LA TRACCIA

Mi hai detto: “Non fissarmi così” ma nei tuoi occhi mi sono perso lo stesso e ho rivisto noi. 
La nostra vita ed ogni singolo momento trascorso insieme. 
Quando mi hai stretto forte ho potuto sentire il tuo cuore. 
I battiti erano simili ai miei: accelerati. 
Rompevano il silenzio di quel momento, insieme all’affannoso respiro del presente. 
Avevi l’iride lucida, liquida e mi guardavi in modo diverso. 
Diverso da come mi guardasti la prima volta che sono apparso nella tua vita. 
Avevi lo sguardo di chi è travolto dalle onde e cerca solo di non affogare, facendo movimenti scomposti. 
Tentando di aggrapparsi al buio di quella tempesta privata che, consapevolmente, cancella ogni traccia di passato. 
Buio che rompe, con inaudita violenza, le mura di questo tuo mondo fatto di gesso e con un soffio alza polvere asfissiante. 
Polvere che blocca le vie aeree, che limita le facoltà di scelta. 
Che tenta di sottomettere il mio futuro a cumuli di terra e che, con un gesto vorace, mi priva di ogni cosa, anche di te. 
E più ti guardo e più non trovo traccia. 
La traccia del nostro amore. 
Di quel legame che ci ha reso carne della stessa carne. 
Di quel sentimento che porta ogni essere umano a fondersi per l’altro e nell’altro, in un continuo divenire. Ma di più, non trovo traccia di pentimento. 
Solo istinto e forse neanche quello. 
Perché non esiste l’istinto di rinnegare se stessi. 
Di strappare il cordone e sputare il sangue sul pavimento. 
Di bruciare l’innocenza in un centesimo di rabbia. 
Di uccidere in una volta due volte, due vite: la mia, la tua. 
Mamma, quando mi hai stretto forte ho conosciuto la morte. Morte che mi hai offerto, dopo avermi portato in dono la vita, con lo stesso urlo. 
Stavolta prolungato e solitario. 
Urlo che, rimbalzando sulle pareti di casa, è ritornato nella tua gola, soffocando, in un colpo solo, due anime. 
Urlo destinato a ripetersi dietro le sbarre, fino alla fine dei tuoi giorni. 
Mi consola l’idea di non essere mai stato tuo. 
Neanche adesso. 
Adesso che ritorno al Padre, spostando piano nuvole di cristallo rosa, in questa mattina soleggiata di dicembre. 
Adesso che ho la ricompensa della resurrezione per aver vissuto l’inferno tra le tue braccia.

LA SCELTA

Ad ogni suo richiamo la vita rispondeva senza darle modo di replicare. 
Era un abbozzo di dialogo che si interrompeva ad ogni sussulto di fuga e tutto si mascherava di incredulità. 
Così lei rimaneva sempre orfana di parole ed in preda alle sue più terribili paure. 
Era così assuefatta da quel nulla che ogni cosa intorno prendeva le forme di quello che in realtà non era. 
Così la tranquillità dei giorni diventava un cadavere in putrefazione. 
La ragione diventava un assurdo urlo nell’illusione. 
La felicità rimaneva relegata ad una semplice comparsa che, di tanto in tanto, faceva ingresso nella sua esistenza senza programmare mai un motivo per ritornare. 
Trascorreva le sue giornate tra le sbarre di una gabbia costruitale dal destino. 
In quella vita che non aveva mai voluto vivere ma che viveva solo per paura della libertà o forse per timore di non essere capita, compresa, da chi doveva proteggerla ed in realtà l’aveva costretta a scegliere qualcosa che non le apparteneva. 
Passarono così gli anni e le ragioni che la tenevano legata man mano si affievolivano sino a diventare poca cosa rispetto alle ragioni che la spingevano a sciogliere quel nodo, a diventarne antagonista. 
Chi era stata sino ad allora se lo chiedeva ogni santo giorno. 
Cosa aveva perduto o cosa avrebbe potuto ritrovare se solo avesse fatto una scelta. 
Scelta che, quel giorno, le sembrava amica, come mai lo era stata prima di allora. 
Si tirò su dal letto e prese la direzione che aveva disegnato col pensiero, quasi ogni notte. Guardò per un attimo fuori. 
Il nulla era ovunque ed ovunque guardava quel nulla sembrava entrarle dentro come un coltello arroventato entra nel burro. Diede dei piccoli passi in direzione opposta, tentennando di nuovo, come se non fosse ancora pronta. 
Rimuginò poche ed incomprensibili parole e poi prese, ascoltando per un solo secondo la pancia, l’uscita di sicurezza. 
Quell’uscita che mai si sarebbe sognata di dover prendere. 
Ora era finalmente lei. 
Lei che aveva scelto di abbracciare le nuvole.   

L' INQUILINO




Mi ha cercata.
Trovata.
Mi ha sorpresa, come un fulmine, squarciando il sereno dei miei occhi.
Mi ha umiliata, quando ha deciso di prendere una camera nel mio corpo, senza chiedere permesso.
Da due mesi vivo con questo inquilino: il dolore, senza riuscire ancora a dargli lo sfratto.
Eppure questa forzata convivenza mi ha rivelato qualcosa.
Mi ha insegnato a conoscere cos'è veramente il dolore, ciò che ogni uomo considera come il più atroce dei nemici.
A comprendere il suo linguaggio.
A tenerlo sotto controllo.
Ad abbracciarlo forte quando decide di fare male senza alcun ritegno.
A farlo calmare con un sorriso.
A non farlo divagare nella disperazione.
A non farlo debordare in inutili lacrime.
A camminare quando ti dice di stare ferma.
A mangiare quando ti dice di digiunare.
A vivere quando ti dice che sei pronta per morire.
A percepire le cose nella loro reale essenza.
A cancellare l'ipocrisia dell'apparenza.
A guardare con gli occhi del cuore.
A prendere nell'anima tutte le virtù, i tesori che nascono da questa sofferenza.
A rendere grazie a Dio anche di questo Dono.


