giovedì 13 marzo 2014

FORSE


Il buio le aveva rubato il paesaggio circostante. Si era impadronito dei suoi passi. Le aveva cancellato la meta, soffiando con crudeltà sulla fiamma. Aveva spento le torce che portava negli occhi, saccheggiando quel colore intenso, azzurro misto ad ambra, che le era stato donato da sua madre. Ora, che ogni cosa aveva perso la sua sembianza, non riusciva a capire da quale parte andare. Si era appena risvegliata da un torpore di incoscienza. Forse aveva sognato. O forse era ancora dentro a quel sogno. Non riusciva a capirlo. Ricordava solo il dolore. Un cuneo che si conficca nelle tempie. Che la svuota d’ossigeno, riempiendola di lacrime. Lacrime che non erano le sue. Eppure la sua memoria aveva fatto dei giri enormi alla ricerca di risposte. Cercava un tepore nascosto, la dolcezza di un alito caldo, un abbraccio inaspettato, manciate di solida fiducia, la tremante incredulità di occhi che ti appartengono senza sapere il perché. Tutto questo era reale o solo puro desiderio? Era china sul pozzo dei ricordi e cercava di capire cos’era stata la sua vita, il suo passato. E qual era adesso il suo presente. Poi d’un tratto intravide, nella sua mente, una piccola radura. Conosceva quel posto. L’erba fresca dove aveva poggiato, da piccola, i piedini scalzi, senza alcuna paura o tormento. Dove aveva plasmato la spensieratezza della sua infanzia. E lì vide anche lui. Lui che aspettava un suo cenno per avvicinarsi. Fu in quel momento che le sembrò che ogni cosa iniziasse a riprendere la sua forma. La sua naturale sostanza. Quella così tante volte idealizzata. Sentì un profumo intenso. Era la fragranza penetrante della sua giovinezza perduta. La purezza delle prime emozioni. La simbiotica paura di amare e non saperlo dire. Come trovare un vecchio diario e rileggere frasi che albeggiavano oggi come allora nella sua mente. Non sapeva chi fosse ma avrebbe voluto dirgli, forse sottovoce: “ti appartengo, sono tua”. Eppure un freno aveva lasciato cadere la parola. La spinta del cuore, verso quel lido sereno, si era marmorizzata. Rimaneva, immobile, in quel corpo disteso. Radici che si infilavano in quel letto, quasi un terreno paludoso, e non le davano modo di alzarsi. Di proseguire nel cammino. Ferma come davanti ad un portone. Il tempo che scorre e due anime destinate a incontrarsi. O forse a non incontrarsi mai. Ma quando lei aveva scorto il suo profilo. Quando la sua immagine era diventata finalmente desiderio pulsante nella sua mente, allora le sembrò di averlo sempre conosciuto. Era lui quello che la chiamava nei viaggi verso mete imprecise. Era lui quello che muoveva le gambe nel cammino faticoso, era lui la bussola che orientava le sue scelte. Giuste o sbagliate che fossero. Era sempre lui. Così gli fece cenno di avvicinarsi. Ed iniziò a sentire i suoi passi. Tremò all’idea di averlo presto davanti, ma lui si mostrò sotto forma di tramonto. La chiamò a gran voce, implorandola di consentire alla sua ombra di prendere forma nei suoi occhi spenti. Con i pugni serrati e priva di speranza, lei, accennò un vile passo nella direzione opposta. Ma una folata di vento le impose di cambiare rotta. La paura le guidava lo sguardo. Gli occhi bassi quasi a non voler prendere coscienza di quello che stava succedendo, mentre lui iniziava a carezzarla dolcemente. Fu allora che il suo essere si mostrò prima all’anima e poi al corpo. Ed allora finalmente capì. Era lui la consolazione del suo tormento, l’appagamento della ricerca, la serenità dopo le intemperie del fato, la cognizione di una vita non più vissuta in difesa, senza amore, senza amicizia, senza solidarietà, senza supporto, senza possibilità di scegliere, senza trasporto, senza passione, senza desiderio e senza slancio. Lei accennò un sorriso. Lo strinse forte a se ed il destino prese un’altra direzione. Ma in quel momento le sue gambe iniziarono a tremare. Non avrebbero retto la via del ritorno. Allora lui la prese in braccio, come se fosse stata la sua bambina, con la dolcezza di un gentiluomo che coglie un bocciolo nel roseto. E lei, ancorata al porto sicuro, rapita dalle essenze profumate del suo animo, gemma rara e senza eguali, iniziò a guardare chi era diventata. O cos’era tornata ad essere. Una donna,  ancora viva, dopo un grave incidente, stretta nelle braccia del suo angelo custode. Angelo che l’allontanava da quelle nubi asfissianti per riportarla sulla terra. Per farla sorridere, per farla innamorare e per essere a sua volta amata, forse per la prima volta…ora che finalmente era uscita dal coma.

