venerdì 13 giugno 2025

Pensieri Stravaganti - L'educazione Impossibile

 

Il fatto: tragico omicidio di una ragazzina quattordicenne, poco più che bambina quindi.  

E’ ripartita la solfa dell’educazione affettiva (sovrapposta a quella  sentimentale e – ancora più arbitrariamente – a quella  sessuale). Cioè la fatua discussione  intorno a un (fantasmagorico) percorso formativo, mirato a sviluppare la consapevolezza e la gestione delle proprie emozioni e – nientepopodimeno che -  delle relazioni interpersonali. Non si capisce il collegamento tra gli orrendi femminicidi e la carenza di competenza emotiva. Secondo il pensiero mainstream, questa dovrebbe diventare materia  scolastica, senza che siano mai specificati l’oggetto, il grado e la fascia di età di introduzione e il tipo di capacità di insegnamento richiesta.
Il tema si è trasformato in un’oziosa disputa ideologica, per cui le forze di opposto orientamento politico si contendono il nulla. Più prosaicamente, la questione non è il deficit di robustezza psicologico-comportamentale, bensì la mancanza di educazione tout court.  Ossia di quella che una volta usava chiamarsi – senza distorsioni comunicative -  buona educazione, galateo, creanza: meglio,  saper vivere. Tutte e tre le agenzie educative – famiglia, scuola e collettività – convergevano verso un principio minimo e inderogabile di convivenza che non era minimalismo esistenziale. Nessuno osa  dirlo ma si tratta di una questione morale. 
Di stabilire e inculcare ciò che è bene o male fare. Si scontano pateticamente, e in nome del politicamente corretto, l’ abiura all’etica, l’infingardaggine genitoriale ( omo o etero, non importa ), la mediocrità culturale della classe politica. L’educazione della persona è un susseguirsi  – mai lineare, coordinato e prevedibile - di atti, eventi e comportamenti. Non è suscettibile di infusione didattica né di meccanica trasmissione cognitiva. Insomma, l’educazione affettiva è impossibile.


*AntropoLogos si è trasformato in Pensieri Stravaganti - Sempre a cura del nostro Mino Mastromarino


giovedì 12 giugno 2025

BiblioIlde - "Tutti gli indirizzi perduti" di Laura Imai Messina



Un luogo magico e denso di significati, l’Ufficio postale alla deriva nell’isola di Awashima in Giappone, in cui si raccoglievano le lettere di tutti gli altri indirizzi perduti della terra: c’era qualcosa di speciale che legava tutti coloro che avevano scritto a quell’ufficio postale, erano lettere di poche righe e si deve immaginare la vita che c’è dietro, perché conteneva sempre un segreto che va protetto e custodito.

Sono tante e sono rivolte agli elementi più disparati, come alla foglia rossa, al primo bacio, alla mamma, alla sconosciuta seduta sulla panchina di una stazione, al proprio cuscino, ai caratteri delle parole, alle cose perdute della propria vita; particolarmente struggente era la lettera alla vecchia vicina di casa che leggeva i libri ad alta voce, perché sua madre era sorda e muta, lei accettava di entrare in camera quando era già a letto, si sedeva al contrario, dandole le spalle, non le rivolgeva un saluto, era convinta che la voce che leggeva le storie appartenesse a sua madre, che le accarezzava il viso e si rendeva conto che aveva regalato a sua madre e a lei la propria voce.

Risa, la protagonista, era figlia di Kato che consegnava la posta e ammirava il lavoro del padre, che distribuiva lettere e, in questo modo, rafforzava le relazioni tra persone distanti o addirittura sconosciute, perché “le magie più strabilianti avvenivano tra sconosciuti”: aveva impresso su di lei tracce incancellabili, mentre sua madre le aveva insegnato la poesia. 

