Il buio
le aveva rubato il paesaggio circostante. Si era
impadronito dei suoi passi. Le aveva cancellato la meta,
soffiando con crudeltà sulla fiamma. Aveva spento le
torce che portava negli occhi, saccheggiando quel colore intenso, azzurro misto
ad ambra, che le era stato donato da sua madre. Ora, che ogni cosa aveva perso
la sua sembianza, non riusciva a capire da quale parte andare. Si era appena
risvegliata da un torpore di incoscienza. Forse aveva sognato. O forse era
ancora dentro a quel sogno. Non riusciva a capirlo. Ricordava solo il dolore.
Un cuneo che si conficca nelle tempie. Che la svuota d’ossigeno, riempiendola
di lacrime. Lacrime che non erano le sue. Eppure la sua memoria aveva fatto dei
giri enormi alla ricerca di risposte. Cercava un tepore nascosto, la dolcezza
di un alito caldo, un abbraccio inaspettato, manciate di solida fiducia, la
tremante incredulità di occhi che ti appartengono senza sapere il perché. Tutto
questo era reale o solo puro desiderio? Era china sul pozzo dei ricordi e cercava
di capire cos’era stata la sua vita, il suo passato. E qual era adesso il suo
presente. Poi d’un tratto intravide, nella sua mente, una piccola radura.
Conosceva quel posto. L’erba fresca dove aveva poggiato, da piccola, i piedini
scalzi, senza alcuna paura o tormento. Dove aveva plasmato la spensieratezza
della sua infanzia. E lì vide anche lui. Lui che aspettava un suo cenno per
avvicinarsi. Fu in quel momento che le sembrò che ogni cosa iniziasse a
riprendere la sua forma. La sua naturale sostanza. Quella così tante volte
idealizzata. Sentì un profumo intenso. Era la fragranza penetrante della sua
giovinezza perduta. La purezza delle prime emozioni. La simbiotica paura di
amare e non saperlo dire. Come trovare un vecchio diario e rileggere frasi che
albeggiavano oggi come allora nella sua mente. Non sapeva chi fosse ma avrebbe
voluto dirgli, forse sottovoce: “ti appartengo, sono tua”. Eppure un freno
aveva lasciato cadere la parola. La spinta del cuore, verso quel lido sereno,
si era marmorizzata. Rimaneva, immobile, in quel corpo disteso. Radici che si
infilavano in quel letto, quasi un terreno paludoso, e non le davano modo di
alzarsi. Di proseguire nel cammino. Ferma come davanti ad un portone. Il tempo
che scorre e due anime destinate a incontrarsi. O forse a non incontrarsi mai.
Ma quando lei aveva scorto il suo profilo. Quando la sua immagine era diventata
finalmente desiderio pulsante nella sua mente, allora le sembrò di averlo
sempre conosciuto. Era lui quello che la chiamava nei viaggi verso mete
imprecise. Era lui quello che muoveva le gambe nel cammino faticoso, era lui la
bussola che orientava le sue scelte. Giuste o sbagliate che fossero. Era sempre
lui. Così gli fece cenno di avvicinarsi. Ed iniziò a sentire i suoi passi.
Tremò all’idea di averlo presto davanti, ma lui si mostrò sotto forma di
tramonto. La chiamò a gran voce, implorandola di consentire alla sua ombra di
prendere forma nei suoi occhi spenti. Con i pugni serrati e priva di speranza,
lei, accennò un vile passo nella direzione opposta. Ma una folata di vento le
impose di cambiare rotta. La paura le guidava lo sguardo. Gli occhi bassi quasi
a non voler prendere coscienza di quello che stava succedendo, mentre lui
iniziava a carezzarla dolcemente. Fu allora che il suo essere si mostrò prima
all’anima e poi al corpo. Ed allora finalmente capì. Era lui la consolazione
del suo tormento, l’appagamento della ricerca, la serenità dopo le intemperie
del fato, la cognizione di una vita non più vissuta in difesa, senza amore,
senza amicizia, senza solidarietà, senza supporto, senza possibilità di
scegliere, senza trasporto, senza passione, senza desiderio e senza slancio.