martedì 4 marzo 2014

IMPARIAMO

Il pallone, per Andrea, era quasi un cimelio. Lo teneva al riparo dalla polvere, chiuso in un sacco di tela, nonostante fosse ricoperto di vita vissuta. Consumato da partite infinite. Rotolato sui terreni più diversi: polverosi, melmosi, bagnati. Accarezzato dall’erba fresca del prato dietro la chiesa. Il miglior campo di calcio nelle stagioni primaverili. Preferito al campo del paese, pieno di pietre e buche. Il pallone era la vitamina delle giornate apatiche. Quelle giornate in cui la tv rimaneva spenta per scelta e le mura di casa diventavano simili ad una prigione. Era la consolazione dopo il suono della campanella, all’uscita della scuola. Era il primo pensiero del risveglio, la domenica mattina. Pallone che lo faceva diventare il capitano in ogni partita. Lui che aveva l’onore, o meglio il privilegio, di essere il proprietario del primo Super Santos, mentre fino a pochi anni prima giocava con palloni fatti di stracci. Quel giorno, come ogni giorno di quell’estate del ‘62, quando la scuola era solo una casa vuota e lesionata, Andrea chiamò i suoi amici a rapporto sul piccolo campetto dietro la Chiesa. Tutti presenti, come sempre, per la partita delle cinque. Appartenere alla piazza o vivere nel centro storico oppure nel borgo del paese definiva la formazione delle squadre. Quasi un torneo. L’arbitro prescelto, un bambino magrolino e senza un dente, si disperò in un pianto quasi isterico, voleva giocare anche lui. Andrea seppe calmarlo: “una volta per uno - gli disse - facciamo a turno”. Poi il suono della campana, le cinque esatte, anticipò il fischio di inizio e la squadra della Piazza diede il calcio d’avvio. La rivalità era animata e vivace. Si sfidavano i bambini della Piazza contro quelli del Borgo. Magliette bianche contro magliette rosse. La prima vera azione della partita ebbe come protagonista il figlio del fornaio. Con un dribbling veloce cercò di guadagnare metri verso la porta e, quando vide due difensori frapporsi al suo percorso, calciò con potenza, senza pensarci due volte. Voleva provare l’ebbrezza di fare un gol epico. Quei gol che si vestono di leggenda nelle storie dei ragazzi. Ma la fortuna non fu dalla sua parte ed il pallone, sospinto anche dalla forza del vento, prese una traiettoria strana. Superò il campetto e girò l’angolo della strada come se fosse stato spinto o accompagnat0 da un altro calcio, stavolta trasparente. Scomparve in un guizzo di secondo, lungo la discesa che portava verso il dirupo. Andrea accompagnò il pallone con lo sguardo e riuscì a dire solo un “Nooo” prolungato dalla tensione di perdere il suo adorato tesoro. La partita finì nello stesso istante. Tutti si fermarono, quasi sconvolti, ed un gruppetto si formò intorno al responsabile dell’azione. “Sei sempre il solito spaccone” esordì Andrea, avvicinandosi ad un palmo di naso. “Se il pallone si è perso facciamo i conti” aggiunse tirandosi su le maniche. “Se si è perso mi fa piacere” ribattè spocchioso il ragazzo dalla maglietta rossa “così la smetti di comandare”. La rissa fu una normale quanto necessaria conseguenza. Tutti contro tutti. Si litigava e si faceva a botte per un pallone andato a finire chissà dove. Tuttavia gli animi, dapprima accesi e lividi, man mano si calmarono. Una bonaccia improvvisa, dopo la terribile tempesta, schiarì la rabbia. Complice anche i dolori dopo le botte. Il piccolo arbitro si avvicinò ad Andrea e lo staccò dal malcapitato di turno. Aveva in mano un pallone lercio, fatto di stracci. Glielo porse ed abbozzò un sorriso. Andrea guardò la sua maglietta bianca, sporcata di rosso. Il sangue gli colava giù dal naso che era una meraviglia. Non servirono parole ed in pochi istanti capì quanto era stato assurdo il suo comportamento. Così, con un fischio, richiamò l’attenzione di tutti. “Fermi, che stiamo facendo?” disse bloccando le azioni bellicose. “E’ solo un pallone, usiamo questo e rimettiamoci a giocare.” Incredulità generale. Poi tutto ritornò come prima. Agonismo e sorrisi al posto delle botte e dei litigi. La morale? Forse troppo semplice da capire per i bambini ma decisamente difficile per i grandi. Perché i bambini prima litigano e poi ritornano a giocare insieme? Perché la loro felicità viene prima dell’orgoglio. (Impariamo dai bambini). 

