Ci hanno portato a credere, lo hanno fatto sempre, che pensare positivo, sorridere, aiuti a vivere meglio. Ce lo hanno inculcato sin da bambini. Anche quando sorridere era difficile perché, magari, ti eri appena sbucciato un ginocchio sull’asfalto bollente della spensieratezza più accesa, oppure il dottore ti aveva sparato un obbligo di legge chiamato vaccino (di quelli da perdere il fiato col pianto) sulla tua natica migliore. Ed a guardarli bene non potevi far altro che ridere, mentre loro cercavano di oscurare quel momento di dolore con una faccia buffa. Il più delle volte le facce erano quelle dei nostri genitori. Forse perché incapaci, loro, di sopportare un nostro momento di dolore. Da adulti invece perdiamo questi clown improvvisati e, per contro, siamo costretti a sentire, con le nostre orecchie, quasi assuefatte, chi ci esorta a guardare il lato positivo delle cose. A vedere quello che chiamano volgarmente: il bicchiere mezzo pieno. Che poi non ho capito: mezzo pieno di cosa? Nessuno lo ha mai scoperto veramente. Eppure capita, il più delle volte, che la realtà può ostacolare la capacità che abbiamo di recitare la cosiddetta Parte Felice. Parte che ci viene imposta sempre dal filosofo di turno. Succede che la vita accelera e siamo incapaci di stare al suo passo. Una malattia bussa alla nostra porta e siamo costretti ad aprire, anche senza volerlo. La persona che aveva giurato di amarci in eterno, in una curva prende la c.d. sbandata, finisce nel fosso delle pulsioni e ci tradisce. Gli amici, o quelli che chiamavamo così abusando di questa terminologia purissima, si allontanano dal nostro cammino, deludendoci. I genitori, anche quelli migliori, muoiono. Ed in un attimo, in pochi secondi, cade la maschera dell’essere felici ad ogni costo. O fare finta di esserlo. La speranza scompare senza dare nessuna spiegazione. E’ in momenti come questi che la parte felice si denuda e mostriamo la faccia più autentica, quella che soffre, forse quella più consona all’essere umano. Eppure se chiediamo alle persone per strada cosa vogliono dalla vita, il più delle volte risponderanno: “essere felici”. Quasi un’ossessiva ricerca, nella spasmodica incapacità di affrontare il dolore e vincerlo, facendo amicizia con questa oscura presenza. Eppure è questa immaginaria, quanto ideale, aspirazione o speranza diffusa all’essere felice, che ci tiene ad un confine tollerabile dalla pazzia. Ma probabilmente più proviamo a raggiungere questo stato e più perdiamo di vista cosa sia veramente la felicità. Più la rincorriamo e più la vediamo come qualcosa di inafferrabile. Quasi inconsistente. Quando invece, magari ce l’avevamo di fianco o di fronte. Ottusi interpreti di una parte che non è stata ancora scritta da nessuno. Alla ricerca di qualcosa che è al di là di noi, non vediamo quello che abbiamo più vicino a noi. Poi, verso sera, quando la vita ha fatto già abbastanza danni e gli anni sono quelli che sono, magari, realizziamo (e sono pochi quelli che ne hanno consapevolezza) che la felicità era stata li per tutto il tempo. Non nei nostri sogni. Non nelle nostre speranze. Ma nelle cose che ci circondavano. In quelle cose semplici che ogni persona sarebbe riuscita a vedere ed apprezzare se non fossimo diventati ciechi per convenzione sociale. Alla ricerca di quello che sembrava irraggiungibile e che magari era ed è sempre stato alla nostra portata: vivere senza fingere.
lunedì 9 febbraio 2015
lunedì 26 gennaio 2015
UNA CURVA
Se mai esistono delle parole per capire il senso della vita, non ce ne sono, almeno io non ne conosco, per comprendere il senso della morte.
Se possiamo analizzare la vita è perché abbiamo ancora la vista negli occhi, il suono nelle orecchie, l’aria nei polmoni, le pulsazioni nel cuore, il sangue che scorre nelle vene, l’intelletto che mette in moto la ragione, le mani che si muovono ad articolare pensieri, le gambe che non trattengono una corsa, dei passi o un piccolo movimento. Armati di parole, delle più diverse ed elaborate o magari delle più semplici e scontate, possiamo raccontare ogni tipo di esperienza terrena. Farne partecipe il mondo.
