martedì 24 marzo 2015

BISOGNA ESSERCI

Bisogna esserci in questo letto, avvolti e stravolti dal contatto con lenzuola infeltrite, coperte sempre più corte e indifferenza che sa di pulito. 
Bisogna esserci per poggiare la testa, pesante gabbia di pensieri inquieti, su cuscini sempre più scomodi e sottili. 
Bisogna esserci per sentire la pelle tirare, le braccia agonizzare perchè bucate, senza sosta, da aghi avidi di sangue, dove le vene, sconvolte ed inondate dalle flebo, non hanno alcuna tregua se non quella naturale della rottura. 
Bisogna esserci in questo mondo disinfettato ed asettico, dove l’odore di malattia e sofferenza depone l’anima in preghiera perenne anche colui che non crede in niente. 
Mondo che sembra sincronicamente perfetto, quasi automatico. 
La pillola all'ora giusta, l’infermiera che controlla la flebo, le donne delle pulizie, la colazione, il pranzo e la cena, i dottori che fanno il giro dei letti. 
Momenti, gesti, azioni, routine. Tempo che passa spocchioso e laconico come sempre. Ogni giorno che sembra uguale a ieri con una sola eccezione: lo scambio dei letti. Pazienti dimessi e pazienti che entrano. Chi si riveste e torna a casa, chi non può farlo perché destinato a scendere nel silenzio della camera mortuaria. Chi passa in quelle stanze, da visitatore, non sa cosa vuol dire essere completamente nudo. 
L’essere umano non ha più un privato da contenere negli argini del proprio corpo, è spogliato dal pudore, indifeso, una roccaforte con le entrate aperte alla folla. Scoperto alle palpazioni ed alle indagini dell’uomo e delle macchine. 
Anche il mio corpo, in questi giorni, non è più mio ma in balia degli eventi. Sottomesso a gesti meccanici, quasi robotici, in quest’azienda ospedaliera dove il nome ha spersonalizzato il concetto, paradossalmente romantico, della casa del sollievo, dell’accoglienza dei malati, del dolore che viene curato non solo con le medicine. L’etimologia sovvertita e con essa la gestione “amministrativa” del paziente che diventa un numero di protocollo, una cartella clinica traboccante di dati, quasi sempre intellegibili ai più. E quando capita di non comprendere cosa ti sta succedendo, quando vedi solo il nero della notte che risale dalle coperte del letto e ti rapisce la vista, quando chiedi aiuto e vorresti o dovresti essere difesa da chi dovrebbe prima di tutto essere un uomo e poi un dottore, ti senti rispondere, con freddezza inaudita, che la medicina non è una filosofia. Che la medicina non attiene all’intimo sentire, non è fatta per i deboli di cuore, ma è una scienza che si fonda sugli strumenti, sulle macchine e quando una macchina referta un responso di terrore da quello puoi essere completamente risucchiato senza la benché minima partecipazione emotiva di chi ti sta dicendo se vivrai anche domani. 
Sento pronunciare parole di nera ingiustizia a quell’anima che soffre nel letto accanto al mio. Riconosco la voce ed il ruolo da Primario. Sembra scostante, quasi insensibile, davanti a quei respiri così carichi di perché. Risucchiata dalla paura sprofondo nel letto, la prossima sono io. Aspetto di sentire ma...resto sospesa, in attesa di una diagnosi. Quello che più umilia il malato è rimanere nudo ed indifeso davanti a quel mondo. Chi ha firmato una cambiale in bianco alla Banca della vita, non saprà quando e come sarà messa all’incasso, eppure vuole essere sostenuto prima col cuore, poi con la scienza. 
Vorrei fissare la parete che tanti occhi hanno fissato, nel reparto dove la gioia ha poco o mai avuto ingresso, ma gli occhi sono disconnessi, senza più collegamenti col cervello. Chi è malato è sottomesso al destino ed alla fortuna di scovare, tra tanto agonismo clinico, un uomo, un dottore che si svesta di quel camice e lo accarezzi. Alla dolcezza di una parola di conforto equivale una defibrillazione emotiva. 
Tanti dottori questo lo sanno e mettono in pratica, ogni giorno, le esortazioni di S. Giuseppe Moscati: “Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un'anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l'ardenza dell'amore, la carità. Il medico si trova in una posizione di privilegio, perché si trova tanto spesso a cospetto di anime che, malgrado i loro passati errori, stanno per li li per capitolare. Beato quel medico che sa comprendere il mistero di questi cuori e infiammarli di nuovo.” 
Ci vuole una grande dose di umiltà per infiammare di nuovo un corpo malato perché una malattia entrerà, prima o poi, nella vita di tutti…forse anche in quella di chi ha fatto del ruolo di Primario solo una medaglia…ed allora sarà ripagato “con la stessa dose di sensibilità” che lui ha dato ai malati: praticamente una miseria.