NIENTE

Il peso di quell’assenza affondava nei passi. L’eco del silenzio si infilava, severo, nei capelli. Li annodava con sapienza, spinto da manciate di vento caldo (che poi, forse, vento non era). Tesseva le trame, un reticolato di pensieri asfissianti. Era lui uno dei compagni di viaggio. Forse quello che meglio comprendeva le sue emozioni. Emozioni liquefatte nel movimento assurdo degli impulsi cerebrali. Impulsi che, davanti ad una condanna, non riuscivano ad elaborare niente. Bloccati sullo stesso tasto, a suonare una sola nota: muta. Anche il silenzio, come gli occhi di lei, si nutriva di quella mancanza. Occhi che sembravano interrompersi nello sguardo, salvo poi riprendersi, nel movimento repentino delle ciglia che sbattevano veloci. Chiusi ed aperti. Come in un continuo vedo non vedo. Eppure il cammino era lungo. Faticoso. Riusciva a percepirlo, sentirlo, nella sua maestosità. Cosa doveva fare? Trattenere il fiato, respirare appena. Esercizi che servivano per darle forza. Per non inglobare troppa aria nei polmoni. Per non far pesare e pensare la testa. Per dare alle gambe la spinta necessaria per continuare. Era solo il movimento, quasi un automatismo, a definire quel corpo come un corpo dinamico. Per il resto niente sembrava vivere in lei. Era una casa disabitata. Nessuno che apre le finestre. Nessuno che accende la luce. Mura che man mano si sgretolano sotto il peso di quella tormenta. Eppure davanti a quella casa c’era una strada. Si apriva simile ad un viatico di passione. Strada di cui conosceva l’arrivo, la fine. Strada senza senso ma obbligatoria da percorrere. La vita gli aveva indicato o imposto il cammino e lei lo aveva preso, intrapreso, senza togliere il cuore dai carboni. Cuore che bruciava, avvolto dalle fiamme del dolore, ma che, ancora, non era completamente cenere. Poteva sentire, così come lo aveva avvertito la prima volta, il dolore trafiggerla con precisione inaudita. Come al primo annuncio del destino. Maledetto. In quelle parole, in quella diagnosi, aveva capito cos’era quella zavorra che la rendeva così pesante. Cos’era quell’assenza. Quella mancanza. Le lacrime se ne erano andate quando aveva guardato quel bambino diventare improvvisamente vecchio, senza vivere neanche un anno della sua vita. Quando aveva raccolto i primi capelli caduti sul golfino. Quando gli aveva tenuto la mano durante la prima flebo, tremando solo con la gola. Quando aveva trasformato la paura in una favola bugiarda, a lieto fine, mentre gli rimboccava le coperte prima di dormire. Quando lo aveva preso in braccio sfinito, dopo l’ultima terapia, e non aveva sentito che ossa. Non più suo figlio ma una piuma. Il peso di un’anima pronta a sparire per sempre. Ed in quell’abbraccio si era scarnificata della speranza. In quell’abbraccio, l’ultimo, aveva consegnato, sconfitta, quella che era la sua vita “in mani più grandi, mani discese dal cielo”. Così aveva detto il prete durante l’omelia, mentre lei si svuotava di preghiere mai ascoltate. Lei che, oramai, non credeva più a niente. Niente che non fosse reale. Reale come quella morte