Se riusciamo a definire la vita è perché siamo ancora attori di quella vita. Perché possiamo fare di quella esperienza tesoro e trasmetterla a chi ancora non l’ha vissuta. Perché possiamo capire solo ciò che ci è dato capire. Eppure con la morte questa capacità ci sfugge.
La morte ha qualcosa di paradossale. La morte è un aggettivo ignoto di cui conosce il significato soltanto chi l’ha sentita nella carne. Chi l’ha fatta sua nel corpo. Sembra un controsenso ma è così. Solo chi ha vissuto la morte sa cosa vuol dire morire. Per il resto, chi rimane, quando la morte ci passa soltanto di fianco, rapendo l’esistenza di una persona a noi cara, non riesce a comprenderne il senso. Magari tentiamo, anche se in maniera imprecisa, di interrogarci, di elaborare, di capire. Ma capire cosa? Si può capire qualcosa che è a noi sconosciuta? Si può capire qualcosa che ci toglie il fiato, le forze e ci lascia immobili, muti e per di più sottoterra? Se esiste una spiegazione biologica non esiste una spiegazione logica che riusciamo ad accettare.
Per Tiziana doveva essere l’inizio del nuovo anno ed invece la fine era in attesa del suo tributo più grande. Così, in un’ incredula mattina di gennaio, la morte era pronta, nell’angolo, ad aspettarla. Ha atteso che si dirigesse verso di lei. Non ha mosso un passo. Sapeva che presto avrebbe svoltato. E non ha pensato, neanche per un attimo, di guardare altrove, di spostarsi. Non poteva fare nulla per modificare quel percorso eppure il pensiero terreno non comprende e non comprenderà mai il perché di questo sacrificio. Non accetta né accetterà mai il significato della sua presenza. Ma, voglio pensare che quando la morte le avrà mostrato la curva dolorosa da prendere avrà avuto, da lei, una reazione diversa. Il suo coraggio l’avrà travolta. Sorpresa. La sua forza avrà scosso anche il senso stesso della morte. Lei che ha sempre amato la vita. Che l’ha sempre celebrata, l’avrà accolta con fierezza. Accettando quello che doveva essere. Come chi sa di dover bere da quel calice amaro per prendere il suo posto in un altro mondo, avere un compenso eterno più grande di quello terreno. Quel mondo che, per chi crede, si chiama Regno dei Cieli. Così avrà salutato, con uno sguardo umido ed un abbraccio infinito chi avrebbe lasciato. Le sue ragioni di vita oltre la morte: i suoi figli, i suoi genitori, suo marito. Ed in quel momento di terrore e disperazione lei avrà sorriso lo stesso. Avrà sorriso alla morte. Ed i suoi occhi avranno brillato, e brillano ancora adesso, anche se chiusi.
Perché Titti era così. Riusciva a brillare anche al buio. Ed il suo ricordo, il suo coraggio, brilleranno per sempre nel cuore di chi l’ha amata o anche semplicemente conosciuta.
Perché la morte “è la curva della strada. Morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento il tuo passo esistere come io esisto. La terra è fatta di cielo. La menzogna non ha nido. Nessuno si è mai perduto. Tutto è verità e via” (F. Pessoa).