PRONTA


Ognuno di noi la conosce o l’ha conosciuta, almeno una volta nella vita. Appare lunare nei lineamenti ma ha fuoco crepitante nella carne. E’ affine all’amore senza speranza, quella che tiene uniti, come due mani che si stringono sino a fondersi l’una nell’altra, la falsità e la lama tagliente, l’artiglio che penetra nello sguardo di fuoco, la tempesta e la nave che affonda nell’impeto dei flutti. Se si risveglia dal suo sonno leggero, improvvisa si scatena. Rapace, plana veloce avvinghiandosi agli spiriti che cercano, in lei, una ribellione alle pene d’amore. Manichini di cera, li fonde con una parola. Dilegua la ragione con un alito del suo essere. La sua perdizione è sorda, senza tregua. Quello che può sembrare poca cosa è per lei una ragione di vita. Per lei si muore e si uccide senza ritegno. Non vede persone ma solo nemici da sconfiggere. Ed una volta che li ha vinti, mentre li tiene fermi, premendo sul petto il suo tallone uncinato, richiama scorpioni e meduse a finire quello che ha iniziato. Si può perdere il respiro quando ci abbraccia nella sua asmatica solitudine. Minacciose nubi nere popolano il suo cielo. E’ una saetta che colpisce alla cieca e non vede quello che non vuol vedere. E’ una di due identità. Con la prima ci afferra e ricuce lembi di pelle alla nostra inquietudine, lasciando sul corpo lividi di terrore. Con l’altra ci porta nel tempio delle vite sospese tra assurdi moventi e agonizzanti ragionamenti. E’ un pendolo che oscilla tra solitari tramonti, scacciando la quiete ad ogni accenno di preghiera. Custodita in una muraglia di neuroni, quando esplode non ci da modo di fuggire, di trovare riparo. Conosciamo il colore che riveste le sue pupille ed in quegli occhi molti si lasciano andare, senza opporre resistenza. Arsenico che assopisce ed invisibile scende ad evocare altre note, sempre grevi, sempre senza ritorno. Minuti felici che si tramutano in drammi, ore spensierate che rintoccano a morte. Davanti a lei diventiamo piccoli corpi, rannicchiati, quasi consumati, dai raggi del primo sole. E’ in quei momenti che il presente non apre più le porte al tempo, rimane passato e si chiude in un’eclissi infinita. Conosciamo soltanto il suo nome ma non lo pronunciamo quasi mai: Ira. La prima discendente di un infelice casato. Della genesi non vede che la fine. Si libera e sconvolge la staticità della vita come il vento gelido che soffia, brutale, da nord. Nel margine estremo del dolore stilla la goccia che termina sempre in una lacrima. E’ il pianto dopo una giornata qualunque. Quella cosa che non ti aspetti di trovare alla fine della strada. E’ la mora ricolma di acido. La paura dopo un abbraccio violento. L’ira è tutto quello che non vuoi e che non riesci a vedere se non con gli occhi di un’altra persona. “Quello non sono io…” diresti guardando le tue infami gesta allo specchio, mentre sconsiderate ti lanciano nel baratro della follia. Quante volte hai detto che lei non ti appartiene e tante volte lei è scesa a prenderti. Lo ha fatto in silenzio, nell’intimo assopimento del tuo essere, generando sogni che non si devono e non si possono dire. Scagliata da una rupe maledetta ti ha trafitto senza provocarti alcun dolore. Ma una volta dentro non c’è cellula del corpo che non sottometta al suo dna. Lei decide senza darti opzioni, liberando solo rabbia. Credi di essere il padrone del mondo, ma sei soltanto uno dei suoi schiavi. Ed è solo la tua follia a renderla sempre giovane e senza paura. Pronta a cibarsi di te fino all’osso.


MAI PIU'