sabato 14 marzo 2015

SENZA FARE TROPPE DOMANDE - dedicata a Lia

Il lutto che mi porto addosso mi scava gallerie nel cuore, strade che non trovano alcuna via d’uscita. Ho ancora poche lune nella mia vita ma è come se il buio mi avesse dissolta, senza chiedere permesso. È entrato tutto, non ha lesinato niente. Non ha dato tregua al respiro, non ha dato tregua alla ragione. Si è preso ogni cosa e mi ha ributtato sul pavimento senza pudore. Pago il peccato e vivo il castigo di essere estremamente sensibile, di essere prima una figlia e poi, se resta qualcosa da vivere, anche una donna. Ho tanta gente intorno, sguardi, volti, sembianze o fantocci di anime che tentano, a volte riuscendoci, di colmare un vuoto incolmabile. Vuoto che si muove nel sottosuolo dei miei pensieri. Un’assenza che  brucia e stilla piaghe sempre dolenti. Sono sola, non per volontà ma per dovere di nascita. Eppure vado avanti. Dimentico, quando posso, di avere qualcuno che ha il mio stesso sangue. Che è lontano o si allontana da me. Sovente mi piego alle voci di chi mi chiama. Ho orecchie per ascoltare ma non vengo ascoltata. Di parole sanguigne ne avrei a centinaia. Potrei scrivere un poema con il sangue che mi scorre nelle vene se non fosse che, oggi, ha un colore simile al vetro. Chi non crede alla mia tristezza lo vede rubicondo. Io, invece, posso percepirlo nella sua vera sostanza. Si muove e si affatica nel percorso, per darmi modo di sopravvivere ai giorni che mio padre ha ancora da vivere. Ebbene ora potrei chiedere perché. Perché la notte deve succedere al giorno? Perché le albe, costruite come una scenografia meravigliosa, poi devono dileguarsi quando il sole prende posto nel cielo? Perché se il tramonto mi inebria, questo deve finire trangugiato nel nero più cupo della sera senza neppure il ristoro delle stelle? Perché il mantello della brezza mattutina deve, per forza, lasciare evaporare gli aliti di vita dai fiori di quella radura, corolle che si inchinano al caldo d’agosto come pie donne all’ingresso di una chiesa deserta? Perché, se la luce del mattino carezza la pelle questa si lascia corrompere dai raggi e muta di colore? Tante, troppe domande mi scivolano nella mente ma non trovano la forma per pretendere risposte. Esecrabile è questo tempo, mi chiede costanti attenzioni e fende le mie radici. Lo fa con una terribile movenza. Piano. Senza dare troppo nell’occhio. Mi prende e mi spreme come se sapesse che domani avrà altra linfa da succhiare. Ed io mi lascio bere come se mi importasse poco o niente di rimanere con la gola secca. E’ paradossale. Non ho una goccia d’acqua per me stessa ma possiedo fonti inesauribili per chi mi chiede ristoro. Darei ogni singola parte di me stessa, di tutto ciò che possiedo, al resto del mondo, se solo mi spogliasse da questa solitudine che ho addosso. Ed anche lui, che aveva promesso di rimanermi accanto, si è celato, codardo, nella foschia più cupa di un mattino qualsiasi. Ha colto, o forse reciso, il fiore e lo ha lasciato cadere alle sue spalle, quando la fatica di una figlia si è scontrata con quella di essere moglie. Mi ha imposto una scelta ed io ho scelto la mia terra, le mie ossa, la mia famiglia. Oramai non mi importa più di tanto. Ed anche se ho contato ogni singola lacrima che è caduta sul terreno dei miei anni migliori, la forza che avevo e che ho nelle braccia mi ha sorretto e salvato prima di cadere nel precipizio della pazzia. Se sono ancora viva e se sono ancora sana di mente lo devo a me stessa, alla devozione di essere quella che sono senza maschere e senza inganni. Guardo il mio riflesso nello specchio. I capelli in disordine, qualche ruga intorno agli occhi, il volto stanco, eppure sono io. Quella è la faccia di chi mi ha dato i natali e se so di esistere lo devo a loro. Tento o provo a formare parole che non pronuncerò mai se non al cospetto del Signore. Di notte mi assale la paura. La paura di non farcela. La paura di soffrire ancora e così come l'avverto questa torna puntuale. Come quando è tornata a prendersi Lui, dopo mia madre. In quel momento il terrore ha forgiato un dolore sempre nuovo ed inverecondo. Un dolore che strappa e non si ricuce. Una ferita che genera sempre liquida sofferenza, senza far uscire una goccia di sangue. Rimane tutto dentro. Eppure dal dolore, che potrebbe essere la rovina per qualsiasi altra persona, non mi discosto e non cedo il passo al nemico. Rimango ferma nella mia dimora, nella mia vita ed attendo il nuovo giorno...senza fare troppe domande. 


