giovedì 8 maggio 2025

Perle - Simona Esposito - La tragica storia di Barbara Daly


A Disturbing American Tale 

Nel 1933 l'undicenne Barbara Daly e sua madre Nini si trasferiscono a New York con i soldi dell'assicurazione incassata per il suicidio del padre. Barbara è una giovane bellissima e nel giro di pochi anni viene invitata a tutte le feste più esclusive della Golden Era.

Inizia a lavorare come modella, va a Hollywood per un provino e torna con un marito: Brooks Baekeland. Il giovane è un ex pilota della Canadian Air Force ma soprattutto il nipote dell'inventore della bachelite, materiale utilizzato su larga scala in quel periodo, ed è carico di soldi.

Barbara lo sposa fingendo una gravidanza, che arriverà nel 1946 quando darà alla luce il figlio Anthony.

Nel frattempo la coppia si divide tra viaggi in Europa, dove possiede case in alcune delle località più esclusive, e feste in stile "Grande Gatsby" a cui invitano Greta Garbo e Tennessee Williams.

In breve tempo Barbara diventa un'alcolista e ha strani comportamenti: come la madre ha cominciato a soffrire di schizofrenia paranoide. Ma è molto abile a tenerlo nascosto.

La coppia sta per separarsi perché Brooks si è innamorato della figlia quindicenne di un diplomatico. Barbara minaccia il suicidio e la crisi rientra.

Nel frattempo Anthony si scopre omosessuale e ha una relazione con un australiano, Jake Cooper, che lo inizia all'uso di allucinogeni. Barbara va a riprenderselo in Marocco ma vengono arrestati in Spagna perché privi di documenti.

Restano in Spagna dove, per "curare" la "stranezza" del figlio, Barbara finge di accettare la sua relazione con Cooper ma lo spinge tra le braccia e nel letto di una giovane, Sylvie. Che però finisce anche nel letto di Brooks, che divorzia da Barbara, senza farsi impressionare dal suo ennesimo tentativo di suicidio, e la sposa. Barbara è già ossessionata da un curatore d'arte, Sam Green, per il quale fa follie come attraversare il Central Park sotto la neve, scalza e con addosso solo una pelliccia, per cercare di introdursi a casa sua.

Ma la vera ossessione è l'omosessualità di Anthony, che cerca di "curare" prima con l'aiuto di prostitute e poi intrecciando lei stessa una relazione incestuosa con il figlio. È convinta che la sua bellezza, che ha incantato innumerevoli uomini, possa essere la "terapia" giusta.

Anthony comincia a mostrare a sua volta i primi segni di schizofrenia paranoide ma il padre rifiuta di farlo curare, ritenendo la cosa "immorale".

Nel luglio 1972 a Londra Anthony cerca di uccidere la madre spingendola sotto una macchina. Barbara si salva. Rifiuta di sporgere denuncia. Anthony viene ricoverato. Barbara viene avvisata della sua pericolosità ma fa spallucce. A novembre Anthony ci riprova e pugnala Barbara alla schiena con un coltello da cucina nella loro casa di Chelsea. Barbara mu0re all'istante. Ha 51 anni.

Anthony va a vivere a New York con la nonna materna Nini Daly e tenta di uccidere anche lei con la stessa modalità. L'anziana sopravvive, pur in gravi condizioni.

Anthony viene arrestato e condotto al carcere di Rikers Island. La commissione medica che deve decidere della sua scarcerazione dà parere negativo. Anthony rientra nella sua cella e mezz'ora dopo viene trovato morto, un sacchetto di plastica stretto attorno alla testa.

Questa tragica e morbosa vicenda ispira il film "Grazia selvaggia" del 2007 con Julianne Moore. Disturbato dalla scena che lo mostra a letto con Barbara e il figlio, Sam Green minimizza: "Credo che le piacesse semplicemente scandalizzare la gente." Alla sua morte, la causa da lui intentata ai produttori era ancora irrisolta.








martedì 6 maggio 2025

Generoso Cresta: il poeta senza maestri che cerca l'infinito nei cieli dell'uomo



Ci sono versi e parole che non cercano l'avvallo del tempo, ma solo un luogo calmo, abitato dal silenzio giusto in cui svilupparsi, emergere, come un seme pronto a germogliare. Allo stesso modo ci  sono poeti che non seguono sentieri battuti dalla folla, strade già tracciate, ma camminano a piedi nudi sul margine delle vie più isolate, dove l’erba è ancora ricamata di rugiada ed il cielo resta una domanda sospesa. Generoso Cresta è uno di questi. 

Ha lasciato che la sua voce maturasse nel buio, tra quaderni lacerati e appunti custoditi come reliquie — e solo ora, dopo anni che sono stati radice, affida i suoi versi alla luce. Chi si avvicina alle sue liriche non incontra un autore tra gli autori, ma un uomo che ha scritto come si respira, per necessità e certo per mestiere. La poesia di Cresta non brilla, sussurra; non imita, ricorda; non spiega, evoca. 