mercoledì 19 febbraio 2014

UNO SPETTACOLO



Quante domande si rincorrono nella mente dell’uomo. Quanti perché si conficcano nelle isole del pensiero e lì rimangono sepolti, sino a che qualcosa non smuove quella staticità. Ci sono risposte che seguono una genesi dolorosa. Altre invece scardinano una liberazione, una fuga inaspettata. Simile alla corsa di un bambino che sorride alla spensieratezza. Eppure quando si cerca il perché della vita è con noi stessi che bisogna fare i conti. Con quello che abbiamo dentro. E’ lì che nascono le risposte che sottomettono il destino di ogni uomo ad una prova ancora più grande. Uscire vittoriosi dall’eterna lotta tra l’essere e l’apparire. La trasformazione di una piccola cellula in quello che sarà un uomo, una donna. Sotto lo sguardo immobile del cielo, il tempo divora lentamente ogni passaggio della nostra vita. E mentre lui cresce, si fortifica, fino a diventare l’essenza ed il ricordo di come eravamo, prima semplici cellule, poi ossa, carne e muscoli, così il nostro viaggio sulla terra man mano si avvicina alla fine. Ed in quel percorso che si snoda ciò che siamo e che saremo. Prima annidati nel corpo di un altro essere. Poi staccati a forza da quel ventre. Chi con una spinta autonoma, chi con un taglio netto. Un distacco comunque vigoroso. Necessario. La nascita genera la materia di cui siamo fatti. La realtà tangibile che ognuno di noi ha davanti all’altro. Ciò che si riflette in uno specchio. I tratti. Le peculiarità di un sorriso. La dolcezza di uno sguardo. Il colore dei capelli. Eppure dentro di noi c’è ancora un embrione in evoluzione: l’anima. Appena nati non ha ancora la dimensione dell’essere umano. Troppo piccola o forse troppo grande per vivere in un corpo così soffocante. Uguale e diversa da ogni altra, sottomessa alla percezione del tempo. Alla sua immagine in continuo divenire. Ci vive dentro senza saperlo. Un inquilino trasparente che osserva mentre ci trasformiamo da neonati a bambini, da bambini a ragazzi, da ragazzi ad adulti. E mentre guarda questo cambiamento così lievita nel corpo espandendosi sino a riempire ogni cavità. Sino a diventare la chiave della nostra esistenza. Legata al cuore, mitiga nei suoi battiti il ticchettio del tempo che scorre. Anima prima incosciente e temeraria, poi matura e decisa, infine assillante sino a diventare, alcune volte,  ingombrante. Una presenza che non ci lascia mai soli, neanche quando tentiamo di cacciarla. L’anima comprende l’incomprensibile. Si apposta negli angoli e stana la paura.  Diventa l’istinto migliore, la percezione ed il pensiero di mille e mille azioni. Giuste o sbagliate. E’ sempre lei che dirige l’orchestra. Accordando gli strumenti durante la maturità. L’anima pretende una scelta e noi seguiamo quella che ci sembra più giusta o opportuna. E sentiamo che ci parla con linguaggi sempre diversi che non sono fatti di parole. A volte è un semplice profumo, simile all’essenza dei fiori di campo. Ci entra nelle narici e ci inebria i pensieri. A volte è simile ad un respiro affannoso che ci lascia attoniti e desolati. Ogni singolo sussulto della sua consistenza aerea crea una sensazione, sempre unica, sempre diversa. Tormento o estasi. Ansia o tranquillità. Fatica o riposo. Amore o odio. E questo accade perché: "c'è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo, c'è uno spettacolo più grandioso del cielo ed è l'interno di un'anima". (Victor Hugò) 


mercoledì 12 febbraio 2014

IL GOL



Tutto si svolge come da copione. La presenza si materializza fulminea. Una scarica di luce ed immagini risucchiati da una forza straordinaria. Anche se il tempo non viene percepito, tutto succede in fretta. Il terreno, se così lo possiamo chiamare, è pronto. In perenne attesa di quell’evento, si conforma all’orma, sottomettendosi a quel peso strano. Appena l’impronta segna il suo calco così un recinto viene innalzato. Paletti, mattoni o reticoli, generati da quello stesso terreno. Fissano e definiscono i contorni di ciò che è appena accaduto. Limitando i confini con altre recinzioni di legno, ferro, cemento o materiali sconosciuti. Ognuno di una consistenza diversa. Alcuni solidi, altri fragili, alternati come in un puzzle. Un evento naturale quanto necessario perché se quell’impronta non si fissasse nel terreno non ci sarebbe vita o meglio non ci sarebbe esistenza. Alcun orizzonte lieto da osservare ma neanche un serio pericolo da evitare. Cos’è il terreno e cosa l’impronta? Niente altro che la memoria e i ricordi. Ciò che permette di riconoscere il mondo e riconoscere noi in quel mondo. E dall’uso che ne facciamo ogni cosa dipende. A volte la memoria può semplicemente tenere lontano la mano dal fuoco. In quel caso l’uso è funzionale, adeguato al momento. Un nastro che, riavvolgendosi, ci avvisa cosa è dolore. Da bambini l’uso che ne facciamo è simile ad un registratore. Memoria su cui nessuno “rimugina”. Non si ha il tempo, travolti come siamo dalla crescita. Ma è nell’età adulta che iniziamo a “rimuginare”. E’ paradossale ma è con la maturità che si inizia a far uso, buono o cattivo, della memoria. Buon uso: separando la memoria che conta da quella di passaggio, di superficie. Simile al distacco delle foglie d’autunno da un albero che si prepara a ricevere nuovi germogli per la primavera. Segno che quei ricordi hanno fatto il loro tempo. Finiti per far spazio ad altro. Uno o più tagli per staccare ciò che non serve. Eppure la memoria custodisce un meraviglioso quanto misterioso progetto: la nostra vita. Nell’evoluzione di chi siamo e chi diventeremo la memoria si alterna, o dovrebbe alternarsi, con sapienza, al suo compagno, severo quanto necessario: l’oblio. Quando un ricordo viene a trovarci possiamo scegliere che uso farne. Se farlo diventare un’esperienza che ci costruisce, fortificandoci oppure se farlo diventare un tarlo, un’ossessione. Spesso la memoria è dolorosa. Dolorosa quando, senza rendercene conto, compiamo delle operazioni mentali che ci proiettano nel passato ed in quel passato restiamo imbrigliati. Continuando a tenere quel ricordo nei recinti della nostra memoria reiteriamo solo il processo e la condanna verso noi stessi o gli altri: “ho commesso un errore imperdonabile”oppure “non ho dimenticato ciò che mi ha fatto”. Ottime premesse per l’alterazione del presente e la chiusura al futuro. Spesso quando ciò che abbiamo è povero, deludente, cerchiamo conforto nella nostalgia di un ricordo, edulcorato, pieno solo di consistenze evanescenti. Eppure cercare asilo nel passato ci fa sentire sempre più insoddisfatti. Crogiolarsi in un rimpianto è solo un alibi per non rimettersi in gioco, per paura o timore di affrontarlo. Ma quel gioco è la vita ed è necessario scendere in campo, non rimanere in panchina, altrimenti altri segneranno il gol di svolta della nostra esistenza. Ed allora sì che rimarremmo schiavi dei rimpianti