giovedì 12 marzo 2015

PENSATE - In memoria di Aurelio Popoli


Un sostenitore dell’unicità. Questo sono sempre stato. Lo ripetevo alla noia. Forse esagerando nei toni. Cercavo di spingere il messaggio oltre quella coltre, statica, che è la vita di paese. Ogni persona è unica. Non esiste un individuo che si possa equiparare all’altro. Forse esiste qualcuno che abbia, nei tratti o nel carattere, qualche elemento di somiglianza. Eppure anche in quello si evidenzia la sua diversità. Quello che ci contraddistingue dagli animali è il cambiamento, l’evoluzione, ma soprattutto il ricordo. L’uomo si è evoluto e nell’evoluzione è già insito un cambiamento che è ancora in divenire. In ogni anima c’è una potenzialità. Come in ogni mente c’è una genialità. Non esistono geni ed ignoranti. Esiste solo chi riconosce quella potenzialità e la fa sua. Chi di quella potenzialità non se ne fa niente, perché vive la sua vita così com’è. Senza clamori. Così anche io, nel mezzo di questa duplice volontà, ho voluto creare la mia esistenza. Vissuta all’ombra di un campanile. Ad ogni suo rintocco, potevo sentire, forte e chiaro, l’eco della storia. Storia che si è impossessata di tutta la mia vita. Plasmata nelle pagine di un libro a me caro e sofferto. Ho cercato di fare, dell’insegnamento, il valore aggiunto alla mia unicità. Da quei rintocchi non sono mai fuggito. Rimasto dov’ero e dove mi trovo anche ora, che è l’ultima “ora” della mia vita. Non ho intenzione di fare testamento delle mie azioni. Di ricordare quali sono stati i miei passi sulla terra guardiese. Voglio solo tramandare un messaggio di amore. Un amore semplice. Che non ha pretese. Che spontaneamente si dovrebbe donare, senza chiederlo, né elemosinarlo. Amore che mi ha ricoperto e mi sta ricoprendo come un caldo piumone, allontanando il freddo. E quando la morte arriverà a chiamarmi per nome, risponderò come ad un appello in classe: presente! Per questo vi dico: Amate. Amate quello che siete. Amate voi stessi, ma amate chi da voi si discosta in tutto. Amate senza rifuggire la diversità di razza, classe o età. Amate l’uomo o la donna che vi stanno accanto. Di quell’amore non sarete mai privati. Di quell’amore avrete ricompensa. Se donerete amore, quello vi ritroverete nei momenti di grande dolore. Generare l’amore serve, ma serve, di più, coltivarlo ed accudirlo. Prendersene cura. Non basta mettere il seme nel terreno per far nascere una pianta. Serve la terra. Serve il calore della fioritura accudita. Come si accudisce una donna nel momento del parto. Serve l’acqua ed il suo giusto dosaggio. Né troppa, né poca. Serve la cura, la presenza. Solo da quello potrà nascere una pianta. Siate come siete ora, pieni di amore e di affetto. Curate i vostri cari. Non rimandate la vostra presenza. Il gelo che respirate nei periodi invernali non fatelo mai entrare nel vostro cuore. Dipanate la matassa della notte. Lasciatevi avvolgere dal sole. Prendete le ombre del crepuscolo e fatene fantocci. Esorcizzate la paura. Abbracciate il coraggio. Siate testimoni dei vostri affetti. Sorridete ai vostri nonni, ai vostri padri, alle vostre madri. Sorridete a quello che sarete domani. Ascoltateli. Fosse anche un inutile pensiero. Lasciateli guardare la vostra presenza. Non permettetegli di fissare l’assenza. E' l’uomo, dentro di noi, che chiede asilo. Che chiede di essere preso per mano e condotto fino all’ultimo passaggio del destino. Ricordatevi chi siete stati, ricordate il bambino che era stretto dentro di voi. Ricordate la voglia che aveva di giocare, sorridere, addormentarsi in un letto caldo. Ricordate chi siete stati. Ma pensate chi diverrete. Sia che finiate in un letto come questo, o che finiate i vostri giorni improvvisamente, chiedetevi come sarà. Come sarà morire nel ristoro dei propri cari. Come sarà morire senza nessuno che ti prenda per mano e accompagni la tua anima al trapasso. Tra i banchi di scuola, ai mie alunni, questo ho cercato di insegnare. Oggi quell’insegnamento mi sta visitando per l’ultima volta. Mi dice che tutto passerà in fretta. È il mio dottore. Lo conosco, mi conosce. Sa che ho paura. Non paura di morire, ma paura di abbandonare qualcuno. Così cura quella mia debolezza, prendendo per mano mia figlia. Abbracciandola stretta per non farla crollare dal dolore. Come lui altre braccia la stringono. Altri cuori la sostengono, asciugano le sue lacrime. Una giovane donna è seduta accanto al mio letto. Ha poggiato un rosario tra le mie mani. La sento pregare. Sento voci, parole, presenze. Quanta gente in questa stanza. Sembra una scuola. La mia scuola. Il vociare è prima inteso. Poi decresce. Lentamente diviene silenzio. Ora le parole non servono più a niente.    