In memoria di Tiziana Scarano
sabato 3 gennaio 2015
DOLCE AMARO
Spinte leggermente da una brezza estiva, mentre il sole donava il suo carico di caldo alla terra e le poche nuvole si rincorrevano per fondersi e scomparire, sembrava quasi di vederle. Camminavano costeggiando lo stesso sentiero. Di tanto in tanto si fermavano per osservarsi, badando bene di stare alla giusta distanza. Eguali nelle fattezze e movenze femminili ma ben diverse, se non opposte, in tutto. Specialmente nel carattere. Gli occhi apparentemente simili nel taglio e grandezza ma difformi nei colori. Colori che si rispecchiavano nei loro vestiti che avevano, anch’essi, una diversa fattura. Il primo cucito con intrecci di seta ed ali di farfalle, con fasci di colori arcobaleno, dai più tenui a quelli più intensi, a creare riflessi meravigliosi, sempre cangianti. La gonna, concepita con spacchi a diverse altezze, sembrava attorcigliarsi e snodarsi tra le gambe filiformi, sottomessa alla danza ritmica del vento, tenuta alta in vita con un laccio di margherite fresche. A questa era unita una camicia, con preziosi inserti in pizzo, che lasciava le spalle scoperte. Il secondo cucito con scampoli di lana grezza e fuliggine, con la monotona prevalenza del grigio e qualche soffio di nero sparso a macchia. Nero che dava pesantezza ed immobilità alla gonna che partiva da un bustino steccato, quasi una sagoma di creta sul corpo. Erano dirette verso la stessa meta e mentre si muovevano tenevano gli occhi puntati sulla persona che, al centro della strada, camminava insieme a loro. Partite nello stesso istante, nel momento in cui era stato stabilito che tutto avrebbe avuto inizio. L’accortezza era quella di non farsi notare. Essere presenti, attive, ma silenziose. L’incipit era stato seguire una neonata che cominciava a gattonare sul pavimento di casa. Poi una bambina che si dirigeva a prendere posto in classe, nella sua prima esperienza scolastica. Ed ancora una ragazza che dava i primi passi di danza. Ed ora quella donna che si incamminava verso l’altare. In quel nuovo percorso, ma non soltanto in quello, dovevano essere, ed era questo il loro disegno, una sorta di presenza assenza. Una tesi ed un’antitesi, silenziosa e fragorosa: quando una si fosse avvicinata l’altra avrebbe dovuto indietreggiare. Un obbligatorio scambio di posizioni, intenso e faticoso, che trasmigrava e si riproduceva nel tempo. Che non trovava riposo e ristoro neanche di notte.
Era quello il grande cammino della vita dove FELICITA’
e TRISTEZZA si muovevano nella stessa direzione, tenendosi ai rispettivi angoli
delle strade. Strade percorse e battute, senza sosta, da ogni uomo e donna che
si rispetti.
Così, nel solstizio del quotidiano, quando la tristezza si
avvicina per avvolgerci e sottometterci, opponendo un fiume di lacrime nere, la
felicità cerca di non farsi travolgere dalla piena, si scansa e trova riparo
altrove. Riparo necessario per riprendere le forze e tornare rinvigorita nel
momento opportuno o quando meno ce lo aspettiamo. E nell’attimo in cui questa
riesce a riprendere possesso del mondo che le era stato sottratto, sgomberando
il campo, reso arido dalla battaglia, dai detriti del dolore, è allora che innesta
nuova linfa nel terreno. Soffia, sulle nostre bocche asfittiche, aria purissima,
tramutando in un sorriso lo sconforto, lo sgomento. In quel momento la
tristezza deve lasciare il campo, ma non scomparire. Si nasconde dietro i
cespugli, osserva la scena e medita vendetta. Così, in un gioco a nascondino e
farsi tana a vicenda, il destino ci prende, le prende e, attraverso quell’incessante
sfida, ci fa vivere un carosello di emozioni.
Senza questo scontro perenne,
senza questa battaglia sconfinata, nulla avrebbe senso. O meglio. Nulla avrebbe
il senso che dovrebbe avere. Nulla che valga la pena di essere raccontato.
Perché è solo dal confronto col dolore, con i suoi innumerevoli spettri, che si
comprende la gioia e la sua più intima essenza. Perché la vita è un dolce
amaro.
Dove l’amaro è l’ingrediente necessario per farci apprezzare l’infinita sua
dolcezza.
domenica 14 dicembre 2014
LA TRACCIA
Mi hai
detto: “Non fissarmi così” ma nei tuoi occhi mi sono perso lo stesso e ho
rivisto noi.
La nostra vita ed ogni singolo momento trascorso insieme.
Quando
mi hai stretto forte ho potuto sentire il tuo cuore.
I battiti erano simili ai
miei: accelerati.
Rompevano il silenzio di quel momento, insieme all’affannoso
respiro del presente.
Avevi l’iride lucida, liquida e mi guardavi in modo
diverso.
Diverso da come mi guardasti la prima volta che sono apparso nella tua
vita.
Avevi lo sguardo di chi è travolto dalle onde e cerca solo di non
affogare, facendo movimenti scomposti.
Tentando di aggrapparsi al buio di
quella tempesta privata che, consapevolmente, cancella ogni traccia di passato.