Guarda bene. Mentre il sole si infila sotto le coperte della notte ed il tramonto assume i toni del rosso e dell’indaco, la tua pelle diventa quasi trasparente. Puoi vedere le vene che ramificano dal cuore un percorso senza interruzioni. Risalgono sino al cervello. Dovrebbero essere come autostrade cariche di sangue e ossigeno, eppure sembrano viuzze tortuose e rinsecchite. Come risucchiate da qualcosa che le avviluppa senza tregua. Guarda ancora. Davanti a te c’è il mare. Lascia che i tuoi occhi siano rapiti da quella grandezza. Le onde si infrangono e smuovono quel pavimento liquido che a tratti sembra immobile. Quasi di marmo, mescolando spuma e riflessi brillanti. Eppure è solo acqua. La puoi toccare. Sentirne la freschezza. Percepirne l’odore. Assaporarne il gusto. Devi solo decidere di allungare la mano. Così, quando gli ultimi raggi abbandoneranno quel pezzo di mondo e le isole dei tuoi pensieri sembreranno cumuli di macerie, ti prego di non dimenticare una cosa. L’agonia e morte del sole è la genesi di una nuova alba. Il cantiere di un nuovo giorno. L’esordio di un inedito incipit. Perché quando tutto sembra finire è allora che comprendi che non è finita. Ed in quel momento dovrai decidere. Trovare la spinta. Affondare le mani sulla battigia e rialzarti. Avrai le gambe bagnate, piene di sabbia ma non importa. Mettiti in cammino. Il sole, il vento, il tempo, asciugherà ogni cosa. L’acqua pian piano diventerà vapore. La sabbia si tramuterà in polvere sottile. Il vento porterà via i residui. Ogni cosa tornerà al suo posto. Quando sarai pronto a ricominciare è li che saprai di essere un uomo. Non una pianta o un animale. Ma un uomo, una donna, umani personaggi di questa grande tragedia in cui bisogna scegliere se vivere, sopravvivere o lasciarsi andare all’incuria del destino. Eppure per scegliere di vivere ci vuole coraggio. Coraggio per essere pronti a leggere il presente dimenticando i fantasmi del passato. Ricominciare la corsa da dove si era caduti. Ripulirsi le ferite, cancellando il noviziato della paura. Paura che rimane nella carne quando, dentro di noi, si rompe qualcosa. Quando l’anima si frantuma in minuscole schegge e si resta trafitti dal dolore. Paura che ti maltratta quando chiudi gli occhi. Paura che ti spinge a giustificare ogni singola azione che fai. Perché non si è liberi. Forse non lo siamo mai stati. Perché non lo saremo mai? Stavolta no. Non è così che funziona. La pianta del malessere, che concimiamo con ampie manciate di solitudine, nel nostro orto privato, va sradicata. E se qualcuno chiede come va mai più rispondere: “Non ti preoccupare, sto bene!”. Progettiamone una diversa. “Non sto bene, cazzo!”. Allora sarà liberatorio dirlo a pieni polmoni. Dovrà risuonare nella testa di chi ci ha fatto la domanda come un gong di sfida. L’inizio di un incontro di box. Dove, da un lato ci sei tu e dall’altro ci sta quella bastarda di paura da mettere a tappeto. Ma quella parola, dai tratti volgari, sarà solo un modo. Un modo diretto e senza orpelli per far capire al mondo intero come ti stai sentendo in quel momento. Quanto stai soffrendo. Quanto avresti bisogno di un abbraccio ed invece ricevi solo pacche sulle spalle. Quanto avresti bisogno di cambiare aria ed invece respiri sempre gli stessi fumi del quotidiano smarrimento. Quanto vorresti dimenticare che in quella storia hai lasciato un pezzo di te. Che  ogni persona entrata nella tua vita si è portata via un altro pezzo di te. Tanto che, a furia di perdere pezzi, non sai più cosa sei. Eppure di questo enorme puzzle, il pezzo migliore, che ancora non si è perso, sei tu. Qualunque cosa tu abbia fatto. Sia essa sbagliata o tremendamente sbagliata, adesso è il momento di reagire. Di rendersi conto che le sabbie mobili ci stanno inghiottendo ed è ora di tirarsi fuori. Basta solo guardarsi intorno. Vedere di nuovo le cose così come sono sempre state. Liberandole dalla cappa asfissiante della depressione. E allora vedremo, vedrai, le immagini diventeranno più nitide. Il sole apparirà meraviglioso e caldo come è adesso. Quel ramo che si allunga verso di te non sarà più una pianta scheletrica ma assumerà la sembianza giusta. La mano di qualcuno pronto ad amarti. Allora afferrala, è il momento.  E ricordati di chiudere il rubinetto del pianto. Questa è un’altra cosa che devi fare. Hai usato quasi tutta la sorgente del tuo essere, ora devi smetterla. Tante lacrime non servono a niente. Non servono neanche davanti ad un lutto. Figurarsi quando le sprechi per qualcuno che ti ha fatto soffrire. Che magari ha deciso di vivere lontano da te. Basta scavare pozzi di illusioni. Vuoti e ricolmi, al tempo stesso, solo di umidità, muffa e ripetute umiliazioni. La vita che hai davanti è quella che vedi. Non quella che appare quando chiudi gli occhi. Se questo sogno è un incubo allora devi svegliarti. Ci vuole coraggio, si, è vero. Ci vuole fegato ma puoi farcela. Puoi ricominciare. Puoi alzarti da quell’immagine rarefatta dal tempo ed iniziare a correre nella direzione opposta: nel domani. Respirando a pieni polmoni il presente. Trattenerlo giusto un attimo e poi affondare le braccia nel futuro. Come iniziare a vivere di nuovo? Tenendo fede ad una promessa. Quella ancestrale promessa che ogni uomo o donna fa al suo amato. “Ti amerò per sempre”. Per una volta eliminiamo il Ti e mettiamo il Mi. Mi amerò per sempre. E da lì iniziare l’avventura più grande di tutte. Ricostruire noi stessi: rigenerandoci. Diventare una persona nuova. Abbattere le pareti di quella casa dove, da molto tempo, viviamo costretti. Ampliando gli spazi. Tinteggiando le pareti. E non importa come si ricomincia. Basta ricominciare. Solo così sarà primavera, la nostra primavera…per non essere mai più una “maledetta primavera”. 