martedì 3 marzo 2015

IL POTERE



A volte penso che nessuno sappia veramente cosa racchiuda il nostro corpo. Ma probabilmente ognuno comprende, anche se spesso non lo dice, quali siano realmente le proprie debolezze. Capire quello che ci disturba, ci devasta, ci distrugge o che, semplicemente, ci fa tremare ed inciampare nella paura, è magari meno complesso ed ha bisogno di meno fatica per essere rivelato. Perché rapportarsi con il dolore è quasi connaturato all’essere umano. Il dolore è una radice profonda che, non appena richiede linfa, pretende buona parte della nostra vita, se non tutta. E noi siamo pronti a dargliela, a volte senza fiatare, senza ribellarci. Per contro, quello che mi chiedo è se comprendiamo, esattamente o anche solo parzialmente, quali siano i nostri poteri. Poteri in grado di dare una svolta alle cose, svolta positiva intendo. Analizziamoci. Nel nostro corpo, o meglio, in una parte di questo, posta verso l’alto, tra il naso ed il mento, c’è un potere in grado di modificare il corso degli eventi, intorno e dentro di noi. Potere di cui, forse, sono consapevoli o inconsapevoli detentori i bambini. Da grandi, per ragioni che non sto qui ad elencare e che possono essere le più diverse, dimentichiamo di possederlo. E chi ancora riesce ad aver memoria dell’infanzia magari lo utilizza poco o male. Di che sto parlando? Non della bocca, non della lingua, non di quello che fuoriesce come parole, ma del sorriso. Ebbene, il sorriso ha un potere smisurato. Con il sorriso riusciamo ad irradiare tutte le qualità che ci costruiscono interiormente. Tra tutte, ne dico una, credo la più importante: la gentilezza. Dovremmo imparare a dispensare non soltanto parole ma sorrisi. A volte è difficile farci capire. Molti discorsi hanno bisogno di una estrema chiarezza da parte nostra ma anche di comprensione da parte dei nostri interlocutori. Eppure con un semplice sorriso riusciamo a far comprendere che vogliamo essere positivi, propositivi. Inoltre dovremmo concepire il sorriso come un invito, che facciamo agli altri, a conoscere chi siamo. Chi si cela dietro quel sorriso. Il sorriso apre la porta che ci tiene distanti dal mondo. La bocca, i denti, la lingua, l’espressione, le parole che ne escono, sono tutte collegate e legate alla persona che li detiene. Sorridendo però il volto, l’espressione si modifica. Qualcosa di dolce, di magico, si impossessa del modo di essere di chi lo fa, ma anche di chi lo riceve. E questa estensione della bocca, questo prolungamento della nostra più intima essenza, esprime come vogliamo essere riconosciuti. Il sorriso diventa la carta di identità della nostra anima. Qualcuno diceva che il nostro ornamento non dovrebbe consistere in vesti sontuose, gioielli, acconciature, ma dovrebbe essere il nostro spirito benigno e pacifico, quello che teniamo spesso occultato nel nostro cuore. Allora quale miglior modo di svelare chi siamo se non con un sorriso? Il sorriso dimostra la nostra disponibilità al contatto. L’assenza di paura. La capacità di relazionarci con il mondo esterno. Siamo e vogliamo essere inoffensivi. Ed anche se, nel linguaggio animale, “mostrare i denti”può essere un modo di ostentare la forza, nella cultura umana è un invito a presentarci in maniera autentica, genuina. Eppure, anche se siamo belli esteriormente, se non uniamo a questa condizione esteriore la virtù interiore di cui ho parlato prima, è come se fossimo un fiore senza profumo. Chi ha un bell’aspetto può essere piacevole da guardare, ma chi ha il dono ed il privilegio di una bellezza interiore, è in grado di lasciare una fragranza meravigliosa nella vita di tutti quelli che incontra. L’odio, la rabbia, non hanno spazio davanti alla forza immensa della gentilezza. Negli atti di gentilezza diamo ed esprimiamo il meglio di noi stessi nei confronti del prossimo. In realtà, anche il più piccolo atto di gentilezza dice molto di più di inutili parole. La gentilezza è uno di quei doni di grande valore che, il più delle volte, ci costa davvero poco. E qualora richiedesse impegno, ciò che ne riceviamo in cambio è un regalo sproporzionatamente superiore. Il sorriso, facendo leva sul dono della gentilezza, è il nostro potere più grande. Un potere in grado di cambiare il mondo. 