Buio che rompe, con inaudita violenza, le mura di questo tuo mondo fatto di gesso
e con un soffio alza polvere asfissiante.
Polvere che blocca le vie aeree, che
limita le facoltà di scelta.
Che tenta di sottomettere il mio futuro a cumuli
di terra e che, con un gesto vorace, mi priva di ogni cosa, anche di te.
E più
ti guardo e più non trovo traccia.
La traccia del nostro amore.
Di quel legame
che ci ha reso carne della stessa carne.
Di quel sentimento che porta ogni
essere umano a fondersi per l’altro e nell’altro, in un continuo divenire. Ma
di più, non trovo traccia di pentimento.
Solo istinto e forse neanche quello.
Perché non esiste l’istinto di rinnegare se stessi.
Di strappare il cordone e
sputare il sangue sul pavimento.
Di bruciare l’innocenza in un centesimo di rabbia.
Di uccidere in una volta due volte, due vite: la mia, la tua.
Mamma, quando mi
hai stretto forte ho conosciuto la morte. Morte che mi hai offerto, dopo avermi
portato in dono la vita, con lo stesso urlo.
Stavolta prolungato e solitario.
Urlo che, rimbalzando sulle pareti di casa, è ritornato nella tua gola, soffocando,
in un colpo solo, due anime.
Urlo destinato a ripetersi dietro le sbarre, fino
alla fine dei tuoi giorni.
Mi consola l’idea di non essere mai stato tuo.
Neanche adesso.
Adesso che ritorno al Padre, spostando piano nuvole di cristallo
rosa, in questa mattina soleggiata di dicembre.
Adesso che ho la ricompensa
della resurrezione per aver vissuto l’inferno tra le tue braccia.
giovedì 11 dicembre 2014
LA SCELTA
Ad
ogni suo richiamo la vita rispondeva senza darle modo di replicare.
Era un
abbozzo di dialogo che si interrompeva ad ogni sussulto di fuga e tutto si
mascherava di incredulità.
Così lei rimaneva sempre orfana di parole ed in
preda alle sue più terribili paure.
Era così assuefatta da quel nulla che ogni
cosa intorno prendeva le forme di quello che in realtà non era.
Così la
tranquillità dei giorni diventava un cadavere in putrefazione.
La ragione
diventava un assurdo urlo nell’illusione.
La felicità rimaneva relegata ad una
semplice comparsa che, di tanto in tanto, faceva ingresso nella sua esistenza
senza programmare mai un motivo per ritornare.
Trascorreva le sue giornate tra
le sbarre di una gabbia costruitale dal destino.
In quella vita che non aveva
mai voluto vivere ma che viveva solo per paura della libertà o forse per timore
di non essere capita, compresa, da chi doveva proteggerla ed in realtà l’aveva
costretta a scegliere qualcosa che non le apparteneva.
Passarono così gli anni
e le ragioni che la tenevano legata man mano si affievolivano sino a diventare
poca cosa rispetto alle ragioni che la spingevano a sciogliere quel nodo, a
diventarne antagonista.
Chi era stata sino ad allora se lo chiedeva ogni santo
giorno.
Cosa aveva perduto o cosa avrebbe potuto ritrovare se solo avesse fatto
una scelta.
Scelta che, quel giorno, le sembrava amica, come mai lo era stata prima di allora.
Si
tirò su dal letto e prese la direzione che aveva disegnato col pensiero, quasi
ogni notte. Guardò per un attimo fuori.
Il nulla era ovunque ed ovunque guardava quel nulla sembrava entrarle dentro come un coltello arroventato entra
nel burro. Diede dei piccoli passi in direzione opposta, tentennando di nuovo, come se non fosse ancora pronta.
Rimuginò poche ed incomprensibili parole e poi
prese, ascoltando per un solo secondo la pancia, l’uscita di sicurezza.
Quell’uscita che mai si sarebbe sognata di dover prendere.
Ora era finalmente
lei.
Lei che aveva scelto di abbracciare le nuvole.
domenica 7 dicembre 2014
L' INQUILINO
Mi ha cercata.
Trovata.
Mi ha sorpresa, come un fulmine, squarciando il sereno dei miei occhi.
Mi ha umiliata, quando ha deciso di prendere una camera nel mio corpo, senza chiedere permesso.