LA FINESTRA

"Perché un dolore diviso è dimezzato ma la felicità divisa o condivisa è raddoppiata".
“Sembra quasi che il sole faccia fatica ad uscire. Si scorge in trasparenza. Un cuore che pulsa nella fredda gabbia toracica. Ecco cos’è. Vuole liberarsi da quella cappa di grigio e gelo. I raggi, quelli più forti ed fendenti, cercano di infilarsi tra le crepe del cielo. Provano ad aprire dei piccoli varchi tra le nubi cariche di neve. Se neanche stavolta riesce a vincere la sua battaglia, credo nevicherà ancora. Sai, stanotte è caduta tantissima neve. Riesco a vedere le colline tutt’intorno. Fanno da cornice ai tetti imbiancati delle case che portano su al paese. Secondo me è la fame ma sembrano delle grandi fette di pandoro, lasciate lì per caso da un pasticciere sbadato. Se mi sporgo verso sinistra riesco a vedere un piccolo stagno. Nella forma simile ad una foglia vite. È ricoperto da una spessa lastra di ghiaccio. Lungo i bordi frastagliati si addensano delle montagnole di neve. Deve fare molto freddo fuori eppure sembra che non ci sia vento. Non riesco a percepire, nonostante li veda con precisione, i movimenti degli alberi che ho di fronte. Intendo gli alberi del grande bosco. I loro rami scheletrici si allungano verso il cielo silenzioso, incoronati da fiocchi di neve e merletti di ghiaccio. Mi sembra di vedere un piccolo sentiero. È costeggiato da un basso muretto. Forse per questo riesco a intravederlo in questo paesaggio che è di un solo colore: il bianco. Le pietre sembrano essere fatte di un materiale che non fa attaccare la neve. Solo il lungo dorso è imbiancato. I fianchi si vedono perfettamente. Riposte con cura, le une sulle altre, a formare un puzzle perfetto. Se corro con lo sguardo lungo il muretto vedo, più in fondo, un vecchio cascinale. Le scale diroccate. I balconi chiusi. I vetri rotti. Disabitato da chissà quanto tempo. Sembra una dimora di fantasmi. Quasi irreale, ricoperto di rovi e sprazzi di bianco brillante. Dal tetto, per metà sfondato, pendono lunghi ghiaccioli trasparenti. Uno è così grande che sembra una stalattite. Ecco. Vedo delle figure che risalgono dal sentiero. Sono dei bambini. Due, quattro, sei. Riesco a distinguere i volti simpatici, le gote rosse. Il fiato che esce dalle narici crea delle strisce di fumo caldo. Tutti incappucciati ma non sembrano per niente infreddoliti. Si avvicinano ad un cumulo di neve fresca. Il più piccolo ha fatto una pallina di neve velocemente. L’ha tirata, forse in maniera sbilenca, ma ha colpito il più grande. Facendogli cadere il cappello. Quello con la pallina rossa e grigia. Anche se non riesco a sentire le voci concitate si danno battaglia. Sorridono divertiti. Comunque da lontano, verso sud, il cielo annuncia minacce. Credo si prepari una bufera. Ah, finalmente! Il sole è uscito vittorioso. Ha squarciato l’ultima resistenza. Ora vedo il riflesso abbagliante sulla neve. Non riesco a tenere gli occhi aperti tanto è accecante. Con questa luce, i vetri della finestra diventano uno specchio. Devo decidermi a fami la barba. Ho i capelli dritti, spettinati, ogni ciuffo per suo conto. Sembro uno spaventapasseri. Amico mio vorrei dormire un po’, sono stanco.” Così dicendo Antonio abbassò per metà la tapparella premendo un pulsante. Dalla sedia si spostò leggermente per infilarsi nel letto. La finestra era una di quelle molto grandi. Di vetro spesso ed acciaio, forse l’unica cosa bella, o meglio, apprezzabile in quella stanza. Accanto a quella finestra un letto. Quello di Antonio ed una sedia. L’altro letto, quello di Michele, più distante, vicino al muro. Poi il giorno lasciò il posto alla sera ed Antonio quella notte peggiorò. La mattina dopo non riuscì più ad alzarsi dal letto, come sempre faceva per raccontare delle meraviglie che vedeva da quella finestra. A mezzogiorno venne portato di corsa in sala operatoria ma da lì non ritornò mai più. Il mattino seguente, Michele, ancora disperato e frastornato da quello che era accaduto al suo compagno di stanza, chiese all’ infermiera di potersi spostare nel letto accanto alla finestra. Lui che era costretto, dalla sua grave malattia, a rimanere sempre disteso. Voleva provare a vedere le cose che Antonio gli raccontava con così tanta precisione e ineguagliabile poesia. Quando fu spostato nell’ altro letto, lentamente e dolorosamente si sollevò su un gomito per affacciarsi e vedere, per la prima volta, il mondo esterno. Ma vide che la finestra dava su muro bianco. Chiese all’ infermiera cosa poteva aver spinto il suo amico a descrivere quelle cose così meravigliose. L’infermiera, sorpresa, disse che Antonio era cieco e non poteva neanche vedere il muro. “Forse voleva darti coraggio, donandoti immagini felici” disse uscendo dalla stanza. Si. Era così. Antonio era felice nel rendere felice il suo amico, anche a dispetto della propria situazione: “Perché un dolore diviso è dimezzato ma la felicità divisa o condivisa è raddoppiata”. 

FORSE


Il buio le aveva rubato il paesaggio circostante. Si era impadronito dei suoi passi. Le aveva cancellato la meta, soffiando con crudeltà sulla fiamma. Aveva spento le torce che portava negli occhi, saccheggiando quel colore intenso, azzurro misto ad ambra, che le era stato donato da sua madre. Ora, che ogni cosa aveva perso la sua sembianza, non riusciva a capire da quale parte andare. Si era appena risvegliata da un torpore di incoscienza. Forse aveva sognato. O forse era ancora dentro a quel sogno. Non riusciva a capirlo. Ricordava solo il dolore. Un cuneo che si conficca nelle tempie. Che la svuota d’ossigeno, riempiendola di lacrime. Lacrime che non erano le sue. Eppure la sua memoria aveva fatto dei giri enormi alla ricerca di risposte. Cercava un tepore nascosto, la dolcezza di un alito caldo, un abbraccio inaspettato, manciate di solida fiducia, la tremante incredulità di occhi che ti appartengono senza sapere il perché. Tutto questo era reale o solo puro desiderio? Era china sul pozzo dei ricordi e cercava di capire cos’era stata la sua vita, il suo passato. E qual era adesso il suo presente. Poi d’un tratto intravide, nella sua mente, una piccola radura. Conosceva quel posto. L’erba fresca dove aveva poggiato, da piccola, i piedini scalzi, senza alcuna paura o tormento. Dove aveva plasmato la spensieratezza della sua infanzia. E lì vide anche lui. Lui che aspettava un suo cenno per avvicinarsi. Fu in quel momento che le sembrò che ogni cosa iniziasse a riprendere la sua forma. La sua naturale sostanza. Quella così tante volte idealizzata. Sentì un profumo intenso. Era la fragranza penetrante della sua giovinezza perduta. La purezza delle prime emozioni. La simbiotica paura di amare e non saperlo dire. Come trovare un vecchio diario e rileggere frasi che albeggiavano oggi come allora nella sua mente. Non sapeva chi fosse ma avrebbe voluto dirgli, forse sottovoce: “ti appartengo, sono tua”. Eppure un freno aveva lasciato cadere la parola. La spinta del cuore, verso quel lido sereno, si era marmorizzata. Rimaneva, immobile, in quel corpo disteso. Radici che si infilavano in quel letto, quasi un terreno paludoso, e non le davano modo di alzarsi. Di proseguire nel cammino. Ferma come davanti ad un portone. Il tempo che scorre e due anime destinate a incontrarsi. O forse a non incontrarsi mai. Ma quando lei aveva scorto il suo profilo. Quando la sua immagine era diventata finalmente desiderio pulsante nella sua mente, allora le sembrò di averlo sempre conosciuto. Era lui quello che la chiamava nei viaggi verso mete imprecise. Era lui quello che muoveva le gambe nel cammino faticoso, era lui la bussola che orientava le sue scelte. Giuste o sbagliate che fossero. Era sempre lui. Così gli fece cenno di avvicinarsi. Ed iniziò a sentire i suoi passi. Tremò all’idea di averlo presto davanti, ma lui si mostrò sotto forma di tramonto. La chiamò a gran voce, implorandola di consentire alla sua ombra di prendere forma nei suoi occhi spenti. Con i pugni serrati e priva di speranza, lei, accennò un vile passo nella direzione opposta. Ma una folata di vento le impose di cambiare rotta. La paura le guidava lo sguardo. Gli occhi bassi quasi a non voler prendere coscienza di quello che stava succedendo, mentre lui iniziava a carezzarla dolcemente. Fu allora che il suo essere si mostrò prima all’anima e poi al corpo. Ed allora finalmente capì. Era lui la consolazione del suo tormento, l’appagamento della ricerca, la serenità dopo le intemperie del fato, la cognizione di una vita non più vissuta in difesa, senza amore, senza amicizia, senza solidarietà, senza supporto, senza possibilità di scegliere, senza trasporto, senza passione, senza desiderio e senza slancio. Lei accennò un sorriso. Lo strinse forte a se ed il destino prese un’altra direzione. Ma in quel momento le sue gambe iniziarono a tremare. Non avrebbero retto la via del ritorno. Allora lui la prese in braccio, come se fosse stata la sua bambina, con la dolcezza di un gentiluomo che coglie un bocciolo nel roseto. E lei, ancorata al porto sicuro, rapita dalle essenze profumate del suo animo, gemma rara e senza eguali, iniziò a guardare chi era diventata. O cos’era tornata ad essere. Una donna,  ancora viva, dopo un grave incidente, stretta nelle braccia del suo angelo custode. Angelo che l’allontanava da quelle nubi asfissianti per riportarla sulla terra. Per farla sorridere, per farla innamorare e per essere a sua volta amata, forse per la prima volta…ora che finalmente era uscita dal coma.