lunedì 23 febbraio 2015

LA SCORTA



Guardando il buio del soffitto che ci divide dalla pesantezza di cieli umidi, in quelle notti insonni che nessuno di noi ha mai contato, spesso ci poniamo delle domande. Domande che magari, ad occhi aperti e con la luce del sole, non siamo neanche in grado di formulare. Tanto il giorno è abbagliante ed i colori ci strappano, solo per una mera casualità, quella melanconia che appartiene al nostro essere più privato. Quell’essere che, nel nascondiglio notturno, ci sussurra chi siamo veramente. Cosa pretendiamo da noi stessi, cosa pretendiamo dagli altri, in una partita senza margini di errori ma ricolma di incertezze. Incertezze che generano paure. Dalla più piccola alla più grande. E quella che ci travolge, come uno scacco matto al re o alla regina è forse la paura più grande: la paura di essere felici. Così quando ci interroghiamo sulle ragioni che ci portano a dire, o a pensare, che forse saremmo  stati più felici da soli, il più delle volte la risposta esce senza una logica ben definita. Come una radice che spacca, improvvisamente, il terreno. Tutti i terreni, anche quelli più duri e cementificati. Forse lo diciamo perché pensiamo che quando ci doniamo  completamente, quando amiamo senza limiti o confini, e poi la fine arriva a mettere un punto di sutura alle nostre emozioni allora, forse, non siamo in grado di farcela. Allora pensiamo che, forse, è decisamente più facile, o meglio conveniente, stare da soli. Questo perché se ci affidiamo ed impariamo ad aver bisogno di qualcuno, di qualcosa, dell’amore insomma, e poi questo, magari, si traduce in un’illusione, un miraggio che per un attimo prende il senso del reale e poi ritorna evanescente, cosa ci succede? Se ci appoggiamo all’amore e fondiamo su questa condizione tutta o buona parte della nostra vita, cosa succede se alla fine ci vengono tolte le fondamenta mentre siamo intenti a costruire il tetto? La domanda è sempre la stessa. Quando, pur non decidendo di amare, amiamo lo stesso… potremmo mai sopravvivere al dolore che sopraggiunge quando non veniamo amati allo stesso modo oppure veniamo abbandonati? Perdere l’amore  è una lesione inferta con precisione chirurgica al nostro organo principale, il più importante ma il più debole e senza protezioni. Ammettiamolo. Chi ha inventato il cuore lo ha fatto con troppa superficialità. Non ha creato nessuna protezione. Non ha creato un lucchetto che, una volta aperto, si possa chiudere a chiave. Non ha creato né mani, né dita, per evitare un abbandono. Un distacco. E quando qualcuno entra non possiamo fare quasi nulla per trattenerlo, quando decide di andarsene. Se vuole restare deve farlo autonomamente, senza che noi possiamo fare o dire nulla per fermarlo. E’ vero. Il cuore ha una porta girevole ma ha sempre un interno di argilla. Prende la forma del suo inquilino. Si conforma così bene a quella persona che  quando questa decide di andarsene, se decide di farlo, quello che rimane è un cuore diverso. Il cuore non è in grado di trattare l’uscita come una cosa naturale. Non è un albergo dove, una volta fatto il check-out, si rifà la stanza, si cambiano le lenzuola, le asciugamani, si pulisce tutto per garantire l’ingresso di nuovi ospiti. Eppure non credo sia una questione di chi entra, credo, piuttosto, sia una questione di chi decidiamo di far entrare e del rispetto che quella persona decide di avere, non solo per quello che è un nostro organo vitale, ma per noi stessi. Ma, tralasciando le azioni e l’accortezza che ci aspettiamo da chi entra (la dipendenza è sempre un grave errore) sarebbe comodo se si potesse cambiare, quell’organo oramai modellato ed impregnato del vecchio inquilino. Già, cambiare e prenderne uno nuovo...se solo avessimo ciò che per le auto è una ruota e per noi potrebbe essere un cuore di scorta.

martedì 17 febbraio 2015

ENDOCITOSI



A volte diamo ascolto alla parte di noi più insolente, tenace, dura da scalfire. Quella che ci spinge a fare delle cose che non sempre hanno un risultato definito. Come quando proviamo ad analizzare qualcosa che di per sé non è semplice da analizzare, né conveniente. Ci improvvisiamo ricercatori di quella molecola che, una volta estrapolata, potrebbe essere in grado di cambiare il corso delle nostre esperienze oppure abbozziamo una risposta, decisamente parziale, per chiarire dove la natura ha fatto uno sbaglio. Eppure quando il dolore arriva e ci colpisce lo fa con una silenziosa potenza, o meglio prepotenza. E, da qualsiasi angolazione ci colpisca, riesce ad espandersi a trecentosessanta gradi. Allora, quasi inebetiti da quello che è appena successo, proviamo a strapparne una piccolissima parte. L’intento assurdo è metterlo su un vetrino e studiarlo, capirci qualcosa, trovare una cura. Ma si può analizzare qualcosa che ha una vita ed è attivo soltanto se è dentro di noi? Non credo sia possibile. Il dolore quando arriva, quando entra, disintegrando ogni barriera posta a difesa del nostro cuore, diventa parte di noi. Il dolore genera una sorta di endocitosi cellulare dove le nostre cellule internalizzano le molecole della sofferenza e, modificandosi nella forma della membrana plasmatica, creano uno spazio per racchiudere quel materiale venuto dall’esterno. Ed anche se ci colpisce con forme diverse (una fitta leggera, una dose di amarezza, una pulsazione indolente che va e viene e ad ogni ritorno sembra sempre più acuta e pesante) si infila così bene nelle fasce muscolari sino a penetrare nelle cellule, diventando parte del nostro dna. Allora come affrontiamo questo stravolgimento organico? Come affrontiamo il dolore? Dipende da noi. Alcuni credono che sia utile farsi anestetizzare dal dolore, per sopportarlo bisogna quasi assuefarsi. Altri lo accettano come un ingresso obbligatorio, senza possibilità di fuga. Altri lo elaborano trovando il punto di sutura di quel mondo oramai ridotto a pezzettini. Altri lo ignorano. Nonostante la ferita sanguini e sia infettata non avvertono nessun sentore di putrefazione. Per altri, invece, il miglior modo di affrontare il dolore è imparare a conoscerlo ed iniziare quella che potremmo qualificare come: convivenza forzata. Ad ogni modo non credo che esistano soluzioni univoche né risposte semplici da dare per affrontare questo argomento. Magari bisognerebbe fare un profondo respiro e contare fino a dieci. Magari al dieci il dolore trova un angolo segreto, un angolo sconosciuto a noi stessi, e li si nasconde. Eppure, anche se la maggior parte delle volte il dolore si sopporta, altre volte, quando uno meno se lo aspetta, ci colpisce basso, senza ritegno, senza rispettare le regole del gioco e non ci lascia più in pace. Questo accade quando a ferirci sono le persone che amiamo. Forse è per questo che l’unica risposta da dare al dolore potrebbe essere la convivenza. Perché la verità è che ogni volta che lo analizzi, lo elabori o lo accetti, la vita te ne porta sempre altro. Il carico continua all’infinito. Senza margini di tregua. Qualcuno dice: “per vivere bene, o solo degnamente, perdona chi ti ha portato quel dolore e…dimentica”. Sembra un buon consiglio ma non molto pratico. Quando qualcuno ci ferisce la prima sensazione è quella di restituire il dolore magari moltiplicato. Ma così facendo perdiamo di vista un elemento fondamentale. Chi ci ferisce non ci ama, altrimenti non lo avrebbe fatto. E restituire lo stesso dolore non solo non è logico ma è praticamente impossibile. Significherebbe che quella persona dovrebbe avere nel cuore la stessa emozione e sensazione che portiamo nel nostro. E non lo dico io che è una guerra persa in partenza, ci siete arrivati da soli.   