Da due mesi vivo con questo inquilino: il dolore, senza riuscire ancora a dargli lo sfratto.
Eppure questa forzata convivenza mi ha rivelato qualcosa.
Mi ha insegnato a conoscere cos'è veramente il dolore, ciò che ogni uomo considera come il più atroce dei nemici.
A comprendere il suo linguaggio.
A tenerlo sotto controllo.
Ad abbracciarlo forte quando decide di fare male senza alcun ritegno.
A farlo calmare con un sorriso.
A non farlo divagare nella disperazione.
A non farlo debordare in inutili lacrime.
A camminare quando ti dice di stare ferma.
A mangiare quando ti dice di digiunare.
A vivere quando ti dice che sei pronta per morire.
A percepire le cose nella loro reale essenza.
A cancellare l'ipocrisia dell'apparenza.
A guardare con gli occhi del cuore.
A prendere nell'anima tutte le virtù, i tesori che nascono da questa sofferenza.
A rendere grazie a Dio anche di questo Dono.
sabato 2 agosto 2014
lunedì 7 aprile 2014
PRONTA
Ognuno di
noi la conosce o l’ha conosciuta, almeno una volta nella vita. Appare lunare
nei lineamenti ma ha fuoco crepitante nella carne. E’ affine all’amore senza
speranza, quella che tiene uniti, come due mani che si stringono sino a
fondersi l’una nell’altra, la falsità e la lama tagliente, l’artiglio che
penetra nello sguardo di fuoco, la tempesta e la nave che affonda nell’impeto
dei flutti. Se si risveglia dal suo sonno leggero, improvvisa si scatena. Rapace,
plana veloce avvinghiandosi agli spiriti che cercano, in lei, una ribellione alle
pene d’amore. Manichini di cera, li fonde con una parola. Dilegua la ragione con
un alito del suo essere. La sua perdizione è sorda, senza tregua. Quello che
può sembrare poca cosa è per lei una ragione di vita. Per lei si muore e si uccide
senza ritegno. Non vede persone ma solo nemici da sconfiggere. Ed una volta che
li ha vinti, mentre li tiene fermi, premendo sul petto il suo tallone uncinato,
richiama scorpioni e meduse a finire quello che ha iniziato. Si può perdere il
respiro quando ci abbraccia nella sua asmatica solitudine. Minacciose nubi nere
popolano il suo cielo. E’ una saetta che colpisce alla cieca e non vede quello
che non vuol vedere. E’ una di due identità. Con la prima ci afferra e ricuce lembi
di pelle alla nostra inquietudine, lasciando sul corpo lividi di terrore. Con l’altra
ci porta nel tempio delle vite sospese tra assurdi moventi e agonizzanti ragionamenti.
E’ un pendolo che oscilla tra solitari tramonti, scacciando la quiete ad ogni
accenno di preghiera. Custodita in una muraglia di neuroni, quando esplode non ci da
modo di fuggire, di trovare riparo. Conosciamo il colore che riveste le sue
pupille ed in quegli occhi molti si lasciano andare, senza opporre resistenza. Arsenico
che assopisce ed invisibile scende ad evocare altre note, sempre grevi, sempre
senza ritorno. Minuti felici che si tramutano in drammi, ore spensierate che
rintoccano a morte. Davanti a lei diventiamo piccoli corpi, rannicchiati, quasi
consumati, dai raggi del primo sole. E’ in quei momenti che il presente non
apre più le porte al tempo, rimane passato e si chiude in un’eclissi infinita. Conosciamo
soltanto il suo nome ma non lo pronunciamo quasi mai: Ira. La prima discendente
di un infelice casato. Della genesi non vede che la fine. Si libera e sconvolge
la staticità della vita come il vento gelido che soffia, brutale, da nord. Nel
margine estremo del dolore stilla la goccia che termina sempre in una lacrima.
