce
l'ordine disfatto delle cose
grandina sui vetri,
la luce rovista tra le finestre
e
i pensieri fabbricano
respiri viventi.
Eppure davanti a questa catastrofe naturale non si può restare immobili si deve trovare, in qualche modo, un termine essenziale per riprende il corso del fiume della vita, che comunque si muove in avanti, che non si ferma nonostante i massi caduti al suo interno. Come fonte originaria di vita l'acqua (elemento che, insieme al fiume, ritorna sempre nel fraseggio poetico di Cattaneo) non si ferma nel flusso emergente e continuo, nonostante gli ostacoli che vi si frappongono e rappresenta rivoluzione esistenziale per riprendere possesso delle cose che, nolenti, ci sono sfuggite di mano.
in questo quadro di affetti,
un solo retaggio
il compiersi dell’anima
più mani
in questo gesto di sera
raccoglimi
da una brace affievolita:
una voce vana
increspa l’acqua.
E si badi bene, quando parlo di cose intendo non la materialità corporea di chi oramai è in viaggio verso altre terre, altri luoghi e dimensioni, ma di quegli "esseri vitali e nutrienti" che chiamiamo ricordi e che da soli basterebbero a far rinascere rigogliose albe e tinteggiare nuovi, e sempre più vermigli, tramonti del presente. "Esseri" perché nella nostra mente hanno una vita propria, come ce l'avevano un tempo nella nostra realtà, ora coniugata al passato remoto. Quello che "più non è" invece "è ancora" nei nostri pensieri, è essenza autonoma indipendente dalla morte e continua a vivere, respirare, a comportarsi come se il tempo non avesse alcun influsso o influenza sulla sua stessa concretezza trasparente. Nutrienti perché ci danno cibo utile a scaldarci, energizzarci, per resistere al freddo dei dispiaceri. Dimenticare mai, ricordare sempre, fino a quando le luci si saranno spente tutte, anche la nostra, sperando che qualcuno si ricordi (anche) di noi…
Occorre quindi, secondo la poetica di Cattaneo, fare un'opera di resistenza al dolore, probabilmente lasciandosi attraversare e non respingendolo, in quest'ottica la parola è salvifica perché, da sola, serve a rimodulare il suono che era arrivato a soverchiare tutti gli altri strumenti, con la definitiva partenza della madre dalla casa e dall'essere umano che ha messo al mondo, il concerto più intimo dell'autore pare suonare un requiem in eterna.
Chiaro è che, anche in questa poetica, l’esperienza esistenziale dell’essere umano sia fortemente segnata dalla presenza della figura materna che ne influenza in parte la crescita a volte positivamente (come in questo caso) e in altri casi negativamente. La critica ha sostenuto che, nonostante la centralità del tema a livello umano, il rapporto madre-figlio, fatta eccezione per sporadici richiami da parte di Jacopone da Todi, Dante, Leopardi, Foscolo e Manzoni, non ha grande letteratura sino alle soglie del secolo scorso.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, con il diffondersi della struttura familiare nucleare a scapito del modello familiare patriarcale, le figure genitoriali assumono una posizione di rilievo e diventano un’occasione di analisi, di confronto ed anche scontro utili (mai inutili) per mettere alla prova la propria identità. Su questo filone si inserisce la nascita della "psicoanalisi" che con Sigmund Freud indaga sulle relazioni familiari e, in particolare, sul complesso edipico: il rapporto tra madre e figlio smette di essere considerato in maniera "idealizzata" e viene calato nel vivo di un’inquietudine psicologica ricca di ambivalenze e contraddizioni. Per questo motivo l'emblematica e multifocale figura della madre, unita alle teorie innanzi dette, riescono in breve tempo a influenzare la letteratura. Prendiamo ad esempio la poesia Consolazione di Gabriele D’Annunzio e mettiamola confronto con Preghiera alla madre di Umberto Saba. In D’Annunzio, la madre è stata abbandonata in un momento di fuga, ma può essere riscoperta con il ritorno all’affetto protettivo e la rinuncia ad ogni sorta di esibizionismo. In Saba, invece, si percepisce l’influsso della terapia psicoanalitica che rievoca la figura della madre, ormai morta, nella mente del poeta (l’infanzia di Saba fu segnata da un rapporto turbolento con la madre). Ad una prospettiva materialistica si ricollega, invece, Montale, che in A mia madre, sostiene l’inseparabilità tra la vita e il ricordo della madre. La donna supererà l’oblio della morte non in nome dei valori religiosi in cui credeva, ma per il ricordo lasciato nei vivi con l’irrepetibilità dei suoi gesti e della sua unicità umana. Ed ancora in Ultima preghiera, Caproni si rivolge alla madre morta con una leggerezza malinconica e rasserenante, nata dalla necessità di un incontro generato dallo sconforto, dal pianto e dal rimorso.
