DOLCE AMARO


Spinte leggermente da una brezza estiva, mentre il sole donava il suo carico di caldo alla terra e le poche nuvole si rincorrevano per fondersi e scomparire, sembrava quasi di vederle. Camminavano costeggiando lo stesso sentiero. Di tanto in tanto si fermavano per osservarsi, badando bene di stare alla giusta distanza. Eguali nelle fattezze e movenze femminili ma ben diverse, se non opposte, in tutto. Specialmente nel carattere. Gli occhi apparentemente simili nel taglio e grandezza ma difformi nei colori. Colori che si rispecchiavano nei loro vestiti che avevano, anch’essi, una diversa fattura. Il primo cucito con intrecci di seta ed ali di farfalle, con fasci di colori arcobaleno, dai più tenui a quelli più intensi, a creare riflessi meravigliosi, sempre cangianti. La gonna, concepita con spacchi a diverse altezze, sembrava attorcigliarsi e snodarsi tra le gambe filiformi, sottomessa alla danza ritmica del vento, tenuta alta in vita con un laccio di margherite fresche. A questa era unita una camicia, con preziosi inserti in pizzo, che lasciava le spalle scoperte. Il secondo cucito con scampoli di lana grezza e fuliggine, con la monotona prevalenza del grigio e qualche soffio di nero sparso a macchia. Nero che dava pesantezza ed immobilità alla gonna che partiva da un bustino steccato, quasi una sagoma di creta sul corpo. Erano dirette verso la stessa meta e mentre si muovevano tenevano gli occhi puntati sulla persona che, al centro della strada, camminava insieme a loro. Partite nello stesso istante, nel momento in cui era stato stabilito che tutto avrebbe avuto inizio. L’accortezza era quella di non farsi notare. Essere presenti, attive, ma silenziose. L’incipit era stato seguire una neonata che cominciava a gattonare sul pavimento di casa. Poi una bambina che si dirigeva a prendere posto in classe, nella sua prima esperienza scolastica. Ed ancora una ragazza che dava i primi passi di danza. Ed ora quella donna che si incamminava verso l’altare. In quel nuovo percorso, ma non soltanto in quello, dovevano essere, ed era questo il loro disegno, una sorta di presenza assenza. Una tesi ed un’antitesi, silenziosa e fragorosa: quando una si fosse avvicinata l’altra avrebbe dovuto indietreggiare. Un obbligatorio scambio di posizioni, intenso e faticoso, che trasmigrava e si riproduceva nel tempo. Che non trovava riposo e ristoro neanche di notte. 
Era quello il grande cammino della vita dove FELICITA’ e TRISTEZZA si muovevano nella stessa direzione, tenendosi ai rispettivi angoli delle strade. Strade percorse e battute, senza sosta, da ogni uomo e donna che si rispetti. 
Così, nel solstizio del quotidiano, quando la tristezza si avvicina per avvolgerci e sottometterci, opponendo un fiume di lacrime nere, la felicità cerca di non farsi travolgere dalla piena, si scansa e trova riparo altrove. Riparo necessario per riprendere le forze e tornare rinvigorita nel momento opportuno o quando meno ce lo aspettiamo. E nell’attimo in cui questa riesce a riprendere possesso del mondo che le era stato sottratto, sgomberando il campo, reso arido dalla battaglia, dai detriti del dolore, è allora che innesta nuova linfa nel terreno. Soffia, sulle nostre bocche asfittiche, aria purissima, tramutando in un sorriso lo sconforto, lo sgomento. In quel momento la tristezza deve lasciare il campo, ma non scomparire. Si nasconde dietro i cespugli, osserva la scena e medita vendetta. Così, in un gioco a nascondino e farsi tana a vicenda, il destino ci prende, le prende e, attraverso quell’incessante sfida, ci fa vivere un carosello di emozioni. 
Senza questo scontro perenne, senza questa battaglia sconfinata, nulla avrebbe senso. O meglio. Nulla avrebbe il senso che dovrebbe avere. Nulla che valga la pena di essere raccontato. Perché è solo dal confronto col dolore, con i suoi innumerevoli spettri, che si comprende la gioia e la sua più intima essenza. Perché la vita è un dolce amaro. 
Dove l’amaro è l’ingrediente necessario per farci apprezzare l’infinita sua dolcezza.   

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