Lei accennò un sorriso. Lo strinse forte a se ed il destino prese un’altra
direzione. Ma in quel momento le sue gambe iniziarono a tremare. Non avrebbero
retto la via del ritorno. Allora lui la prese in braccio, come se fosse stata
la sua bambina, con la dolcezza di un gentiluomo che coglie un bocciolo nel
roseto. E lei, ancorata al porto sicuro, rapita dalle essenze profumate del suo
animo, gemma rara e senza eguali, iniziò a guardare chi era diventata. O
cos’era tornata ad essere. Una donna, ancora viva, dopo un grave
incidente, stretta nelle braccia del suo angelo custode. Angelo che
l’allontanava da quelle nubi asfissianti per riportarla sulla terra. Per farla
sorridere, per farla innamorare e per essere a sua volta amata, forse per la
prima volta…ora che finalmente era uscita dal coma.
giovedì 13 marzo 2014
martedì 4 marzo 2014
IMPARIAMO
Il
pallone, per Andrea, era quasi un cimelio. Lo teneva al riparo dalla polvere,
chiuso in un sacco di tela, nonostante fosse ricoperto di vita vissuta. Consumato
da partite infinite. Rotolato sui terreni più diversi: polverosi, melmosi,
bagnati. Accarezzato dall’erba fresca del prato dietro la chiesa. Il miglior
campo di calcio nelle stagioni primaverili. Preferito al campo del paese, pieno
di pietre e buche. Il pallone era la vitamina delle giornate apatiche. Quelle
giornate in cui la tv rimaneva spenta per scelta e le mura di casa diventavano
simili ad una prigione. Era la consolazione dopo il suono della campanella,
all’uscita della scuola. Era il primo pensiero del risveglio, la domenica
mattina. Pallone che lo faceva diventare il capitano in ogni partita. Lui che
aveva l’onore, o meglio il privilegio, di essere il proprietario del primo
Super Santos, mentre fino a pochi anni prima giocava con palloni fatti di
stracci. Quel giorno, come ogni giorno di quell’estate del ‘62, quando la
scuola era solo una casa vuota e lesionata, Andrea chiamò i suoi amici a
rapporto sul piccolo campetto dietro la Chiesa. Tutti presenti, come
sempre, per la partita delle cinque. Appartenere alla piazza o vivere nel
centro storico oppure nel borgo del paese definiva la formazione delle squadre.
Quasi un torneo. L’arbitro prescelto, un bambino magrolino e senza un dente, si
disperò in un pianto quasi isterico, voleva giocare anche lui. Andrea seppe calmarlo:
“una volta per uno - gli disse - facciamo a turno”. Poi il suono della campana,
le cinque esatte, anticipò il fischio di inizio e la squadra della Piazza diede
il calcio d’avvio. La rivalità era animata e vivace. Si sfidavano i bambini
della Piazza contro quelli del Borgo. Magliette bianche contro magliette rosse.
La prima vera azione della partita ebbe come protagonista il figlio del fornaio.
Con un dribbling veloce cercò di guadagnare metri verso la porta e, quando vide
due difensori frapporsi al suo percorso, calciò con potenza, senza pensarci due
volte. Voleva provare l’ebbrezza di fare un gol epico. Quei gol che si vestono
di leggenda nelle storie dei ragazzi. Ma la fortuna non fu dalla sua parte ed il
pallone, sospinto anche dalla forza del vento, prese una traiettoria strana. Superò
il campetto e girò l’angolo della strada come se fosse stato spinto o
accompagnat0 da un altro calcio, stavolta trasparente. Scomparve in un guizzo di
secondo, lungo la discesa che portava verso il dirupo. Andrea accompagnò il
pallone con lo sguardo e riuscì a dire solo un “Nooo” prolungato dalla tensione
di perdere il suo adorato tesoro. La partita finì nello stesso istante. Tutti
si fermarono, quasi sconvolti, ed un gruppetto si formò intorno al responsabile
dell’azione. “Sei sempre il solito spaccone” esordì Andrea, avvicinandosi ad un
palmo di naso. “Se il pallone si è perso facciamo i conti” aggiunse tirandosi
su le maniche. “Se si è perso mi fa piacere” ribattè spocchioso il ragazzo
dalla maglietta rossa “così la smetti di comandare”. La rissa fu una normale
quanto necessaria conseguenza. Tutti contro tutti. Si litigava e si faceva a
botte per un pallone andato a finire chissà dove. Tuttavia gli animi, dapprima
accesi e lividi, man mano si calmarono. Una bonaccia improvvisa, dopo la
terribile tempesta, schiarì la rabbia. Complice anche i dolori dopo le botte.
Il piccolo arbitro si avvicinò ad Andrea e lo staccò dal malcapitato di turno.
Aveva in mano un pallone lercio, fatto di stracci. Glielo porse ed abbozzò un
sorriso. Andrea guardò la sua maglietta bianca, sporcata di rosso. Il sangue gli
colava giù dal naso che era una meraviglia. Non servirono parole ed in pochi istanti
capì quanto era stato assurdo il suo comportamento. Così, con un fischio,
richiamò l’attenzione di tutti. “Fermi, che stiamo facendo?” disse bloccando le
azioni bellicose. “E’ solo un pallone, usiamo questo e rimettiamoci a giocare.”
Incredulità generale. Poi tutto ritornò come prima. Agonismo e sorrisi al posto
delle botte e dei litigi. La morale? Forse troppo semplice da capire per i bambini
ma decisamente difficile per i grandi. Perché i bambini prima litigano e poi
ritornano a giocare insieme? Perché la loro felicità viene prima dell’orgoglio.
