Un luogo magico e denso di significati, l’Ufficio postale alla deriva nell’isola di Awashima in Giappone, in cui si raccoglievano le lettere di tutti gli altri indirizzi perduti della terra: c’era qualcosa di speciale che legava tutti coloro che avevano scritto a quell’ufficio postale, erano lettere di poche righe e si deve immaginare la vita che c’è dietro, perché conteneva sempre un segreto che va protetto e custodito.
Sono tante e sono rivolte agli elementi più disparati, come alla foglia rossa, al primo bacio, alla mamma, alla sconosciuta seduta sulla panchina di una stazione, al proprio cuscino, ai caratteri delle parole, alle cose perdute della propria vita; particolarmente struggente era la lettera alla vecchia vicina di casa che leggeva i libri ad alta voce, perché sua madre era sorda e muta, lei accettava di entrare in camera quando era già a letto, si sedeva al contrario, dandole le spalle, non le rivolgeva un saluto, era convinta che la voce che leggeva le storie appartenesse a sua madre, che le accarezzava il viso e si rendeva conto che aveva regalato a sua madre e a lei la propria voce.
Risa, la protagonista, era figlia di Kato che consegnava la posta e ammirava il lavoro del padre, che distribuiva lettere e, in questo modo, rafforzava le relazioni tra persone distanti o addirittura sconosciute, perché “le magie più strabilianti avvenivano tra sconosciuti”: aveva impresso su di lei tracce incancellabili, mentre sua madre le aveva insegnato la poesia.
Suo padre le aveva insegnato che un indirizzo si può cambiare o può sparire e ciò si lega alla fragilità dell’essere umano: egli avrebbe avuto una storia da raccontare su ogni indirizzo, perché distribuire lettere ti fa volere bene alle persone, non solo a quelle che conosci, ma anche a quelle di cui non sai niente. Era importante per lui l’idea di amare le persone proprio in quanto persone, senza sapere niente di loro e vivere l’emozione che ti provocano quelle lettere, perché “il pericolo della sofferenza è pensare che il proprio dolore sia diverso dagli altri”.
Nei suoi ricordi, la stanza del padre traboccava di carta e spesso egli salvava dal macero le lettere che non venivano recapitate e le conservava nella propria abitazione: le lettere esprimevano profondamente il bisogno di comunicare con quella persona e le persone continuavano a scrivere, anche se non hanno più un indirizzo, perché “scrivere le fa sentire bene”.
Il sabato era l’unico giorno che l’ufficio postale alla deriva veniva aperto al pubblico e vi era un arrivo costante delle lettere: donne che scrivevano alle loro versioni future, immaginando il giorno in cui sarebbero divenute mamme, bambini che vivevano poeticamente il mondo, sentimenti, inespressi a voce, che sbocciavano invece sulla carta, trasportati dall’ immaginazione.
Risa era stata una bambina decisa a farsi amare senza riserve, anche se soffriva per gli atteggiamenti strani e problematici della madre, che riusciva a ridurre in cenere tutto ciò che per lei contava. Si era trasferita là, perché era convinta che sua madre avesse mandato le sue lettere all’”Ufficio postale degli indirizzi perduti” e cercava, di nascosto da tutti, di trovarle, per dare una forma ai sentimenti che di solito scorrono via. La fatica di vivere di sua madre l’aveva spinta a credere che “quanto non si vede, non si tocca e non possiede un nome può essere persino più importante di ciò che si vede e si tocca”. Le aveva insegnato la poesia nel linguaggio che lei conosceva, perché “sua madre diceva per non svelare, parlava per non dire”. Per tutta l’infanzia, Risa aveva tentato di cucire insieme le parti della sua vita: aveva perso sua madre a nove anni, quando la sua testa se n’è andata da un’altra parte e a ventisette, quando era morta. La ricordava bellissima, come se il fantasma della follia fosse svanito insieme alla vita, finalmente era tornata se stessa. Risa scrive ogni mattina una lettera e la spedisce a suo padre che aveva sempre voluto risparmiarle il peso della malattia di sua madre.
Improvvisamente Risa è colpita da una forte febbre e va in coma per parecchio tempo: da ragazzina teneva a bada le emozioni più intense, perché temeva che potessero renderla instabile e soggetta allo squilibrio della madre e, dormendo, la sua mente metteva in ordine tutto e lasciava depositare le emozioni di anni difficili. Riesce a guarire anche attraverso la vicinanza di tutti gli abitanti dell’isola e si rendeva conto che aveva paura di lasciarsi andare ad un sentimento di amore, per paura di soffrire.
Alla fine sembra chiudersi un cerchio: trova una lettera del padre, che le scrive di non aver paura di assomigliare a sua madre, perché ciò che le accomunava era la fragilità, non la follia: era una donna speciale, ma non era stata mai brava a reggere pesi e le raccomanda di avere più degli altri cura della sua anima.