Suo padre le aveva insegnato che un indirizzo si può cambiare o può sparire e ciò si lega alla fragilità dell’essere umano: egli avrebbe avuto una storia da raccontare su ogni indirizzo, perché distribuire lettere ti fa volere bene alle persone, non solo a quelle che conosci, ma anche a quelle di cui non sai niente. Era importante per lui l’idea di amare le persone proprio in quanto persone, senza sapere niente di loro e vivere l’emozione che ti provocano quelle lettere, perché “il pericolo della sofferenza è pensare che il proprio dolore sia diverso dagli altri”.

Nei suoi ricordi, la stanza del padre traboccava di carta e spesso egli salvava dal macero le lettere che non venivano recapitate e le conservava nella propria abitazione: le lettere esprimevano profondamente il bisogno di comunicare con quella persona e le persone continuavano a scrivere, anche se non hanno più un indirizzo, perché “scrivere le fa sentire bene”.

Il sabato era l’unico giorno che l’ufficio postale alla deriva veniva aperto al pubblico e vi era un arrivo costante delle lettere: donne che scrivevano alle loro versioni future, immaginando il giorno in cui sarebbero divenute mamme, bambini che vivevano poeticamente il mondo, sentimenti, inespressi a voce, che sbocciavano invece sulla carta, trasportati dall’ immaginazione.

Risa era stata una bambina decisa a farsi amare senza riserve, anche se soffriva per gli atteggiamenti strani e problematici della madre, che riusciva a ridurre in cenere tutto ciò che per lei contava. Si era trasferita là, perché era convinta che sua madre avesse mandato le sue lettere all’”Ufficio postale degli indirizzi perduti” e cercava, di nascosto da tutti, di trovarle, per dare una forma ai sentimenti che di solito scorrono via. La fatica di vivere di sua madre l’aveva spinta a credere che “quanto non si vede, non si tocca e non possiede un nome può essere persino più importante di ciò che si vede e si tocca”. Le aveva insegnato la poesia nel linguaggio che lei conosceva, perché “sua madre diceva per non svelare, parlava per non dire”. Per tutta l’infanzia, Risa aveva tentato di cucire insieme le parti della sua vita: aveva perso sua madre a nove anni, quando la sua testa se n’è andata da un’altra parte e a ventisette, quando era morta. La ricordava bellissima, come se il fantasma della follia fosse svanito insieme alla vita, finalmente era tornata se stessa. Risa scrive ogni mattina una lettera e la spedisce a suo padre che aveva sempre voluto risparmiarle il peso della malattia di sua madre. 

Improvvisamente Risa è colpita da una forte febbre e va in coma per parecchio tempo: da ragazzina teneva a bada le emozioni più  intense, perché temeva che potessero renderla instabile e soggetta allo squilibrio della madre e, dormendo, la sua mente metteva in ordine tutto e lasciava depositare le emozioni di anni difficili. Riesce a guarire anche attraverso la vicinanza di tutti gli abitanti dell’isola e si rendeva conto che aveva paura di lasciarsi andare ad un sentimento di amore, per paura di soffrire. 

Alla fine sembra chiudersi un cerchio: trova una lettera del padre, che le scrive di non aver paura di assomigliare a sua madre, perché ciò che le accomunava era  la fragilità, non la follia: era una donna speciale, ma non era stata mai brava a reggere pesi e le raccomanda di avere più degli altri cura della sua anima.


The Moonlight's Verses - Elena Deserventi


*

Into silence I descend
I don’t want to recount myself
I seek to nestle
where the tenacious ryegrass
precludes every passage
I’m a stranger to myself
indifferent to you
Against chaos I stand still
without knowing whether
I breathe in a dream or whether
Thanatos envelops me 
at the bottom of the Lethe.


*

Scendo nel silenzio 
non voglio raccontarmi
cerco di annidarmi
dove il tenace loglio
preclude ogni passaggio
Sono straniera a me
indifferente a te
sto immobile nel caos
senza sapere se
respiro in sogno o se
mi avvolge Thanatos 
sul fondo del Lete.