(Impariamo dai bambini).
NIENTE
Il peso di quell’assenza affondava nei passi. L’eco
del silenzio si infilava, severo, nei capelli. Li annodava con sapienza, spinto
da manciate di vento caldo (che poi, forse, vento non era). Tesseva le trame, un
reticolato di pensieri asfissianti. Era lui uno dei compagni di viaggio. Forse
quello che meglio comprendeva le sue emozioni. Emozioni liquefatte nel movimento
assurdo degli impulsi cerebrali. Impulsi che, davanti ad una condanna, non
riuscivano ad elaborare niente. Bloccati sullo stesso tasto, a suonare una sola
nota: muta. Anche il silenzio, come gli occhi di lei, si nutriva di quella mancanza.
Occhi che sembravano interrompersi nello sguardo, salvo poi riprendersi, nel
movimento repentino delle ciglia che sbattevano veloci. Chiusi ed aperti. Come in
un continuo vedo non vedo. Eppure il cammino era lungo. Faticoso. Riusciva a
percepirlo, sentirlo, nella sua maestosità. Cosa doveva fare? Trattenere il
fiato, respirare appena. Esercizi che servivano per darle forza. Per non
inglobare troppa aria nei polmoni. Per non far pesare e pensare la testa. Per
dare alle gambe la spinta necessaria per continuare. Era solo il movimento,
quasi un automatismo, a definire quel corpo come un corpo dinamico. Per il
resto niente sembrava vivere in lei. Era una casa disabitata. Nessuno che apre
le finestre. Nessuno che accende la luce. Mura che man mano si sgretolano sotto
il peso di quella tormenta. Eppure davanti a quella casa c’era una strada. Si
apriva simile ad un viatico di passione. Strada di cui conosceva l’arrivo, la
fine. Strada senza senso ma obbligatoria da percorrere. La vita gli aveva
indicato o imposto il cammino e lei lo aveva preso, intrapreso, senza togliere
il cuore dai carboni. Cuore che bruciava, avvolto dalle fiamme del dolore, ma
che, ancora, non era completamente cenere. Poteva sentire, così come lo aveva
avvertito la prima volta, il dolore trafiggerla con precisione inaudita. Come
al primo annuncio del destino. Maledetto. In quelle parole, in quella diagnosi,
aveva capito cos’era quella zavorra che la rendeva così pesante. Cos’era
quell’assenza. Quella mancanza. Le lacrime se ne erano andate quando aveva
guardato quel bambino diventare improvvisamente vecchio, senza vivere neanche
un anno della sua vita. Quando aveva raccolto i primi capelli caduti sul
golfino. Quando gli aveva tenuto la mano durante la prima flebo, tremando solo
con la gola. Quando aveva trasformato la paura in una favola bugiarda, a lieto
fine, mentre gli rimboccava le coperte prima di dormire. Quando lo aveva preso
in braccio sfinito, dopo l’ultima terapia, e non aveva sentito che ossa. Non
più suo figlio ma una piuma. Il peso di un’anima pronta a sparire per sempre.
Ed in quell’abbraccio si era scarnificata della speranza. In quell’abbraccio, l’ultimo,
aveva consegnato, sconfitta, quella che era la sua vita “in mani più grandi,
mani discese dal cielo”. Così aveva detto il prete durante l’omelia, mentre lei
si svuotava di preghiere mai ascoltate. Lei che, oramai, non credeva più a
niente. Niente che non fosse reale. Reale come quella morte
mercoledì 19 febbraio 2014
UNO SPETTACOLO
Quante
domande si rincorrono nella mente dell’uomo. Quanti perché si conficcano nelle
isole del pensiero e lì rimangono sepolti, sino a che qualcosa non smuove
quella staticità. Ci sono risposte che seguono una genesi dolorosa. Altre
invece scardinano una liberazione, una fuga inaspettata. Simile alla corsa di
un bambino che sorride alla spensieratezza. Eppure quando si cerca il perché
della vita è con noi stessi che bisogna fare i conti. Con quello che abbiamo
dentro. E’ lì che nascono le risposte che sottomettono il destino di ogni uomo
ad una prova ancora più grande. Uscire vittoriosi dall’eterna lotta tra
l’essere e l’apparire. La trasformazione di una piccola cellula in quello che
sarà un uomo, una donna. Sotto lo sguardo immobile del cielo, il tempo divora
lentamente ogni passaggio della nostra vita. E mentre lui cresce, si fortifica,
fino a diventare l’essenza ed il ricordo di come eravamo, prima semplici
cellule, poi ossa, carne e muscoli, così il nostro viaggio sulla terra man mano
si avvicina alla fine. Ed in quel percorso che si snoda ciò che siamo e che
saremo. Prima annidati nel corpo di un altro essere. Poi staccati a forza da
quel ventre. Chi con una spinta autonoma, chi con un taglio netto. Un distacco
comunque vigoroso. Necessario. La nascita genera la materia di cui siamo fatti.
