Io, ad esempio...

Se mi guardo intorno non posso fare a meno di pensare a com’era la mia esistenza quando vedevo i colori. 
Al gusto voluttuoso di scoprire ogni traccia, densa o sfumata, di brio, di espressività, di vita. 
Dal rosso vermiglio di un bocciolo di rosa appena schiuso, al verde smeraldo degli occhi di mia figlia appena sveglia. 
Dall’azzurro indaco di un cielo terso, brillante, così uguale agli occhi di mio figlio, al giallo ocra di un sole estivo che scalda la sabbia dorata. 
Eppure, nonostante tutto, firmerei una cambiale in bianco per rimanere così come sono e dove sono. In questo mondo opaco, dai margini sbiaditi, bianco e nero, ma con gli occhi aperti alla luce, allo sguardo basilare e sufficiente per dire: sono viva. Questo perché so, perché sono consapevole, che tutto, da un momento all’altro, potrebbe precipitare. Ritornerei nel buio totale (o peggio ancora). I dottori la chiamano recidiva ed hanno etichettato il mio presente e le mie aspirazioni incollandoci un post-it con su scritto: “a rischio”. Allora ogni cosa cambia ed ogni cosa ti cambia. E’ strano ma è così. Siamo alla perenne ricerca della verità. Vogliamo sapere tutto, a qualunque costo. Ma quando sappiamo che succede? Vorremmo non aver saputo? Sapere è come avere la punta di un coltello ferma sul cuore. Punta che, ad ogni respiro, abbozza un affondo e punge, fa male ma non ti uccide (almeno per ora).  Io, ad esempio, avrei voluto non sapere. 
Non sapere di stare in equilibrio su una fune sottile. 
Non sapere che cadere o rimanere in piedi non dipende da me ma da qualcosa che, all’improvviso, muove la fune o mi spinge. 
Non sapere di essere diventata, mio malgrado, una funambola del destino. Ma in questa forzata (e purtroppo consapevole) condizione penso alla disattenzione che ci portiamo dietro quando abbiamo tutto quello che ci serve e non ce ne rendiamo  conto, almeno fino a che non perdiamo quello che abbiamo dato per scontato. E non mi riferisco soltanto ad un concetto fisico ma ad ogni cosa. Sia che ci appartenga come corpo, sia che ci graviti intorno come relazione. Alla fine dei conti quando questo accade, quando perdiamo qualcosa o qualcuno che prima non valorizzavamo, capiamo. Capiamo che sono gli attimi che costruiscono una vita e non gli anni. Attimi che dovremmo apprezzare (nel momento in cui accadono) e custodire: ci serviranno come balsamo per sciogliere i nodi di sconforto che prima o poi capiteranno. Capiamo che sono le persone che incontriamo a darci lezioni ed insegnamenti utili per vivere (ed anche sopravvivere), non la scuola, l’università, i master. Insegnamenti che ci faranno capire il senso delle relazioni, la differenza tra l’amore e le illusioni d’amore. Eppure, spesso, traslasciamo la concretezza del primo, dandone per scontata la presenza, rincorrendo le evanescenze. Quelle farfalle che mai prenderemo nella rete. E quando rimarremo senza fiato, per aver corso troppo, capiremo che il nostro viaggio è stato senza meta e, voltandoci indietro, vedremo l’altra sedia vuota o magari occupata. Capiamo che è camminare a piedi scalzi e non prendere la macchina, il treno, l’aereo, a farci spostare di posizione. Capiamo che sono le ferite a vaccinarci, a permetterci di prendere delle decisioni (giuste o sbagliate che siano) e non i consigli dell’amico, della madre, della zia o di chi si arroga il diritto di dirci che pulsante pigiare. Ed allora ogni particolare diventa fondamentale. Ogni emozione diventa respiro, ogni battito diventa sangue, ogni cellula diventa corpo, ed ogni cosa diventa di fondamentale importanza per la vita stessa. Niente è più superfluo, tutto è essenziale. Perché spesso una cosa diventa importante non quando c’è, quando crea uno spazio da occupare ma quando forma un vuoto da riempire, nel momento in cui non c’è più.  

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