IMPARIAMO

Il pallone, per Andrea, era quasi un cimelio. Lo teneva al riparo dalla polvere, chiuso in un sacco di tela, nonostante fosse ricoperto di vita vissuta. Consumato da partite infinite. Rotolato sui terreni più diversi: polverosi, melmosi, bagnati. Accarezzato dall’erba fresca del prato dietro la chiesa. Il miglior campo di calcio nelle stagioni primaverili. Preferito al campo del paese, pieno di pietre e buche. Il pallone era la vitamina delle giornate apatiche. Quelle giornate in cui la tv rimaneva spenta per scelta e le mura di casa diventavano simili ad una prigione. Era la consolazione dopo il suono della campanella, all’uscita della scuola. Era il primo pensiero del risveglio, la domenica mattina. Pallone che lo faceva diventare il capitano in ogni partita. Lui che aveva l’onore, o meglio il privilegio, di essere il proprietario del primo Super Santos, mentre fino a pochi anni prima giocava con palloni fatti di stracci. Quel giorno, come ogni giorno di quell’estate del ‘62, quando la scuola era solo una casa vuota e lesionata, Andrea chiamò i suoi amici a rapporto sul piccolo campetto dietro la Chiesa. Tutti presenti, come sempre, per la partita delle cinque. Appartenere alla piazza o vivere nel centro storico oppure nel borgo del paese definiva la formazione delle squadre. Quasi un torneo. L’arbitro prescelto, un bambino magrolino e senza un dente, si disperò in un pianto quasi isterico, voleva giocare anche lui. Andrea seppe calmarlo: “una volta per uno - gli disse - facciamo a turno”. Poi il suono della campana, le cinque esatte, anticipò il fischio di inizio e la squadra della Piazza diede il calcio d’avvio. La rivalità era animata e vivace. Si sfidavano i bambini della Piazza contro quelli del Borgo. Magliette bianche contro magliette rosse. La prima vera azione della partita ebbe come protagonista il figlio del fornaio. Con un dribbling veloce cercò di guadagnare metri verso la porta e, quando vide due difensori frapporsi al suo percorso, calciò con potenza, senza pensarci due volte. Voleva provare l’ebbrezza di fare un gol epico. Quei gol che si vestono di leggenda nelle storie dei ragazzi. Ma la fortuna non fu dalla sua parte ed il pallone, sospinto anche dalla forza del vento, prese una traiettoria strana. Superò il campetto e girò l’angolo della strada come se fosse stato spinto o accompagnat0 da un altro calcio, stavolta trasparente. Scomparve in un guizzo di secondo, lungo la discesa che portava verso il dirupo. Andrea accompagnò il pallone con lo sguardo e riuscì a dire solo un “Nooo” prolungato dalla tensione di perdere il suo adorato tesoro. La partita finì nello stesso istante. Tutti si fermarono, quasi sconvolti, ed un gruppetto si formò intorno al responsabile dell’azione. “Sei sempre il solito spaccone” esordì Andrea, avvicinandosi ad un palmo di naso. “Se il pallone si è perso facciamo i conti” aggiunse tirandosi su le maniche. “Se si è perso mi fa piacere” ribattè spocchioso il ragazzo dalla maglietta rossa “così la smetti di comandare”. La rissa fu una normale quanto necessaria conseguenza. Tutti contro tutti. Si litigava e si faceva a botte per un pallone andato a finire chissà dove. Tuttavia gli animi, dapprima accesi e lividi, man mano si calmarono. Una bonaccia improvvisa, dopo la terribile tempesta, schiarì la rabbia. Complice anche i dolori dopo le botte. Il piccolo arbitro si avvicinò ad Andrea e lo staccò dal malcapitato di turno. Aveva in mano un pallone lercio, fatto di stracci. Glielo porse ed abbozzò un sorriso. Andrea guardò la sua maglietta bianca, sporcata di rosso. Il sangue gli colava giù dal naso che era una meraviglia. Non servirono parole ed in pochi istanti capì quanto era stato assurdo il suo comportamento. Così, con un fischio, richiamò l’attenzione di tutti. “Fermi, che stiamo facendo?” disse bloccando le azioni bellicose. “E’ solo un pallone, usiamo questo e rimettiamoci a giocare.” Incredulità generale. Poi tutto ritornò come prima. Agonismo e sorrisi al posto delle botte e dei litigi. La morale? Forse troppo semplice da capire per i bambini ma decisamente difficile per i grandi. Perché i bambini prima litigano e poi ritornano a giocare insieme? Perché la loro felicità viene prima dell’orgoglio. (Impariamo dai bambini). 