La realtà tangibile che ognuno di noi ha davanti all’altro. Ciò che si riflette
in uno specchio. I tratti. Le peculiarità di un sorriso. La dolcezza di uno
sguardo. Il colore dei capelli. Eppure dentro di noi c’è ancora un embrione in
evoluzione: l’anima. Appena nati non ha ancora la dimensione dell’essere umano.
Troppo piccola o forse troppo grande per vivere in un corpo così soffocante.
Uguale e diversa da ogni altra, sottomessa alla percezione del tempo. Alla sua
immagine in continuo divenire. Ci vive dentro senza saperlo. Un inquilino
trasparente che osserva mentre ci trasformiamo da neonati a bambini, da bambini
a ragazzi, da ragazzi ad adulti. E mentre guarda questo cambiamento così
lievita nel corpo espandendosi sino a riempire ogni cavità. Sino a diventare la
chiave della nostra esistenza. Legata al cuore, mitiga nei suoi battiti il ticchettio
del tempo che scorre. Anima prima incosciente e temeraria, poi matura e decisa,
infine assillante sino a diventare, alcune volte, ingombrante. Una presenza che non ci lascia
mai soli, neanche quando tentiamo di cacciarla. L’anima comprende l’incomprensibile.
Si apposta negli angoli e stana la paura.
Diventa l’istinto migliore, la percezione ed il pensiero di mille e
mille azioni. Giuste o sbagliate. E’ sempre lei che dirige l’orchestra.
Accordando gli strumenti durante la maturità. L’anima pretende una scelta e noi
seguiamo quella che ci sembra più giusta o opportuna. E sentiamo che ci parla
con linguaggi sempre diversi che non sono fatti di parole. A volte è un
semplice profumo, simile all’essenza dei fiori di campo. Ci entra nelle narici
e ci inebria i pensieri. A volte è simile ad un respiro affannoso che ci lascia
attoniti e desolati. Ogni singolo sussulto della sua consistenza aerea crea una
sensazione, sempre unica, sempre diversa. Tormento o estasi. Ansia o
tranquillità. Fatica o riposo. Amore o odio. E questo accade perché: "c'è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo, c'è uno spettacolo più grandioso del cielo ed è l'interno di un'anima". (Victor Hugò)
mercoledì 12 febbraio 2014
IL GOL
Tutto si svolge come da copione. La presenza si
materializza fulminea. Una scarica di luce ed immagini risucchiati da una forza
straordinaria. Anche se il tempo non viene percepito, tutto succede in fretta. Il
terreno, se così lo possiamo chiamare, è pronto. In perenne attesa di quell’evento,
si conforma all’orma, sottomettendosi a quel peso strano. Appena l’impronta
segna il suo calco così un recinto viene innalzato. Paletti, mattoni o reticoli,
generati da quello stesso terreno. Fissano e definiscono i contorni di ciò che
è appena accaduto. Limitando i confini con altre recinzioni di legno, ferro, cemento
o materiali sconosciuti. Ognuno di una consistenza diversa. Alcuni solidi,
altri fragili, alternati come in un puzzle. Un evento naturale quanto necessario
perché se quell’impronta non si fissasse nel terreno non ci sarebbe vita o
meglio non ci sarebbe esistenza. Alcun orizzonte lieto da osservare ma neanche
un serio pericolo da evitare. Cos’è il terreno e cosa l’impronta? Niente altro che la
memoria e i ricordi. Ciò che permette di riconoscere il mondo e riconoscere noi
in quel mondo. E dall’uso che ne facciamo ogni cosa dipende. A volte
la memoria può semplicemente tenere lontano la mano dal fuoco. In quel caso
l’uso è funzionale, adeguato al momento. Un nastro che, riavvolgendosi, ci avvisa
cosa è dolore. Da bambini l’uso che ne facciamo è simile ad un registratore. Memoria
su cui nessuno “rimugina”. Non si ha il tempo, travolti come siamo dalla
crescita. Ma è nell’età adulta che iniziamo a “rimuginare”. E’ paradossale ma è
con la maturità che si inizia a far uso, buono o cattivo, della memoria. Buon
uso: separando la memoria che conta da quella di passaggio, di superficie. Simile
al distacco delle foglie d’autunno da un albero che si prepara a ricevere nuovi
germogli per la primavera. Segno che quei ricordi hanno fatto il loro tempo. Finiti
per far spazio ad altro. Uno o più tagli per staccare ciò che non serve. Eppure
la memoria
custodisce un meraviglioso quanto misterioso progetto: la nostra vita. Nell’evoluzione
di chi siamo e chi diventeremo la memoria si alterna, o dovrebbe alternarsi,
con sapienza, al suo compagno, severo quanto necessario: l’oblio. Quando un ricordo viene a trovarci possiamo scegliere
che uso farne. Se farlo diventare un’esperienza che ci costruisce,
fortificandoci oppure se farlo diventare un tarlo, un’ossessione. Spesso la
memoria è dolorosa. Dolorosa quando, senza rendercene conto, compiamo delle
operazioni mentali che ci proiettano nel passato ed in quel passato restiamo imbrigliati.