lunedì 3 febbraio 2014

VERDE SMERALDO



Il profilo aveva dei tratti in comune. Alcuni dicevano che era il naso, altri la fronte. Altri ancora rivedevano, nella bocca carnosa e nel taglio all’ingiù delle labbra, quasi un segno distintivo. Eppure era negli occhi che si riversavano i geni dell’appartenenza. Gli stessi occhi. Quel colore verde smeraldo, appena sbiadito da piccole pagliuzze della tonalità dell’ambra, simile ad una distesa di acqua salata al risveglio del sole. Occhi, quelli di lei, che rimanevano, spesso, a fissare il cielo, mentre gli occhi di lui si riempivano di pensieri pesanti. Occhi dell’attesa, i primi. Occhi della speranza di una vita che nasce e cresce nelle pareti del corpo. Vita che sguscia fuori da quello scrigno di liquido e calore avvolgente dopo ore di intenso travaglio. Vita desiderata e appesa alla speranza di rivedere un sorriso sereno. Un corpicino sano, una bocca che prende aria e rilascia un pianto che suona, nei timpani, note felici. Gioia che si liquefa nel primo vagito. Gioia che un pensiero solo non riesce a contenere, tanto è infinita, senza confini. Bocca che si attacca al seno e da quello prende il primo nutrimento, la prima goccia di amore puro. Amore senza richieste di ricompense o pretese di essere ricambiato. Quello che si condensa nel latte e dal latte si trasforma in ossa, muscoli, nervi, organi, sviluppando la crescita. Definendo l’evoluzione di un piccolo ometto in un uomo di quarant’anni o poco più. Latte come riserva di anticorpi. Guerrieri contro le malattie del corpo, che si assiepano nelle mura del castello e non temono gli attacchi dei batteri, dei virus della quotidianità. Guerrieri che sfidano febbre e tosse, che si aggiungono alle truppe a cavallo: ai vaccini. Vaccini che si trasformano, moltiplicando l’esercito, per salvare dagli agguati più cruenti quell’ometto ancora in fasce. Guerrieri che diventeranno gli abitanti di quel villaggio in continua crescita, durante il suo cammino nel tempo. Guerrieri che, tuttavia, nulla possono o potranno contro un unico nemico. Quello che si nasconde, senza lasciare traccia del suo ingresso, nelle alture del cervello. Annidato o forse addormentato, ma pronto a mettere i piedi sul terreno, in qualsiasi momento, e dare battaglia alla ragione, al sentimento stesso di appartenenza. E fu proprio in quegli occhi smeraldo che lei vide se stessa, un attimo prima di essere annientata. Un attimo prima di essere travolta da quella vita che lei stessa aveva messo al mondo. Vita ridotta fuoco e fiamme da quel nemico silenzioso: la depressione. Eppure cinque minuti prima erano seduti a fare colazione. Il solito orario. La solita tazza di caffè. Il pane appena tagliato, il coltello adagiato sul tagliere, alla maniera di sempre. Il barattolo di marmellata di amarene fatte in casa: la sua preferita. Il latte comprato fresco, giù al negozio, ogni mattina. La solita routine da quando lui era un bambino fino ad oggi. Lei che va in camera sua. Apre lentamente le serrande. Con un filo di voce gli sussurra che è ora di alzarsi. Lui che mormora e farfuglia sempre le solite frasi. Imprecando il destino di averlo rinchiuso ai margini della società. Da quando aveva perso il lavoro non era più lo stesso. Poi un mezzo buongiorno stretto tra i denti. Non il solito buongiorno. Lei che si accorge di quella deviazione dalla consuetudine ma non gli chiede spiegazioni. Prende lo zucchero ed aggiunge due cucchiai, come sempre, nel caffè fumante. “Oggi cosa preparo per pranzo?”. Sempre la stessa domanda. Lui che stranamente non risponde. Non beve il caffè ma afferra il coltello e lo affonda nella gola di sua madre. Lo stesso coltello che rivolge verso di se e trancia la carotide in un solo gesto. Occhi increduli, quelli di lei, che vorrebbero fissare il cielo ma sono bloccati dal soffitto cupo e sporco di sangue. Occhi stravolti, quelli di lui, che si staccano dai pensieri e diventano leggeri. Occhi verde smeraldo che si spengono nello stesso momento. Occhi che si ricoprono di sangue, che zampilla dalla gola, che li abbandona alla stessa velocità e li riannoda nella morte così come erano stati nella vita.  