A mio avviso, nella silloge di Cattaneo, si percepiscono echi "Ungarettiani" muoversi lungo le melodiose scalinate delle parole che l'autore utilizza per salire sino al cielo ed elevare il ricordo della madre sino poi a discendere nel dolore più acuto, nell'acme della sua scomparsa. In questo senso, ogni singola frase, costruzione poetica, crea la fitta e complessa "rete dei respiri", dei naturali compagni di vita di ogni essere umano. Respiri (o afflati spontanei) che inspirano non soltanto il sentimento forte dell’amore materno ma anche il palpito universale dell’uomo con lo sguardo rivolto all'incontro con questa in una dimensione non ben definita. Probabilmente l'anima, denaturata dal corpo, ricondotto al freddo della tomba, ancora aleggia nelle stanze della casa materna, in quei luoghi il poeta torna per rendere nuova cosa la mancanza, per rinnovare il patto con quel legame materno, per alcuni versi Edipico (ma senza le storture del mito nel legame con la carne), che mai verrà tranciato, neppure dalla falce affilata e tagliente della morte. L'ultraterreno e il terreno si legano inscindibilmente per curarsi a vicenda, per fare di quella sofferenza una preghiera di luce e salvifica, un balsamo capace, se tirato fuori dalle emozioni, di lenire le ferite del destino crudele e sordo alle suppliche degli uomini e finanche dei Santi.
le mani,
nei riflessi di brace
di sere soffiate,
strade
che sembrano sfinite
a oltranza curano i passi
spalanco porte
dalla casa materna
per appoggiarvi la fronte:
tu vedi dal tramonto
che dissangua.
"E qui la caduta, nella fallace consistenza di un corpo o di una cosa che s’abbatte e rovina in una posizione che non gli è propria, apre la dimensione del poeta nel solco del dolore e delle mani che, una volta padrone di “qualcosa”, vengono improvvisamente derubate dal destinale tempo dell’umanità. Eppure, prima ancora di questa, colpisce l’utilizzo della lettera minuscola, una caratteristica che permea interamente la silloge. Tale e non esclusivo incipit, privo dell’ordinale regola grammaticale, è il sintomo, già nella genesi, di una mancanza che, a prescindere dalla conseguente “visione” poetica, porta a prefigurare un cammino nel “core” [da ‹kòo› s. ingl. + plur. ‹kòo∫›] di una grave perdita [nel linguaggio scientifico e tecnico “core” indica la parte più interna o, talora, più importante di una struttura, spesso indicata in con nòcciolo o nucleo [ad esempio il “core” di un atomo è l’insieme degli strati elettronici più interni, quindi più vicini al nucleo atomico]. In effetti quello che qui è “manchevole” o “assente” è, non solo la lettera maiuscola ma una figura corporea e intimistica insieme, di materia e spirito, autenticamente “personificata”, da cui tutto parte e a cui tutto giunge. La riemersione della storia poetica di ciascuno è sempre un viaggio da e verso ma in questo caso quel “da” è trasparente o assolutamente non visibile a occhio umano eppure percepito come prevalente nell’animo dell’autore. La crasi dell’esistenza, della sofferenza che s’annida nel riflesso ardente della brace, che ben potrebbe identificare la fine di una vita, la legna che arde e si consuma, crea la visione dei giorni che si spengono nelle sere soffiate (probabilmente il soffio è alito vitale) e nelle strade che appaiono sfinite e quindi battute da passi senza sosta, in un’oltranza che ripiega la speranza in due parti, una destinata a soccombere, a diventare cosa morta. Sicuramente in questa lirica il poeta si denuda con movenze quasi salvifiche, del dolore, lo lascia poggiato in una parte per prenderlo e riannodarlo ai suoi attimi tutte le volte che serva, questo perché mai riusciremo a distruggere quello che ci distrugge specialmente se (questo) viene ad essere accompagnato dalla seducente nostalgia che tutto rende bello, luminoso, appagante, anche quando è nella scia e nella forma del sangue che, fuoriuscendo da una ferita aperta, comune continua a scorrere nelle nostre vene. Il punto finale poi, seguendo le punteggiature presenti nel testo, gli spazi lasciati come tratti di momenti indimenticabili e taciuti alla folla, da appartenere solo al bagaglio intimo di chi scrive, segna, con decisione i tratti dell’ellissi sentimentale, di quel soggetto assoluto e mancante (ma sottinteso profondamente al linguaggio poetico) che ha dato “origine” a chi scrive e che è tornato a quella “origine” necessaria e obbligata, che tocca ad ognuno di noi, nella terra della luce e dell’inconsapevole vita eterna: la madre.*"