Continuando
a tenere quel ricordo nei recinti della nostra memoria reiteriamo
solo il processo e la condanna verso noi stessi o gli altri: “ho commesso un
errore imperdonabile”oppure “non ho dimenticato ciò che mi ha fatto”. Ottime
premesse per l’alterazione del presente e la chiusura al futuro. Spesso quando
ciò che abbiamo è povero, deludente, cerchiamo conforto nella nostalgia di un ricordo,
edulcorato, pieno solo di consistenze evanescenti. Eppure cercare asilo nel
passato ci fa sentire sempre più insoddisfatti. Crogiolarsi in un rimpianto è
solo un alibi per non rimettersi in gioco, per paura o timore di affrontarlo. Ma
quel gioco è la vita ed è necessario scendere in campo, non rimanere in
panchina, altrimenti altri segneranno il gol di svolta della nostra esistenza. Ed
allora sì che rimarremmo schiavi dei rimpianti
lunedì 3 febbraio 2014
VERDE SMERALDO
Il profilo aveva dei tratti in comune. Alcuni dicevano
che era il naso, altri la fronte. Altri ancora rivedevano, nella bocca carnosa
e nel taglio all’ingiù delle labbra, quasi un segno distintivo. Eppure era
negli occhi che si riversavano i geni dell’appartenenza. Gli stessi occhi. Quel
colore verde smeraldo, appena sbiadito da piccole pagliuzze della tonalità
dell’ambra, simile ad una distesa di acqua salata al risveglio del sole. Occhi,
quelli di lei, che rimanevano, spesso, a fissare il cielo, mentre gli occhi di
lui si riempivano di pensieri pesanti. Occhi dell’attesa, i primi. Occhi della
speranza di una vita che nasce e cresce nelle pareti del corpo. Vita che
sguscia fuori da quello scrigno di liquido e calore avvolgente dopo ore di intenso
travaglio. Vita desiderata e appesa alla speranza di rivedere un sorriso
sereno. Un corpicino sano, una bocca che prende aria e rilascia un pianto che
suona, nei timpani, note felici. Gioia che si liquefa nel primo vagito. Gioia
che un pensiero solo non riesce a contenere, tanto è infinita, senza confini. Bocca
che si attacca al seno e da quello prende il primo nutrimento, la prima goccia
di amore puro. Amore senza richieste di ricompense o pretese di essere
ricambiato. Quello che si condensa nel latte e dal latte si trasforma in ossa,
muscoli, nervi, organi, sviluppando la crescita. Definendo l’evoluzione di un
piccolo ometto in un uomo di quarant’anni o poco più. Latte come riserva di
anticorpi. Guerrieri contro le malattie del corpo, che si assiepano nelle mura
del castello e non temono gli attacchi dei batteri, dei virus della
quotidianità. Guerrieri che sfidano febbre e tosse, che si aggiungono alle
truppe a cavallo: ai vaccini. Vaccini che si trasformano, moltiplicando
l’esercito, per salvare dagli agguati più cruenti quell’ometto ancora in fasce.
Guerrieri che diventeranno gli abitanti di quel villaggio in continua crescita,
durante il suo cammino nel tempo. Guerrieri che, tuttavia, nulla possono o
potranno contro un unico nemico. Quello che si nasconde, senza lasciare traccia
del suo ingresso, nelle alture del cervello. Annidato o forse addormentato, ma
pronto a mettere i piedi sul terreno, in qualsiasi momento, e dare battaglia
alla ragione, al sentimento stesso di appartenenza. E fu proprio in quegli
occhi smeraldo che lei vide se stessa, un attimo prima di essere annientata. Un
attimo prima di essere travolta da quella vita che lei stessa aveva messo al
mondo. Vita ridotta fuoco e fiamme da quel nemico silenzioso: la depressione. Eppure
cinque minuti prima erano seduti a fare colazione. Il solito orario. La solita
tazza di caffè. Il pane appena tagliato, il coltello adagiato sul tagliere,
alla maniera di sempre. Il barattolo di marmellata di amarene fatte in casa: la
sua preferita. Il latte comprato fresco, giù al negozio, ogni mattina. La
solita routine da quando lui era un bambino fino ad oggi. Lei che va in camera
sua. Apre lentamente le serrande. Con un filo di voce gli sussurra che è ora di
alzarsi. Lui che mormora e farfuglia sempre le solite frasi. Imprecando il
destino di averlo rinchiuso ai margini della società. Da quando aveva perso il
lavoro non era più lo stesso. Poi un mezzo buongiorno stretto tra i denti. Non
il solito buongiorno. Lei che si accorge di quella deviazione dalla consuetudine
ma non gli chiede spiegazioni. Prende lo zucchero ed aggiunge due cucchiai, come
sempre, nel caffè fumante. “Oggi cosa preparo per pranzo?”. Sempre la stessa
domanda. Lui che stranamente non risponde. Non beve il caffè ma afferra il
coltello e lo affonda nella gola di sua madre. Lo stesso coltello che rivolge
verso di se e trancia la carotide in un solo gesto. Occhi increduli, quelli di
lei, che vorrebbero fissare il cielo ma sono bloccati dal soffitto cupo e
sporco di sangue. Occhi stravolti, quelli di lui, che si staccano dai pensieri
e diventano leggeri. Occhi verde smeraldo che si spengono nello stesso momento.