IL SEGRETO



Come una manciata di brio, sparsa dalle mani del tempo, leggera si muove, quasi danzando, nell’ immensa solitudine del mondo.
Sorprende gli animi in cammino, chini sul quotidiano tormento della fretta o distratti dal fragore del progresso. 
Come un respiro bianco, improvviso, di ghiaccio, spinge la dolcezza nei polmoni. Rianimando, profondamente, gli anni che ognuno si porta addosso. Eppure ha una forma senza alcuna pretesa o manie di grandezza. Piccolissimi pezzetti di ovatta, sfilacciati, morbidi, dalla consistenza simile allo zucchero filato. Non appiccicosa però, semmai amabile, rigenerante. Scende ad accarezzare ogni cosa. Sottolineando il silenzio dei boschi. Addolcendo i profili dei monumenti. Mascherando il brutto, esaltando il bello. Sospinta dal vento o annodata alla nebbia, si posa sul presente e lo trasforma in una cartolina della nostra fanciullezza. Chi di noi, almeno una volta o più di una volta nella vita, non l’ha mai toccata, non l’ha mai sentita appiccicarsi alla pelle o infilarsi tra i capelli, ricoprire la sciarpa, il cappuccio ed il cappotto? Chi non l’ha mai vista confondersi con la luce del giorno o con quella dei lampioni, nelle notti di tormenta? Chi non l’ha mai sognata nel caldo del piumino? Chi non l’ha mai desiderata nel risveglio del mattino? Chi non l’ha mai assaporata mescolandola al vincotto? Chi non l’ha mai afferrata, compattata, fatta persona, o meglio, buffo pupazzo? Chi non l’ha mai lanciata, nel gioco dei sorrisi e dei geloni? Probabilmente ognuno di noi ha o ha avuto a che fare con la neve. Ognuno di noi l’ha ospitata negli occhi, guardandola scendere lenta, dietro un vetro, a scuola, in ufficio, in macchina, a casa. E quell’immagine, insieme al vissuto, rimane nella mente per essere, ogni volta, riaperta da vecchie e nuove emozioni. Per i metereologi la neve è solo una precipitazione di acqua ghiacciata e cristallina. Per ognuno di noi la neve è altro. Ha un significato uguale e diverso al tempo stesso. È una dolce giuggiola da sciogliere in bocca, lentamente. Ed ogni papilla avverte un gusto suo, privato, personale. È una sensazione di carmico benessere. La percezione di un momento che si veste più di romanticismo che di effettivo disagio. E’ una pedina di luce sulla scacchiera del passato. Quella che fa riapparire il bambino nei panni dell’uomo e, con un colpo di spugna, dissimula i brutti pensieri e li rende, anche solo per un attimo, evanescenti. Così, ogni volta che essa riappare, riappare anche quel segreto. Un marchio di fabbrica nel suo dna di cristallo. Una magia che si ripete, incessantemente, con le stesse fluorescenze di sempre. Con le stesse scie di felicità. Come in un remake ci proietta nei giorni dell’infanzia, assimilando tempo al tempo. Riducendo le distanze con chi siamo stati. Riannodando, nel corpo, fili di spensieratezza perduta. Ecco“la neve ha questo Segreto, ridare al cuore un alito di gioia infantile che gli anni ci hanno impietosamente strappato.”

lunedì 25 novembre 2013

SARA' PERCHE'




















Fino a ieri nessuno ha mai capito quanto mi AMAVI.
Ora la gente ha capito che mi AMI veramente.
Chissà perchè ha questa strana convinzione.
Sarà perchè parli di me con tutti.
Sarà perchè tessi, col mio nome, lodi incredibili.
Sarà perchè mi riconosci meriti che neanche sapevo di avere.
Sarà perchè mi regali ogni giorno dei fiori.
E' strano però.
Io ancora non l'ho capito quanto mi AMI.
Sarà perchè questi fiori non hanno nessun odore.
Sarà perchè questi vermi mi divorano il cervello e la ragione.
Sarà perchè c'è una distanza enorme tra me e te.
Sarà perchè c'è una lapide che ci separa.