E’ il pianto dopo una giornata qualunque. Quella cosa che non ti aspetti di
trovare alla fine della strada. E’ la mora ricolma di acido. La paura dopo un
abbraccio violento. L’ira è tutto quello che non vuoi e che non riesci a vedere
se non con gli occhi di un’altra persona. “Quello
non sono io…” diresti guardando le tue infami gesta allo specchio, mentre sconsiderate
ti lanciano nel baratro della follia. Quante volte hai detto che lei non ti
appartiene e tante volte lei è scesa a prenderti. Lo ha fatto in silenzio,
nell’intimo assopimento del tuo essere, generando sogni che non si devono e non
si possono dire. Scagliata da una rupe maledetta ti ha trafitto senza
provocarti alcun dolore. Ma una volta dentro non c’è cellula del corpo che non sottometta
al suo dna. Lei decide senza darti opzioni, liberando solo rabbia. Credi di
essere il padrone del mondo, ma sei soltanto uno dei suoi schiavi. Ed è solo la
tua follia a renderla sempre giovane e senza paura. Pronta a cibarsi di te fino
all’osso.
domenica 23 marzo 2014
MAI PIU'
Guarda bene. Mentre il sole si infila sotto le coperte
della notte ed il tramonto assume i toni del rosso e dell’indaco, la tua pelle
diventa quasi trasparente. Puoi vedere le vene che ramificano dal cuore un
percorso senza interruzioni. Risalgono sino al cervello. Dovrebbero essere come
autostrade cariche di sangue e ossigeno, eppure sembrano viuzze tortuose e
rinsecchite. Come risucchiate da qualcosa che le avviluppa senza tregua. Guarda
ancora. Davanti a te c’è il mare. Lascia che i tuoi occhi siano rapiti da
quella grandezza. Le onde si infrangono e smuovono quel pavimento liquido che a
tratti sembra immobile. Quasi di marmo, mescolando spuma e riflessi brillanti. Eppure
è solo acqua. La puoi toccare. Sentirne la freschezza. Percepirne l’odore. Assaporarne
il gusto. Devi solo decidere di allungare la mano. Così, quando gli ultimi
raggi abbandoneranno quel pezzo di mondo e le isole dei tuoi pensieri sembreranno
cumuli di macerie, ti prego di non dimenticare una cosa. L’agonia e morte del
sole è la genesi di una nuova alba. Il cantiere di un nuovo giorno. L’esordio di
un inedito incipit. Perché quando tutto sembra finire è allora che comprendi
che non è finita. Ed in quel momento dovrai decidere. Trovare la spinta.
Affondare le mani sulla battigia e rialzarti. Avrai le gambe bagnate, piene di
sabbia ma non importa. Mettiti in cammino. Il sole, il vento, il tempo,
asciugherà ogni cosa. L’acqua pian piano diventerà vapore. La sabbia si
tramuterà in polvere sottile. Il vento porterà via i residui. Ogni cosa tornerà
al suo posto. Quando sarai pronto a ricominciare è li che saprai di essere un
uomo. Non una pianta o un animale. Ma un uomo, una donna, umani personaggi di
questa grande tragedia in cui bisogna scegliere se vivere, sopravvivere o
lasciarsi andare all’incuria del destino. Eppure per scegliere di vivere ci
vuole coraggio. Coraggio per essere pronti a leggere il presente dimenticando i
fantasmi del passato. Ricominciare la corsa da dove si era caduti. Ripulirsi le
ferite, cancellando il noviziato della paura. Paura che rimane nella carne quando,
dentro di noi, si rompe qualcosa. Quando l’anima si frantuma in minuscole
schegge e si resta trafitti dal dolore. Paura che ti maltratta quando chiudi
gli occhi. Paura che ti spinge a giustificare ogni singola azione che fai.
Perché non si è liberi. Forse non lo siamo mai stati. Perché non lo saremo mai?
Stavolta no. Non è così che funziona. La pianta del malessere, che concimiamo
con ampie manciate di solitudine, nel nostro orto privato, va sradicata. E se
qualcuno chiede come va mai più rispondere: “Non ti preoccupare, sto bene!”. Progettiamone
una diversa. “Non sto bene, cazzo!”. Allora sarà liberatorio dirlo a pieni
polmoni. Dovrà risuonare nella testa di chi ci ha fatto la domanda come un gong
di sfida. L’inizio di un incontro di box. Dove, da un lato ci sei tu e dall’altro
ci sta quella bastarda di paura da mettere a tappeto. Ma quella parola, dai tratti
volgari, sarà solo un modo. Un modo diretto e senza orpelli per far capire al
mondo intero come ti stai sentendo in quel momento. Quanto stai soffrendo.