Occhi che si ricoprono di sangue, che zampilla dalla gola, che li abbandona alla
stessa velocità e li riannoda nella morte così come erano stati nella vita.
IL SEGRETO
Come una
manciata di brio, sparsa dalle mani del tempo, leggera si muove, quasi danzando, nell’ immensa solitudine del mondo.
Sorprende gli animi in cammino, chini sul
quotidiano tormento della fretta o distratti dal fragore del progresso.
Come un
respiro bianco, improvviso, di ghiaccio, spinge la dolcezza nei polmoni.
Rianimando, profondamente, gli anni che ognuno si porta addosso. Eppure ha una
forma senza alcuna pretesa o manie di grandezza. Piccolissimi pezzetti di
ovatta, sfilacciati, morbidi, dalla consistenza simile allo zucchero filato. Non
appiccicosa però, semmai amabile, rigenerante. Scende ad accarezzare ogni cosa.
Sottolineando il silenzio dei boschi. Addolcendo i profili dei monumenti.
Mascherando il brutto, esaltando il bello. Sospinta dal vento o annodata alla
nebbia, si posa sul presente e lo trasforma in una cartolina della nostra
fanciullezza. Chi di noi, almeno una volta o più di una volta nella vita, non
l’ha mai toccata, non l’ha mai sentita appiccicarsi alla pelle o infilarsi tra
i capelli, ricoprire la sciarpa, il cappuccio ed il cappotto? Chi non l’ha mai vista
confondersi con la luce del giorno o con quella dei lampioni, nelle notti di
tormenta? Chi non l’ha mai sognata nel caldo del piumino? Chi non l’ha mai desiderata
nel risveglio del mattino? Chi non l’ha mai assaporata mescolandola al vincotto?
Chi non l’ha mai afferrata, compattata, fatta persona, o meglio, buffo pupazzo?
Chi non l’ha mai lanciata, nel gioco dei sorrisi e dei geloni? Probabilmente ognuno
di noi ha o ha avuto a che fare con la neve. Ognuno di noi l’ha ospitata negli
occhi, guardandola scendere lenta, dietro un vetro, a scuola, in ufficio, in
macchina, a casa. E quell’immagine, insieme al vissuto, rimane nella mente per
essere, ogni volta, riaperta da vecchie e nuove emozioni. Per i metereologi la
neve è solo una precipitazione di acqua ghiacciata e cristallina. Per ognuno di
noi la neve è altro. Ha un significato uguale e diverso al tempo stesso. È una dolce
giuggiola da sciogliere in bocca, lentamente. Ed ogni papilla avverte un gusto
suo, privato, personale. È una sensazione di carmico benessere. La percezione
di un momento che si veste più di romanticismo che di effettivo disagio. E’ una
pedina di luce sulla scacchiera del passato. Quella che fa riapparire il
bambino nei panni dell’uomo e, con un colpo di spugna, dissimula i brutti pensieri
e li rende, anche solo per un attimo, evanescenti. Così, ogni volta che essa
riappare, riappare anche quel segreto. Un marchio di fabbrica nel suo dna di
cristallo. Una magia che si ripete, incessantemente, con le stesse fluorescenze
di sempre. Con le stesse scie di felicità. Come in un remake ci proietta nei
giorni dell’infanzia, assimilando tempo al tempo. Riducendo le distanze con chi
siamo stati. Riannodando, nel corpo, fili di spensieratezza perduta. Ecco“la neve ha questo Segreto, ridare al cuore
un alito di gioia infantile che gli anni ci hanno impietosamente strappato.”
lunedì 25 novembre 2013
SARA' PERCHE'

Fino a ieri nessuno ha mai capito quanto mi AMAVI.
Ora la gente ha capito che mi AMI veramente.
Chissà perchè ha questa strana convinzione.
Sarà perchè parli di me con tutti.