NIENTE

Il peso di quell’assenza affondava nei passi. L’eco del silenzio si infilava, severo, nei capelli. Li annodava con sapienza, spinto da manciate di vento caldo (che poi, forse, vento non era). Tesseva le trame, un reticolato di pensieri asfissianti. Era lui uno dei compagni di viaggio. Forse quello che meglio comprendeva le sue emozioni. Emozioni liquefatte nel movimento assurdo degli impulsi cerebrali. Impulsi che, davanti ad una condanna, non riuscivano ad elaborare niente. Bloccati sullo stesso tasto, a suonare una sola nota: muta. Anche il silenzio, come gli occhi di lei, si nutriva di quella mancanza. Occhi che sembravano interrompersi nello sguardo, salvo poi riprendersi, nel movimento repentino delle ciglia che sbattevano veloci. Chiusi ed aperti. Come in un continuo vedo non vedo. Eppure il cammino era lungo. Faticoso. Riusciva a percepirlo, sentirlo, nella sua maestosità. Cosa doveva fare? Trattenere il fiato, respirare appena. Esercizi che servivano per darle forza. Per non inglobare troppa aria nei polmoni. Per non far pesare e pensare la testa. Per dare alle gambe la spinta necessaria per continuare. Era solo il movimento, quasi un automatismo, a definire quel corpo come un corpo dinamico. Per il resto niente sembrava vivere in lei. Era una casa disabitata. Nessuno che apre le finestre. Nessuno che accende la luce. Mura che man mano si sgretolano sotto il peso di quella tormenta. Eppure davanti a quella casa c’era una strada. Si apriva simile ad un viatico di passione. Strada di cui conosceva l’arrivo, la fine. Strada senza senso ma obbligatoria da percorrere. La vita gli aveva indicato o imposto il cammino e lei lo aveva preso, intrapreso, senza togliere il cuore dai carboni. Cuore che bruciava, avvolto dalle fiamme del dolore, ma che, ancora, non era completamente cenere. Poteva sentire, così come lo aveva avvertito la prima volta, il dolore trafiggerla con precisione inaudita. Come al primo annuncio del destino. Maledetto. In quelle parole, in quella diagnosi, aveva capito cos’era quella zavorra che la rendeva così pesante. Cos’era quell’assenza. Quella mancanza. Le lacrime se ne erano andate quando aveva guardato quel bambino diventare improvvisamente vecchio, senza vivere neanche un anno della sua vita. Quando aveva raccolto i primi capelli caduti sul golfino. Quando gli aveva tenuto la mano durante la prima flebo, tremando solo con la gola. Quando aveva trasformato la paura in una favola bugiarda, a lieto fine, mentre gli rimboccava le coperte prima di dormire. Quando lo aveva preso in braccio sfinito, dopo l’ultima terapia, e non aveva sentito che ossa. Non più suo figlio ma una piuma. Il peso di un’anima pronta a sparire per sempre. Ed in quell’abbraccio si era scarnificata della speranza. In quell’abbraccio, l’ultimo, aveva consegnato, sconfitta, quella che era la sua vita “in mani più grandi, mani discese dal cielo”. Così aveva detto il prete durante l’omelia, mentre lei si svuotava di preghiere mai ascoltate. Lei che, oramai, non credeva più a niente. Niente che non fosse reale. Reale come quella morte

UNO SPETTACOLO



Quante domande si rincorrono nella mente dell’uomo. Quanti perché si conficcano nelle isole del pensiero e lì rimangono sepolti, sino a che qualcosa non smuove quella staticità. Ci sono risposte che seguono una genesi dolorosa. Altre invece scardinano una liberazione, una fuga inaspettata. Simile alla corsa di un bambino che sorride alla spensieratezza. Eppure quando si cerca il perché della vita è con noi stessi che bisogna fare i conti. Con quello che abbiamo dentro. E’ lì che nascono le risposte che sottomettono il destino di ogni uomo ad una prova ancora più grande. Uscire vittoriosi dall’eterna lotta tra l’essere e l’apparire. La trasformazione di una piccola cellula in quello che sarà un uomo, una donna. Sotto lo sguardo immobile del cielo, il tempo divora lentamente ogni passaggio della nostra vita. E mentre lui cresce, si fortifica, fino a diventare l’essenza ed il ricordo di come eravamo, prima semplici cellule, poi ossa, carne e muscoli, così il nostro viaggio sulla terra man mano si avvicina alla fine. Ed in quel percorso che si snoda ciò che siamo e che saremo. Prima annidati nel corpo di un altro essere. Poi staccati a forza da quel ventre. Chi con una spinta autonoma, chi con un taglio netto. Un distacco comunque vigoroso. Necessario. La nascita genera la materia di cui siamo fatti. La realtà tangibile che ognuno di noi ha davanti all’altro. Ciò che si riflette in uno specchio. I tratti. Le peculiarità di un sorriso. La dolcezza di uno sguardo. Il colore dei capelli. Eppure dentro di noi c’è ancora un embrione in evoluzione: l’anima. Appena nati non ha ancora la dimensione dell’essere umano. Troppo piccola o forse troppo grande per vivere in un corpo così soffocante. Uguale e diversa da ogni altra, sottomessa alla percezione del tempo. Alla sua immagine in continuo divenire. Ci vive dentro senza saperlo. Un inquilino trasparente che osserva mentre ci trasformiamo da neonati a bambini, da bambini a ragazzi, da ragazzi ad adulti. E mentre guarda questo cambiamento così lievita nel corpo espandendosi sino a riempire ogni cavità. Sino a diventare la chiave della nostra esistenza. Legata al cuore, mitiga nei suoi battiti il ticchettio del tempo che scorre. Anima prima incosciente e temeraria, poi matura e decisa, infine assillante sino a diventare, alcune volte,  ingombrante. Una presenza che non ci lascia mai soli, neanche quando tentiamo di cacciarla. L’anima comprende l’incomprensibile. Si apposta negli angoli e stana la paura.  Diventa l’istinto migliore, la percezione ed il pensiero di mille e mille azioni. Giuste o sbagliate. E’ sempre lei che dirige l’orchestra. Accordando gli strumenti durante la maturità. L’anima pretende una scelta e noi seguiamo quella che ci sembra più giusta o opportuna. E sentiamo che ci parla con linguaggi sempre diversi che non sono fatti di parole. A volte è un semplice profumo, simile all’essenza dei fiori di campo. Ci entra nelle narici e ci inebria i pensieri. A volte è simile ad un respiro affannoso che ci lascia attoniti e desolati. Ogni singolo sussulto della sua consistenza aerea crea una sensazione, sempre unica, sempre diversa. Tormento o estasi. Ansia o tranquillità. Fatica o riposo. Amore o odio. E questo accade perché: "c'è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo, c'è uno spettacolo più grandioso del cielo ed è l'interno di un'anima". (Victor Hugò) 