lunedì 9 febbraio 2015

LA PARTE


Ci hanno portato a credere, lo hanno fatto sempre, che pensare positivo, sorridere, aiuti a vivere meglio. Ce lo hanno inculcato sin da bambini. Anche quando sorridere era difficile perché, magari, ti eri appena sbucciato un ginocchio sull’asfalto bollente della spensieratezza più accesa, oppure il dottore ti aveva sparato un obbligo di legge chiamato vaccino (di quelli da perdere il fiato col pianto) sulla tua natica migliore. Ed a guardarli bene non potevi far altro che ridere, mentre loro cercavano di oscurare quel momento di dolore con una faccia buffa. Il più delle volte le facce erano quelle dei nostri genitori. Forse perché incapaci, loro, di sopportare un nostro momento di dolore. Da adulti invece perdiamo questi clown improvvisati e, per contro, siamo costretti a sentire, con le nostre orecchie, quasi assuefatte, chi ci esorta a guardare il lato positivo delle cose. A vedere quello che chiamano volgarmente: il bicchiere mezzo pieno. Che poi non ho capito: mezzo pieno di cosa? Nessuno lo ha mai scoperto veramente. Eppure capita, il più delle volte, che la realtà può ostacolare la capacità che abbiamo di recitare la cosiddetta Parte Felice. Parte che ci viene imposta sempre dal filosofo di turno. Succede che la vita accelera e siamo incapaci di stare al suo passo. Una malattia bussa alla nostra porta e siamo costretti ad aprire, anche senza volerlo. La persona che aveva giurato di amarci in eterno, in una curva prende la c.d. sbandata, finisce nel fosso delle pulsioni e ci tradisce. Gli amici, o quelli che chiamavamo così abusando di questa terminologia purissima, si allontanano dal nostro cammino, deludendoci. I  genitori, anche quelli migliori, muoiono. Ed in un attimo, in pochi secondi, cade la maschera dell’essere felici ad ogni costo. O fare finta di esserlo. La speranza scompare senza dare nessuna spiegazione. E’ in momenti come questi che la parte felice si denuda e mostriamo la faccia più autentica, quella che soffre, forse quella più consona all’essere umano. Eppure se  chiediamo alle persone per strada cosa vogliono dalla vita, il più delle volte risponderanno: “essere felici”. Quasi un’ossessiva ricerca, nella spasmodica incapacità di affrontare il dolore e vincerlo, facendo amicizia con questa oscura presenza. Eppure è questa immaginaria, quanto ideale, aspirazione o speranza diffusa all’essere felice, che ci tiene ad un confine tollerabile dalla pazzia. Ma probabilmente più proviamo a raggiungere questo stato e più perdiamo di vista cosa sia veramente la felicità. Più la rincorriamo e più la vediamo come qualcosa di inafferrabile. Quasi inconsistente. Quando invece, magari ce l’avevamo di fianco o di fronte. Ottusi interpreti di una parte che non è stata ancora scritta da nessuno. Alla ricerca di qualcosa che è al di là di noi, non vediamo quello che abbiamo più vicino a noi. Poi, verso sera, quando la vita ha fatto già abbastanza danni e gli anni sono quelli che sono, magari, realizziamo (e sono pochi quelli che ne hanno consapevolezza) che la felicità era stata li per tutto il tempo. Non nei nostri sogni. Non nelle nostre speranze. Ma nelle cose che ci circondavano. In quelle cose semplici che ogni persona sarebbe riuscita a vedere ed apprezzare se non fossimo diventati ciechi per convenzione sociale. Alla ricerca di quello che sembrava irraggiungibile e che magari era ed è sempre stato alla nostra portata: vivere senza fingere.