lunedì 15 aprile 2013

UNA COSTANTE INCOSTANTE

Potrebbe essere come l’acqua di un fiume che scorre. Un moto persistente, perpetuo, che si insinua tra le pietre e la terra, generando percorsi lineari ma anche cascate imponenti, dove la corrente è forte e travolgente ma anche calma e senza forze. Potrebbe essere come il vento, come un tornado di grande calibro, brutale, quasi prepotente, che tutto modifica, che tutto spinge, che sblocca inverosimili staticità e che, spesso, scompone la perfezione delle cose. Così come potrebbe essere una leggera brezza di aria purissima che, appena accennata, assomiglia più al respiro di un sonno profondo che al risveglio della vita. Potrebbe essere una sorgente, inesauribile, di vapore, a tratti bollente, a tratti gelida. Un mix di sbuffi antagonisti, l’uno di riflesso all’altro. Vapore che rende morbida, ma anche dura, la materia che ci circonda. Umidità che liquefa, oppure indurisce. Materia che si trasforma in una colata di lava informe o in un cristallo policromo, bellissimo da vedere ma troppo sensibile davanti alle meteore della vita. Potrebbe essere un dolcissimo nettare salvifico o una velenosa pozione. La medicina che risana una ferita o puro arsenico, generato da illusioni e tradimenti. Potrebbe essere tutto ed il contrario di tutto ma, per ogni via che si apre c’è sempre un’opposta direzione. Per ogni interruzione c’è sempre un punto di ripartenza. Eppure, non occorre chiedersi cosa sia. Quando provi a ragionare negli schemi che ti eri costruito e ti rendi conto che sei già fuori da quegli schemi, allora la logica non ha più ragione di esistere. Quando sei convinto che è quella la cosa da fare e, dopo un attimo, hai la prova che quella era la più sbagliata da intraprendere; quando la vita ti spinge più in là del confine che avevi deciso di non varcare mai, è allora che ti trovi di fronte ad una scelta. Devi scendere a patti con lui. Con l’unica costante geneticamente incostante della nostra vita: il cambiamento. Perché ad ogni azione corrisponde la sua necessaria conseguenza, ad ogni inizio corrisponde la sua necessaria conclusione, perché non c’è niente che si fermi, che ti fermi, che ci fermi, in questo ballo senza tempo organizzato dal mutamento. Possiamo ritrovarcelo davanti, senza neanche averlo cercato. Possiamo essere travolti, senza neanche esserci accorti che stava arrivando. Possiamo farci rincorrere e superare, senza neanche aver corso un miglio. Possiamo farci prendere, senza neanche aver provato a scappare. E, di fronte a lui, ci ritroviamo come davanti ad un incrocio senza vie ombrose o soleggiate, privo di ogni indicazione. Allora possiamo soltanto scegliere: se affrontarlo in battaglia o  farci prendere prigionieri, senza provare ad opporre resistenza. Certo, potremmo lasciar andare le cose per il verso in cui è naturale che vadano, senza fare troppe domande, senza spezzarsi la schiena per fare in modo che non accadano. Consapevoli che il cambiamento non pone regole né le accetta. Non definisce il tempo in cui dovrà accadere, non va di fretta né va troppo lento. Oppure bisognerebbe semplicemente accettare che di questa costante non potremmo mai farne a meno. A meno che non si voglia rimanere con i piedi incollati alla durezza ed all’ignoranza. A meno che non si voglia diventare fango in un solco di acqua stagnante. A meno che non si voglia diventare piante, travolte dal secco o dal gelo delle opposte stagioni. La mutazione si avventa su di noi e non possiamo fare niente perché non accada. Possiamo solo effettuare quella scelta, prendere una decisione. Se essere argilla e farci modellare da questa vita o rimanere pietra e, sottomessi all’immobilità, lasciarsi risucchiare, come un masso che affonda nella sabbia. Potremmo essere come un soffione fluttuante, spinto dal vento verso lidi più silenziosi e carichi di speranza, oppure stelo di marmo, freddo, granitico, incorrotto dal tempo ma corrotto dalla noia. Davanti al mutamento non ci rimane che scegliere. Perché ogni cosa che si ferma prima o poi riprende il suo cammino. Perché ogni viaggio non è mai uguale a quello che si è appena concluso.