Quanto avresti bisogno di un abbraccio ed invece ricevi solo pacche sulle
spalle. Quanto avresti bisogno di cambiare aria ed invece respiri sempre gli
stessi fumi del quotidiano smarrimento. Quanto vorresti dimenticare che in
quella storia hai lasciato un pezzo di te. Che ogni persona entrata nella tua vita si è
portata via un altro pezzo di te. Tanto che, a furia di perdere pezzi, non sai
più cosa sei. Eppure di questo enorme puzzle, il pezzo migliore, che ancora non
si è perso, sei tu. Qualunque cosa tu abbia fatto. Sia essa sbagliata o
tremendamente sbagliata, adesso è il momento di reagire. Di rendersi conto che
le sabbie mobili ci stanno inghiottendo ed è ora di tirarsi fuori. Basta solo guardarsi
intorno. Vedere di nuovo le cose così come sono sempre state. Liberandole dalla
cappa asfissiante della depressione. E allora vedremo, vedrai, le immagini
diventeranno più nitide. Il sole apparirà meraviglioso e caldo come è adesso.
Quel ramo che si allunga verso di te non sarà più una pianta scheletrica ma assumerà
la sembianza giusta. La mano di qualcuno pronto ad amarti. Allora afferrala, è
il momento. E ricordati di chiudere il
rubinetto del pianto. Questa è un’altra cosa che devi fare. Hai usato quasi
tutta la sorgente del tuo essere, ora devi smetterla. Tante lacrime non servono
a niente. Non servono neanche davanti ad un lutto. Figurarsi quando le sprechi
per qualcuno che ti ha fatto soffrire. Che magari ha deciso di vivere lontano
da te. Basta scavare pozzi di illusioni. Vuoti e ricolmi, al tempo stesso, solo
di umidità, muffa e ripetute umiliazioni. La vita che hai davanti è quella che
vedi. Non quella che appare quando chiudi gli occhi. Se questo sogno è un
incubo allora devi svegliarti. Ci vuole coraggio, si, è vero. Ci vuole fegato ma
puoi farcela. Puoi ricominciare. Puoi alzarti da quell’immagine rarefatta dal
tempo ed iniziare a correre nella direzione opposta: nel domani. Respirando a
pieni polmoni il presente. Trattenerlo giusto un attimo e poi affondare le
braccia nel futuro. Come iniziare a vivere di nuovo? Tenendo fede ad una
promessa. Quella ancestrale promessa che ogni uomo o donna fa al suo amato. “Ti
amerò per sempre”. Per una volta eliminiamo il Ti e mettiamo il Mi. Mi amerò
per sempre. E da lì iniziare l’avventura più grande di tutte. Ricostruire noi
stessi: rigenerandoci. Diventare una persona nuova. Abbattere le pareti di quella
casa dove, da molto tempo, viviamo costretti. Ampliando gli spazi. Tinteggiando
le pareti. E non importa come si ricomincia. Basta ricominciare. Solo così sarà
primavera, la nostra primavera…per non essere mai più una “maledetta primavera”.