lunedì 26 gennaio 2015

UNA CURVA



Se mai esistono delle parole per capire il senso della vita, non ce ne sono, almeno io non ne conosco, per comprendere il senso della morte. 
Se possiamo analizzare la vita è perché abbiamo ancora la vista negli occhi, il suono nelle orecchie, l’aria nei polmoni, le pulsazioni nel cuore, il sangue che scorre nelle vene, l’intelletto che mette in moto la ragione, le mani che si muovono ad articolare pensieri, le gambe che non trattengono una corsa, dei passi o un piccolo movimento. Armati di parole, delle più diverse ed elaborate o magari delle più semplici e scontate, possiamo raccontare ogni tipo di esperienza terrena. Farne partecipe il mondo. 
Se riusciamo a definire la vita è perché siamo ancora attori di quella vita. Perché possiamo fare di quella esperienza tesoro e trasmetterla a chi ancora non l’ha vissuta. Perché possiamo capire solo ciò che ci è dato capire. Eppure con la morte questa capacità ci sfugge. 
La morte ha qualcosa di paradossale. La morte è un aggettivo ignoto di cui conosce il significato soltanto chi l’ha sentita nella carne. Chi l’ha fatta sua nel corpo. Sembra un controsenso ma è così. Solo chi ha vissuto la morte sa cosa vuol dire morire. Per il resto, chi rimane, quando la morte ci passa soltanto di fianco, rapendo l’esistenza di una persona a noi cara, non riesce a comprenderne il senso. Magari tentiamo, anche se in maniera imprecisa, di interrogarci, di elaborare, di capire. Ma capire cosa? Si può capire qualcosa che è a noi sconosciuta? Si può capire qualcosa che ci toglie il fiato, le forze e ci lascia immobili, muti e per di più sottoterra? Se esiste una spiegazione biologica non esiste una spiegazione logica che riusciamo ad accettare. 
Per Tiziana doveva essere l’inizio del nuovo anno ed invece la fine era in attesa del suo tributo più grande. Così, in un’ incredula mattina di gennaio, la morte era pronta, nell’angolo, ad aspettarla. Ha atteso che si dirigesse verso di lei. Non ha mosso un passo. Sapeva che presto avrebbe svoltato. E non ha pensato, neanche per un attimo, di guardare altrove, di spostarsi. Non poteva fare nulla per modificare quel percorso eppure il pensiero terreno non comprende e non comprenderà mai il perché di questo sacrificio. Non accetta né accetterà mai il significato della sua presenza. Ma, voglio pensare che quando la morte le avrà mostrato la curva dolorosa da prendere avrà avuto, da lei, una reazione diversa. Il suo coraggio l’avrà travolta. Sorpresa. La sua forza avrà scosso anche il senso stesso della morte. Lei che ha sempre amato la vita. Che l’ha sempre celebrata, l’avrà accolta con fierezza. Accettando quello che doveva essere. Come chi sa di dover bere da quel calice amaro per prendere il suo posto in un altro mondo, avere un compenso eterno più grande di quello terreno. Quel mondo che, per chi crede, si chiama Regno dei Cieli. Così avrà salutato, con uno sguardo umido ed un abbraccio infinito chi avrebbe lasciato. Le sue ragioni di vita oltre la morte: i suoi figli, i suoi genitori, suo marito. Ed in quel momento di terrore e disperazione lei avrà sorriso lo stesso. Avrà sorriso alla morte. Ed i suoi occhi avranno brillato, e brillano ancora adesso, anche se chiusi. 
Perché Titti era così. Riusciva a brillare anche al buio. Ed il suo ricordo, il suo coraggio, brilleranno per sempre nel cuore di chi l’ha amata o anche semplicemente conosciuta. 
Perché la morte è la curva della strada. Morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento il tuo passo esistere come io esisto. La terra è fatta di cielo. La menzogna non ha nido. Nessuno si è mai perduto. Tutto è verità e via” (F. Pessoa).