Sarà perchè tessi, col mio nome, lodi incredibili.
Sarà perchè mi riconosci meriti che neanche sapevo di avere.
Sarà perchè mi regali ogni giorno dei fiori.
E' strano però.
Io ancora non l'ho capito quanto mi AMI.
Sarà perchè questi fiori non hanno nessun odore.
Sarà perchè questi vermi mi divorano il cervello e la ragione.
Sarà perchè c'è una distanza enorme tra me e te.
Sarà perchè c'è una lapide che ci separa.
lunedì 15 aprile 2013
UNA COSTANTE INCOSTANTE
Potrebbe essere come l’acqua di un fiume che scorre. Un moto persistente, perpetuo, che si insinua tra le pietre e la terra, generando percorsi lineari ma anche cascate imponenti, dove la corrente è forte e travolgente ma anche calma e senza forze. Potrebbe essere come il vento, come un tornado di grande calibro, brutale, quasi prepotente, che tutto modifica, che tutto spinge, che sblocca inverosimili staticità e che, spesso, scompone la perfezione delle cose. Così come potrebbe essere una leggera brezza di aria purissima che, appena accennata, assomiglia più al respiro di un sonno profondo che al risveglio della vita. Potrebbe essere una sorgente, inesauribile, di vapore, a tratti bollente, a tratti gelida. Un mix di sbuffi antagonisti, l’uno di riflesso all’altro. Vapore che rende morbida, ma anche dura, la materia che ci circonda. Umidità che liquefa, oppure indurisce. Materia che si trasforma in una colata di lava informe o in un cristallo policromo, bellissimo da vedere ma troppo sensibile davanti alle meteore della vita. Potrebbe essere un dolcissimo nettare salvifico o una velenosa pozione. La medicina che risana una ferita o puro arsenico, generato da illusioni e tradimenti. Potrebbe essere tutto ed il contrario di tutto ma, per ogni via che si apre c’è sempre un’opposta direzione. Per ogni interruzione c’è sempre un punto di ripartenza. Eppure, non occorre chiedersi cosa sia. Quando provi a ragionare negli schemi che ti eri costruito e ti rendi conto che sei già fuori da quegli schemi, allora la logica non ha più ragione di esistere. Quando sei convinto che è quella la cosa da fare e, dopo un attimo, hai la prova che quella era la più sbagliata da intraprendere; quando la vita ti spinge più in là del confine che avevi deciso di non varcare mai, è allora che ti trovi di fronte ad una scelta. Devi scendere a patti con lui. Con l’unica costante geneticamente incostante della nostra vita: il cambiamento. Perché ad ogni azione corrisponde la sua necessaria conseguenza, ad ogni inizio corrisponde la sua necessaria conclusione, perché non c’è niente che si fermi, che ti fermi, che ci fermi, in questo ballo senza tempo organizzato dal mutamento. Possiamo ritrovarcelo davanti, senza neanche averlo cercato. Possiamo essere travolti, senza neanche esserci accorti che stava arrivando. Possiamo farci rincorrere e superare, senza neanche aver corso un miglio. Possiamo farci prendere, senza neanche aver provato a scappare. E, di fronte a lui, ci ritroviamo come davanti ad un incrocio senza vie ombrose o soleggiate, privo di ogni indicazione. Allora possiamo soltanto scegliere: se affrontarlo in battaglia o farci prendere prigionieri, senza provare ad opporre resistenza. Certo, potremmo lasciar andare le cose per il verso in cui è naturale che vadano, senza fare troppe domande, senza spezzarsi la schiena per fare in modo che non accadano. Consapevoli che il cambiamento non pone regole né le accetta. Non definisce il tempo in cui dovrà accadere, non va di fretta né va troppo lento. Oppure bisognerebbe semplicemente accettare che di questa costante non potremmo mai farne a meno. A meno che non si voglia rimanere con i piedi incollati alla durezza ed all’ignoranza. A meno che non si voglia diventare fango in un solco di acqua stagnante. A meno che non si voglia diventare piante, travolte dal secco o dal gelo delle opposte stagioni. La mutazione si avventa su di noi e non possiamo fare niente perché non accada. Possiamo solo effettuare quella scelta, prendere una decisione. Se essere argilla e farci modellare da questa vita o rimanere pietra e, sottomessi all’immobilità, lasciarsi risucchiare, come un masso che affonda nella sabbia. Potremmo essere come un soffione fluttuante, spinto dal vento verso lidi più silenziosi e carichi di speranza, oppure stelo di marmo, freddo, granitico, incorrotto dal tempo ma corrotto dalla noia. Davanti al mutamento non ci rimane che scegliere. Perché ogni cosa che si ferma prima o poi riprende il suo cammino. Perché ogni viaggio non è mai uguale a quello che si è appena concluso.