mercoledì 10 aprile 2013

DUE GUERRIERI

Qualcuno deve averla prevista. Ci deve essere stato chi ha deciso che, nonostante lo scorrere del tempo, nonostante le sue capacità rigenerative, per questa competizione non poteva esserci alcun rimedio, alcuna possibilità di pacificazione. Eppure la parola competizione non rende l’idea. Conflitto sarebbe più esatto ed “Eterno” il suo naturale aggettivo, legato a fuoco su quella vicenda. Due guerrieri si trovarono, si trovano e si troveranno sempre, l’uno di fronte all’altro. Sulle rive contrapposte di un fiume, torbido e limpido al tempo stesso, che divide radicalmente ogni cosa, anche i loro mondi. Due rive bagnate, apparentemente, dalla stessa acqua. Acqua che origina, tuttavia, due paesaggi confliggenti. Una sponda melmosa, corrotta da una vegetazione asfittica, soffocata da una schiuma limacciosa. Tutt’intorno un pallore inverecondo. Il cielo: uno schizzo di grigio torbido. L’aria: fredda e carica di effluvi gassosi. Dal lato opposto, invece, un’esplosione di vegetazione multicolore. L’erba morbida, mossa, come una carezza serpeggiante, dal profumo delle stagioni calde. Profumo quasi elettrico, inebriante, che si insinua ovunque, anche tra le fronde degli alberi, eternamente carichi di germogli. È questo l’incipit del loro concepimento, la forma in cui sono stati plasmati. Quello che erano ieri, quello che sono oggi. Eppure hanno qualcosa che li accomuna. Forse lo sguardo? Iridi che si intrecciano nella stessa direzione, che sbattono una sulla figura dell’altro? Non è quello. Forse il volto, colorato da tonalità contrapposte, sembra somigliarsi nei tratti apparenti? No, è solo una fugace illusione. Sono troppo diversi. Uno sembra che respiri senza muovere alcun muscolo della cassa toracica. Ha il volto ombrato da un cappuccio fuori misura, color fuliggine. Parte dalla sommità della fronte, discende su tutto il corpo, lo rende incomprensibile nel fisico. Non si riesce a capire se sia corpulento o smunto. Certo è che la mano, in cui tiene ferma l’arma severa, è magrissima, o meglio, ossea. L’altro ha la fronte libera. I capelli leggermente ricciuti, di un colore simile al grano d’agosto. Sembra femminile, nelle caratteristiche tenui del profilo, ma non è una donna. È di una bellezza estrema. La sua dolcezza è un guizzo di luce che rimane impressa nella memoria. Il fisico scolpito nei muscoli marmorei eppure pieni di morbida vita. Si ritrovano antagonisti  immobili ma con i pensieri in battaglia, in questo palcoscenico che ognuno di noi ha visto o vedrà, almeno una volta, nella propria vita. Battaglia in cui non si risparmiano forze, non si conoscono colpi vietati. Ostinati ed ostili verso quello che l’altro pretende di rappresentare. Uno che rifiuta la vita. L’altro che l’adora, in ogni singola forma. Pieni di reminescenze passate, di antiche leggende, di presente, di futuro ancora da scrivere, si combattono perennemente. Sempre alla ricerca di chi dovrà primeggiare sopra ogni cosa. E se uno affonda il colpo sino al cuore, l’altro si difende vigorosamente e si ritrae, come se niente fosse successo. Perché questa lotta non la combattono tra di loro, ma su altri fronti, su altri terreni. Perché le loro pulsioni e privazioni appartengono all’umanità ed è l’uomo che li affronta, quotidianamente. È l’uomo che prova a vivere mentre cerca riparo dalla morte. Così Eros e Thanatos si muovono e si affrontano, tirando i fili, come in un teatro di burattini. Si infilano sottopelle e ci portano alla ricerca di cosa siamo e forse di chi non saremo mai. Alla ricerca dell’incipit o della fine di una storia. Probabilmente sottomessi alla sorte che scriverà cosa dovrà accadere. È l’antitesi di se stessa, questa nostra esistenza. Se nasciamo crudelmente, spremuti da un luogo caldo ed accogliente verso un mondo freddo e senza protezione, dovremmo morire dolcemente, tendendo le braccia verso un luogo vellutato ed ospitale. Questo dovrebbe essere il necessario contrappasso. Invece, se il primo afflato di vita prende possesso nei polmoni, dicono, in un modo cruento e doloroso, lo stesso accade nella morte. Quando veniamo spogliati di quel possesso, senza possibilità di riprenderlo. Rimaniamo senza forze e senza rimedio davanti a questo passaggio necessario e crudele. Così, in questa battaglia tra le pulsioni della vita e le storture della morte, i due guerrieri smuovono l’uomo, senza imporre ragionamento di tregua. Ed anche se si comprende chi dei due, alla fine, avrà il sopravvento, in molti lottano e lotteranno ancora, ostinatamente.