IL GOL



Tutto si svolge come da copione. La presenza si materializza fulminea. Una scarica di luce ed immagini risucchiati da una forza straordinaria. Anche se il tempo non viene percepito, tutto succede in fretta. Il terreno, se così lo possiamo chiamare, è pronto. In perenne attesa di quell’evento, si conforma all’orma, sottomettendosi a quel peso strano. Appena l’impronta segna il suo calco così un recinto viene innalzato. Paletti, mattoni o reticoli, generati da quello stesso terreno. Fissano e definiscono i contorni di ciò che è appena accaduto. Limitando i confini con altre recinzioni di legno, ferro, cemento o materiali sconosciuti. Ognuno di una consistenza diversa. Alcuni solidi, altri fragili, alternati come in un puzzle. Un evento naturale quanto necessario perché se quell’impronta non si fissasse nel terreno non ci sarebbe vita o meglio non ci sarebbe esistenza. Alcun orizzonte lieto da osservare ma neanche un serio pericolo da evitare. Cos’è il terreno e cosa l’impronta? Niente altro che la memoria e i ricordi. Ciò che permette di riconoscere il mondo e riconoscere noi in quel mondo. E dall’uso che ne facciamo ogni cosa dipende. A volte la memoria può semplicemente tenere lontano la mano dal fuoco. In quel caso l’uso è funzionale, adeguato al momento. Un nastro che, riavvolgendosi, ci avvisa cosa è dolore. Da bambini l’uso che ne facciamo è simile ad un registratore. Memoria su cui nessuno “rimugina”. Non si ha il tempo, travolti come siamo dalla crescita. Ma è nell’età adulta che iniziamo a “rimuginare”. E’ paradossale ma è con la maturità che si inizia a far uso, buono o cattivo, della memoria. Buon uso: separando la memoria che conta da quella di passaggio, di superficie. Simile al distacco delle foglie d’autunno da un albero che si prepara a ricevere nuovi germogli per la primavera. Segno che quei ricordi hanno fatto il loro tempo. Finiti per far spazio ad altro. Uno o più tagli per staccare ciò che non serve. Eppure la memoria custodisce un meraviglioso quanto misterioso progetto: la nostra vita. Nell’evoluzione di chi siamo e chi diventeremo la memoria si alterna, o dovrebbe alternarsi, con sapienza, al suo compagno, severo quanto necessario: l’oblio. Quando un ricordo viene a trovarci possiamo scegliere che uso farne. Se farlo diventare un’esperienza che ci costruisce, fortificandoci oppure se farlo diventare un tarlo, un’ossessione. Spesso la memoria è dolorosa. Dolorosa quando, senza rendercene conto, compiamo delle operazioni mentali che ci proiettano nel passato ed in quel passato restiamo imbrigliati. Continuando a tenere quel ricordo nei recinti della nostra memoria reiteriamo solo il processo e la condanna verso noi stessi o gli altri: “ho commesso un errore imperdonabile”oppure “non ho dimenticato ciò che mi ha fatto”. Ottime premesse per l’alterazione del presente e la chiusura al futuro. Spesso quando ciò che abbiamo è povero, deludente, cerchiamo conforto nella nostalgia di un ricordo, edulcorato, pieno solo di consistenze evanescenti. Eppure cercare asilo nel passato ci fa sentire sempre più insoddisfatti. Crogiolarsi in un rimpianto è solo un alibi per non rimettersi in gioco, per paura o timore di affrontarlo. Ma quel gioco è la vita ed è necessario scendere in campo, non rimanere in panchina, altrimenti altri segneranno il gol di svolta della nostra esistenza. Ed allora sì che rimarremmo schiavi dei rimpianti