mercoledì 10 aprile 2013
DUE GUERRIERI
Qualcuno deve averla prevista. Ci deve essere stato chi ha deciso che, nonostante lo scorrere del tempo, nonostante le sue capacità rigenerative, per questa competizione non poteva esserci alcun rimedio, alcuna possibilità di pacificazione. Eppure la parola competizione non rende l’idea. Conflitto sarebbe più esatto ed “Eterno” il suo naturale aggettivo, legato a fuoco su quella vicenda. Due guerrieri si trovarono, si trovano e si troveranno sempre, l’uno di fronte all’altro. Sulle rive contrapposte di un fiume, torbido e limpido al tempo stesso, che divide radicalmente ogni cosa, anche i loro mondi. Due rive bagnate, apparentemente, dalla stessa acqua. Acqua che origina, tuttavia, due paesaggi confliggenti. Una sponda melmosa, corrotta da una vegetazione asfittica, soffocata da una schiuma limacciosa. Tutt’intorno un pallore inverecondo. Il cielo: uno schizzo di grigio torbido. L’aria: fredda e carica di effluvi gassosi. Dal lato opposto, invece, un’esplosione di vegetazione multicolore. L’erba morbida, mossa, come una carezza serpeggiante, dal profumo delle stagioni calde. Profumo quasi elettrico, inebriante, che si insinua ovunque, anche tra le fronde degli alberi, eternamente carichi di germogli. È questo l’incipit del loro concepimento, la forma in cui sono stati plasmati. Quello che erano ieri, quello che sono oggi. Eppure hanno qualcosa che li accomuna. Forse lo sguardo? Iridi che si intrecciano nella stessa direzione, che sbattono una sulla figura dell’altro? Non è quello. Forse il volto, colorato da tonalità contrapposte, sembra somigliarsi nei tratti apparenti? No, è solo una fugace illusione. Sono troppo diversi. Uno sembra che respiri senza muovere alcun muscolo della cassa toracica. Ha il volto ombrato da un cappuccio fuori misura, color fuliggine. Parte dalla sommità della fronte, discende su tutto il corpo, lo rende incomprensibile nel fisico. Non si riesce a capire se sia corpulento o smunto. Certo è che la mano, in cui tiene ferma l’arma severa, è magrissima, o meglio, ossea. L’altro ha la fronte libera. I capelli leggermente ricciuti, di un colore simile al grano d’agosto. Sembra femminile, nelle caratteristiche tenui del profilo, ma non è una donna. È di una bellezza estrema. La sua dolcezza è un guizzo di luce che rimane impressa nella memoria. Il fisico scolpito nei muscoli marmorei eppure pieni di morbida vita. Si ritrovano antagonisti immobili ma con i pensieri in battaglia, in questo palcoscenico che ognuno di noi ha visto o vedrà, almeno una volta, nella propria vita. Battaglia in cui non si risparmiano forze, non si conoscono colpi vietati. Ostinati ed ostili verso quello che l’altro pretende di rappresentare. Uno che rifiuta la vita. L’altro che l’adora, in ogni singola forma. Pieni di reminescenze passate, di antiche leggende, di presente, di futuro ancora da scrivere, si combattono perennemente. Sempre alla ricerca di chi dovrà primeggiare sopra ogni cosa. E se uno affonda il colpo sino al cuore, l’altro si difende vigorosamente e si ritrae, come se niente fosse successo. Perché questa lotta non la combattono tra di loro, ma su altri fronti, su altri terreni. Perché le loro pulsioni e privazioni appartengono all’umanità ed è l’uomo che li affronta, quotidianamente. È l’uomo che prova a vivere mentre cerca riparo dalla morte. Così Eros e Thanatos si muovono e si affrontano, tirando i fili, come in un teatro di burattini. Si infilano sottopelle e ci portano alla ricerca di cosa siamo e forse di chi non saremo mai. Alla ricerca dell’incipit o della fine di una storia. Probabilmente sottomessi alla sorte che scriverà cosa dovrà accadere. È l’antitesi di se stessa, questa nostra esistenza. Se nasciamo crudelmente, spremuti da un luogo caldo ed accogliente verso un mondo freddo e senza protezione, dovremmo morire dolcemente, tendendo le braccia verso un luogo vellutato ed ospitale. Questo dovrebbe essere il necessario contrappasso. Invece, se il primo afflato di vita prende possesso nei polmoni, dicono, in un modo cruento e doloroso, lo stesso accade nella morte. Quando veniamo spogliati di quel possesso, senza possibilità di riprenderlo. Rimaniamo senza forze e senza rimedio davanti a questo passaggio necessario e crudele. Così, in questa battaglia tra le pulsioni della vita e le storture della morte, i due guerrieri smuovono l’uomo, senza imporre ragionamento di tregua. Ed anche se si comprende chi dei due, alla fine, avrà il sopravvento, in molti lottano e lotteranno ancora, ostinatamente.
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