mercoledì 19 marzo 2014
LA FINESTRA
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"Perché un dolore diviso è dimezzato ma la felicità divisa o condivisa è raddoppiata". |
“Sembra quasi che il sole faccia fatica ad uscire. Si scorge in trasparenza. Un cuore che pulsa nella fredda gabbia toracica. Ecco cos’è. Vuole liberarsi da quella cappa di grigio e gelo. I raggi, quelli più forti ed fendenti, cercano di infilarsi tra le crepe del cielo. Provano ad aprire dei piccoli varchi tra le nubi cariche di neve. Se neanche stavolta riesce a vincere la sua battaglia, credo nevicherà ancora. Sai, stanotte è caduta tantissima neve. Riesco a vedere le colline tutt’intorno. Fanno da cornice ai tetti imbiancati delle case che portano su al paese. Secondo me è la fame ma sembrano delle grandi fette di pandoro, lasciate lì per caso da un pasticciere sbadato. Se mi sporgo verso sinistra riesco a vedere un piccolo stagno. Nella forma simile ad una foglia vite. È ricoperto da una spessa lastra di ghiaccio. Lungo i bordi frastagliati si addensano delle montagnole di neve. Deve fare molto freddo fuori eppure sembra che non ci sia vento. Non riesco a percepire, nonostante li veda con precisione, i movimenti degli alberi che ho di fronte. Intendo gli alberi del grande bosco. I loro rami scheletrici si allungano verso il cielo silenzioso, incoronati da fiocchi di neve e merletti di ghiaccio. Mi sembra di vedere un piccolo sentiero. È costeggiato da un basso muretto. Forse per questo riesco a intravederlo in questo paesaggio che è di un solo colore: il bianco. Le pietre sembrano essere fatte di un materiale che non fa attaccare la neve. Solo il lungo dorso è imbiancato. I fianchi si vedono perfettamente. Riposte con cura, le une sulle altre, a formare un puzzle perfetto. Se corro con lo sguardo lungo il muretto vedo, più in fondo, un vecchio cascinale. Le scale diroccate. I balconi chiusi. I vetri rotti. Disabitato da chissà quanto tempo. Sembra una dimora di fantasmi. Quasi irreale, ricoperto di rovi e sprazzi di bianco brillante. Dal tetto, per metà sfondato, pendono lunghi ghiaccioli trasparenti. Uno è così grande che sembra una stalattite. Ecco. Vedo delle figure che risalgono dal sentiero. Sono dei bambini. Due, quattro, sei. Riesco a distinguere i volti simpatici, le gote rosse. Il fiato che esce dalle narici crea delle strisce di fumo caldo. Tutti incappucciati ma non sembrano per niente infreddoliti. Si avvicinano ad un cumulo di neve fresca. Il più piccolo ha fatto una pallina di neve velocemente. L’ha tirata, forse in maniera sbilenca, ma ha colpito il più grande. Facendogli cadere il cappello. Quello con la pallina rossa e grigia. Anche se non riesco a sentire le voci concitate si danno battaglia. Sorridono divertiti. Comunque da lontano, verso sud, il cielo annuncia minacce. Credo si prepari una bufera. Ah, finalmente! Il sole è uscito vittorioso. Ha squarciato l’ultima resistenza. Ora vedo il riflesso abbagliante sulla neve. Non riesco a tenere gli occhi aperti tanto è accecante. Con questa luce, i vetri della finestra diventano uno specchio. Devo decidermi a fami la barba. Ho i capelli dritti, spettinati, ogni ciuffo per suo conto. Sembro uno spaventapasseri. Amico mio vorrei dormire un po’, sono stanco.” Così dicendo Antonio abbassò per metà la tapparella premendo un pulsante. Dalla sedia si spostò leggermente per infilarsi nel letto. La finestra era una di quelle molto grandi. Di vetro spesso ed acciaio, forse l’unica cosa bella, o meglio, apprezzabile in quella stanza. Accanto a quella finestra un letto. Quello di Antonio ed una sedia. L’altro letto, quello di Michele, più distante, vicino al muro. Poi il giorno lasciò il posto alla sera ed Antonio quella notte peggiorò. La mattina dopo non riuscì più ad alzarsi dal letto, come sempre faceva per raccontare delle meraviglie che vedeva da quella finestra. A mezzogiorno venne portato di corsa in sala operatoria ma da lì non ritornò mai più. Il mattino seguente, Michele, ancora disperato e frastornato da quello che era accaduto al suo compagno di stanza, chiese all’ infermiera di potersi spostare nel letto accanto alla finestra. Lui che era costretto, dalla sua grave malattia, a rimanere sempre disteso. Voleva provare a vedere le cose che Antonio gli raccontava con così tanta precisione e ineguagliabile poesia. Quando fu spostato nell’ altro letto, lentamente e dolorosamente si sollevò su un gomito per affacciarsi e vedere, per la prima volta, il mondo esterno. Ma vide che la finestra dava su muro bianco. Chiese all’ infermiera cosa poteva aver spinto il suo amico a descrivere quelle cose così meravigliose. L’infermiera, sorpresa, disse che Antonio era cieco e non poteva neanche vedere il muro. “Forse voleva darti coraggio, donandoti immagini felici” disse uscendo dalla stanza. Si. Era così. Antonio era felice nel rendere felice il suo amico, anche a dispetto della propria situazione: “Perché un dolore diviso è dimezzato ma la felicità divisa o condivisa è raddoppiata”.
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