In memoria di Tiziana Scarano


sabato 3 gennaio 2015

DOLCE AMARO


Spinte leggermente da una brezza estiva, mentre il sole donava il suo carico di caldo alla terra e le poche nuvole si rincorrevano per fondersi e scomparire, sembrava quasi di vederle. Camminavano costeggiando lo stesso sentiero. Di tanto in tanto si fermavano per osservarsi, badando bene di stare alla giusta distanza. Eguali nelle fattezze e movenze femminili ma ben diverse, se non opposte, in tutto. Specialmente nel carattere. Gli occhi apparentemente simili nel taglio e grandezza ma difformi nei colori. Colori che si rispecchiavano nei loro vestiti che avevano, anch’essi, una diversa fattura. Il primo cucito con intrecci di seta ed ali di farfalle, con fasci di colori arcobaleno, dai più tenui a quelli più intensi, a creare riflessi meravigliosi, sempre cangianti. La gonna, concepita con spacchi a diverse altezze, sembrava attorcigliarsi e snodarsi tra le gambe filiformi, sottomessa alla danza ritmica del vento, tenuta alta in vita con un laccio di margherite fresche. A questa era unita una camicia, con preziosi inserti in pizzo, che lasciava le spalle scoperte. Il secondo cucito con scampoli di lana grezza e fuliggine, con la monotona prevalenza del grigio e qualche soffio di nero sparso a macchia. Nero che dava pesantezza ed immobilità alla gonna che partiva da un bustino steccato, quasi una sagoma di creta sul corpo. Erano dirette verso la stessa meta e mentre si muovevano tenevano gli occhi puntati sulla persona che, al centro della strada, camminava insieme a loro. Partite nello stesso istante, nel momento in cui era stato stabilito che tutto avrebbe avuto inizio. L’accortezza era quella di non farsi notare. Essere presenti, attive, ma silenziose. L’incipit era stato seguire una neonata che cominciava a gattonare sul pavimento di casa. Poi una bambina che si dirigeva a prendere posto in classe, nella sua prima esperienza scolastica. Ed ancora una ragazza che dava i primi passi di danza. Ed ora quella donna che si incamminava verso l’altare. In quel nuovo percorso, ma non soltanto in quello, dovevano essere, ed era questo il loro disegno, una sorta di presenza assenza. Una tesi ed un’antitesi, silenziosa e fragorosa: quando una si fosse avvicinata l’altra avrebbe dovuto indietreggiare. Un obbligatorio scambio di posizioni, intenso e faticoso, che trasmigrava e si riproduceva nel tempo. Che non trovava riposo e ristoro neanche di notte. 
Era quello il grande cammino della vita dove FELICITA’ e TRISTEZZA si muovevano nella stessa direzione, tenendosi ai rispettivi angoli delle strade. Strade percorse e battute, senza sosta, da ogni uomo e donna che si rispetti. 
Così, nel solstizio del quotidiano, quando la tristezza si avvicina per avvolgerci e sottometterci, opponendo un fiume di lacrime nere, la felicità cerca di non farsi travolgere dalla piena, si scansa e trova riparo altrove. Riparo necessario per riprendere le forze e tornare rinvigorita nel momento opportuno o quando meno ce lo aspettiamo. E nell’attimo in cui questa riesce a riprendere possesso del mondo che le era stato sottratto, sgomberando il campo, reso arido dalla battaglia, dai detriti del dolore, è allora che innesta nuova linfa nel terreno. Soffia, sulle nostre bocche asfittiche, aria purissima, tramutando in un sorriso lo sconforto, lo sgomento. In quel momento la tristezza deve lasciare il campo, ma non scomparire. Si nasconde dietro i cespugli, osserva la scena e medita vendetta. Così, in un gioco a nascondino e farsi tana a vicenda, il destino ci prende, le prende e, attraverso quell’incessante sfida, ci fa vivere un carosello di emozioni. 
Senza questo scontro perenne, senza questa battaglia sconfinata, nulla avrebbe senso. O meglio. Nulla avrebbe il senso che dovrebbe avere. Nulla che valga la pena di essere raccontato. Perché è solo dal confronto col dolore, con i suoi innumerevoli spettri, che si comprende la gioia e la sua più intima essenza. Perché la vita è un dolce amaro. 
Dove l’amaro è l’ingrediente necessario per farci apprezzare l’infinita sua dolcezza.   

domenica 14 dicembre 2014

LA TRACCIA

Mi hai detto: “Non fissarmi così” ma nei tuoi occhi mi sono perso lo stesso e ho rivisto noi. 
La nostra vita ed ogni singolo momento trascorso insieme. 
Quando mi hai stretto forte ho potuto sentire il tuo cuore. 
I battiti erano simili ai miei: accelerati. 
Rompevano il silenzio di quel momento, insieme all’affannoso respiro del presente. 
Avevi l’iride lucida, liquida e mi guardavi in modo diverso. 
Diverso da come mi guardasti la prima volta che sono apparso nella tua vita. 
Avevi lo sguardo di chi è travolto dalle onde e cerca solo di non affogare, facendo movimenti scomposti. 
Tentando di aggrapparsi al buio di quella tempesta privata che, consapevolmente, cancella ogni traccia di passato. 
Buio che rompe, con inaudita violenza, le mura di questo tuo mondo fatto di gesso e con un soffio alza polvere asfissiante. 
Polvere che blocca le vie aeree, che limita le facoltà di scelta. 
Che tenta di sottomettere il mio futuro a cumuli di terra e che, con un gesto vorace, mi priva di ogni cosa, anche di te. 
E più ti guardo e più non trovo traccia. 
La traccia del nostro amore. 
Di quel legame che ci ha reso carne della stessa carne. 
Di quel sentimento che porta ogni essere umano a fondersi per l’altro e nell’altro, in un continuo divenire. Ma di più, non trovo traccia di pentimento. 
Solo istinto e forse neanche quello. 
Perché non esiste l’istinto di rinnegare se stessi. 
Di strappare il cordone e sputare il sangue sul pavimento. 
Di bruciare l’innocenza in un centesimo di rabbia. 
Di uccidere in una volta due volte, due vite: la mia, la tua. 
Mamma, quando mi hai stretto forte ho conosciuto la morte. Morte che mi hai offerto, dopo avermi portato in dono la vita, con lo stesso urlo. 
Stavolta prolungato e solitario. 
Urlo che, rimbalzando sulle pareti di casa, è ritornato nella tua gola, soffocando, in un colpo solo, due anime. 
Urlo destinato a ripetersi dietro le sbarre, fino alla fine dei tuoi giorni. 
Mi consola l’idea di non essere mai stato tuo. 
Neanche adesso. 
Adesso che ritorno al Padre, spostando piano nuvole di cristallo rosa, in questa mattina soleggiata di dicembre. 
Adesso che ho la ricompensa della resurrezione per aver vissuto l’inferno tra le tue braccia.