VERDE SMERALDO



Il profilo aveva dei tratti in comune. Alcuni dicevano che era il naso, altri la fronte. Altri ancora rivedevano, nella bocca carnosa e nel taglio all’ingiù delle labbra, quasi un segno distintivo. Eppure era negli occhi che si riversavano i geni dell’appartenenza. Gli stessi occhi. Quel colore verde smeraldo, appena sbiadito da piccole pagliuzze della tonalità dell’ambra, simile ad una distesa di acqua salata al risveglio del sole. Occhi, quelli di lei, che rimanevano, spesso, a fissare il cielo, mentre gli occhi di lui si riempivano di pensieri pesanti. Occhi dell’attesa, i primi. Occhi della speranza di una vita che nasce e cresce nelle pareti del corpo. Vita che sguscia fuori da quello scrigno di liquido e calore avvolgente dopo ore di intenso travaglio. Vita desiderata e appesa alla speranza di rivedere un sorriso sereno. Un corpicino sano, una bocca che prende aria e rilascia un pianto che suona, nei timpani, note felici. Gioia che si liquefa nel primo vagito. Gioia che un pensiero solo non riesce a contenere, tanto è infinita, senza confini. Bocca che si attacca al seno e da quello prende il primo nutrimento, la prima goccia di amore puro. Amore senza richieste di ricompense o pretese di essere ricambiato. Quello che si condensa nel latte e dal latte si trasforma in ossa, muscoli, nervi, organi, sviluppando la crescita. Definendo l’evoluzione di un piccolo ometto in un uomo di quarant’anni o poco più. Latte come riserva di anticorpi. Guerrieri contro le malattie del corpo, che si assiepano nelle mura del castello e non temono gli attacchi dei batteri, dei virus della quotidianità. Guerrieri che sfidano febbre e tosse, che si aggiungono alle truppe a cavallo: ai vaccini. Vaccini che si trasformano, moltiplicando l’esercito, per salvare dagli agguati più cruenti quell’ometto ancora in fasce. Guerrieri che diventeranno gli abitanti di quel villaggio in continua crescita, durante il suo cammino nel tempo. Guerrieri che, tuttavia, nulla possono o potranno contro un unico nemico. Quello che si nasconde, senza lasciare traccia del suo ingresso, nelle alture del cervello. Annidato o forse addormentato, ma pronto a mettere i piedi sul terreno, in qualsiasi momento, e dare battaglia alla ragione, al sentimento stesso di appartenenza. E fu proprio in quegli occhi smeraldo che lei vide se stessa, un attimo prima di essere annientata. Un attimo prima di essere travolta da quella vita che lei stessa aveva messo al mondo. Vita ridotta fuoco e fiamme da quel nemico silenzioso: la depressione. Eppure cinque minuti prima erano seduti a fare colazione. Il solito orario. La solita tazza di caffè. Il pane appena tagliato, il coltello adagiato sul tagliere, alla maniera di sempre. Il barattolo di marmellata di amarene fatte in casa: la sua preferita. Il latte comprato fresco, giù al negozio, ogni mattina. La solita routine da quando lui era un bambino fino ad oggi. Lei che va in camera sua. Apre lentamente le serrande. Con un filo di voce gli sussurra che è ora di alzarsi. Lui che mormora e farfuglia sempre le solite frasi. Imprecando il destino di averlo rinchiuso ai margini della società. Da quando aveva perso il lavoro non era più lo stesso. Poi un mezzo buongiorno stretto tra i denti. Non il solito buongiorno. Lei che si accorge di quella deviazione dalla consuetudine ma non gli chiede spiegazioni. Prende lo zucchero ed aggiunge due cucchiai, come sempre, nel caffè fumante. “Oggi cosa preparo per pranzo?”. Sempre la stessa domanda. Lui che stranamente non risponde. Non beve il caffè ma afferra il coltello e lo affonda nella gola di sua madre. Lo stesso coltello che rivolge verso di se e trancia la carotide in un solo gesto. Occhi increduli, quelli di lei, che vorrebbero fissare il cielo ma sono bloccati dal soffitto cupo e sporco di sangue. Occhi stravolti, quelli di lui, che si staccano dai pensieri e diventano leggeri. Occhi verde smeraldo che si spengono nello stesso momento. Occhi che si ricoprono di sangue, che zampilla dalla gola, che li abbandona alla stessa velocità e li riannoda nella morte così come erano stati nella vita.  

IL SEGRETO



Come una manciata di brio, sparsa dalle mani del tempo, leggera si muove, quasi danzando, nell’ immensa solitudine del mondo.
Sorprende gli animi in cammino, chini sul quotidiano tormento della fretta o distratti dal fragore del progresso. 
Come un respiro bianco, improvviso, di ghiaccio, spinge la dolcezza nei polmoni. Rianimando, profondamente, gli anni che ognuno si porta addosso. Eppure ha una forma senza alcuna pretesa o manie di grandezza. Piccolissimi pezzetti di ovatta, sfilacciati, morbidi, dalla consistenza simile allo zucchero filato. Non appiccicosa però, semmai amabile, rigenerante. Scende ad accarezzare ogni cosa. Sottolineando il silenzio dei boschi. Addolcendo i profili dei monumenti. Mascherando il brutto, esaltando il bello. Sospinta dal vento o annodata alla nebbia, si posa sul presente e lo trasforma in una cartolina della nostra fanciullezza. Chi di noi, almeno una volta o più di una volta nella vita, non l’ha mai toccata, non l’ha mai sentita appiccicarsi alla pelle o infilarsi tra i capelli, ricoprire la sciarpa, il cappuccio ed il cappotto? Chi non l’ha mai vista confondersi con la luce del giorno o con quella dei lampioni, nelle notti di tormenta? Chi non l’ha mai sognata nel caldo del piumino? Chi non l’ha mai desiderata nel risveglio del mattino? Chi non l’ha mai assaporata mescolandola al vincotto? Chi non l’ha mai afferrata, compattata, fatta persona, o meglio, buffo pupazzo? Chi non l’ha mai lanciata, nel gioco dei sorrisi e dei geloni? Probabilmente ognuno di noi ha o ha avuto a che fare con la neve. Ognuno di noi l’ha ospitata negli occhi, guardandola scendere lenta, dietro un vetro, a scuola, in ufficio, in macchina, a casa. E quell’immagine, insieme al vissuto, rimane nella mente per essere, ogni volta, riaperta da vecchie e nuove emozioni. Per i metereologi la neve è solo una precipitazione di acqua ghiacciata e cristallina. Per ognuno di noi la neve è altro. Ha un significato uguale e diverso al tempo stesso. È una dolce giuggiola da sciogliere in bocca, lentamente. Ed ogni papilla avverte un gusto suo, privato, personale. È una sensazione di carmico benessere. La percezione di un momento che si veste più di romanticismo che di effettivo disagio. E’ una pedina di luce sulla scacchiera del passato. Quella che fa riapparire il bambino nei panni dell’uomo e, con un colpo di spugna, dissimula i brutti pensieri e li rende, anche solo per un attimo, evanescenti. Così, ogni volta che essa riappare, riappare anche quel segreto. Un marchio di fabbrica nel suo dna di cristallo. Una magia che si ripete, incessantemente, con le stesse fluorescenze di sempre. Con le stesse scie di felicità. Come in un remake ci proietta nei giorni dell’infanzia, assimilando tempo al tempo. Riducendo le distanze con chi siamo stati. Riannodando, nel corpo, fili di spensieratezza perduta. Ecco“la neve ha questo Segreto, ridare al cuore un alito di gioia infantile che gli anni ci hanno impietosamente strappato.”

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