E allora ci affidiamo a chi, come Alessandro Di Napoli, ne ha seguito da vicino il silenzio e il fiorire, e a chi, come Mino Mastromarino, ha saputo coglierne l’enigma e il fremito. Due voci diverse, due specchi inclinati a riflettere lo stesso volto: quello di un poeta che non ha chiesto nulla al mondo, ma ha donato ciò che il mondo aveva dimenticato di cercare.         


          

            Alessandro Di Napoli        

Davvero originale, e per certi aspetti rara, la storia di Generoso Cresta che ha deciso di rivelarsi dopo più di cinquant’ anni di silenzio. Per pudore, forse anche per riservatezza, ha preferito esordire a settant’anni da poco compiuti. Ha custodito i suoi ormai laceri quaderni e appunti senza decidere che farne per decenni e decenni, nonostante le mie e le altre sollecitazioni. I semi di ieri sono finalmente diventati frutti che ognuno di noi potrà assaporare e gustare. Nessuno di noi proverà le stesse emozioni e nemmeno le stesse gioie e le stesse malinconie che fecondano i suoi versi. Sono quelli di ieri: i semi di ieri diventati frutti al tempo giusto. Per Cresta, le sue parole di ieri sono ancora quelle di oggi.

Collocare la sua figura nell’articolato panorama della poesia italiana del secondo Novecento può sembrare un’operazione complessa, quasi proibitiva, considerato che il suo esordio è avvenuto nel 2022, più di cinquant’anni dopo la stesura dei suoi componimenti presenti nella silloge Le parole altre. Pur non avendo Maestri, Cresta è un poeta del secondo Novecento.

La posizione solitaria della sua opera rispetto alle correnti prevalenti della lirica e delle poetiche novecentesche è un dato che non può non essere ritenuto consolidato. Si tratta di una scelta consapevole che segna tutta la parabola della sua scrittura, a partire dalla sua genesi, avvenuta quando studiava a Napoli, e poi proseguita a Castelfranci, dopo il suo definitivo ritorno. Non si è trattato ovviamente, né di un isolamento né di una autoemarginazione. Per lui, scrivere versi, significava dedicarsi alla cura delle parole “altre”, come testimonia inequivocabilmente il titolo della sua silloge d’esordio, Le parole altre. L’inquietudine, la solitudine, l’impressionismo e l’espressionismo diventano così la cifra stilistica più significativa dei suoi componimenti. Nei suoi versi, si assiste ad uno scontro fra poesia e realtà che non impedisce all’uomo e al poeta di esprimersi liberamente e compiutamente.

Nei suoi componimenti ci sono versi memorabili e nelle sue due sillogi, più frequenti in questa seconda, testi davvero esemplari.

Il suo stile è diverso da tutti i poeti del Novecento e per non averli letti non ha subìto né prestiti né contaminazioni. Poche volte, compare qualche parola del passato che lascia pensare a una lontanissima parentela, sicuramente non cercata, con Montale:

        

Non chiedermi di guardare

         con occhi sicuri

         il destino di ogni uomo.

         Non chiedermi dove il sole tramonta.

         Non cercare in me il nido della pace.

         Essa segue il volo di un gabbiano

         la direzione del vento

         essa naviga sulle onde del mare

         per sciogliersi lontano

         fuori dal mio orizzonte.

         Posso solo dirti che la mia vita

         è nel soffio del vento

         in una goccia di pioggia

         in una foglia

         negli occhi di un uomo

         nel viale dei cipressi

         che il cuore percorre ogni notte

         per incontrare un fantasma

         che appare, rotola, svanisce.

        

Soffermatevi per qualche momento sul primo verso del componimento (Non chiedermi di guardare) e sull’undicesima (Posso solo dirti che la mia vita). Incontrerete, come per incanto, il clima e gli odori di una delle poesie più riuscite di Montale: Non chiederci la parola…, presente in Ossi di seppia.

Come Montale Cresta risponde a un tu, vero o immaginario, ma probabilmente a sé stesso. Il sintagma “Non chiedermi” è ripetuto due volte (v. 1 e v. 4). Nei primi tre versi al suo interlocutore vero o presunto fa presente di non poter “guardare/con occhi sicuri/ il destino di ogni uomo”. Per poi aggiungere che non gli deve essere chiesto neppure “dove il sole tramonta”, come se il sole possa tramontare in posti e luoghi diversi. E subito dopo, sempre con un verbo all’infinito, consiglia il suo interlocutore a non “cercare” in lui “il nido della pace”. Nei successivi cinque versi ne spiega la ragione (“Essa segue il volo di un gabbiano / essa naviga sulle onde del mare / per sciogliersi lontano / fuori dal mio orizzonte”).

Infine, ridando voce a sé stesso, chiarisce “solo” quello che può dirgli: “Posso solo dirti che la mia vita / è nel soffio del vento / in una goccia di pioggia / in una foglia negli occhi di un uomo / nel viale dei cipressi / che il cuore percorre ogni notte / per incontrare un fantasma / che appare, rotola, svanisce.”

Sul piano stilistico, due versi (v. 1 e v. 8) e altre tre parole (v. 5, v. 18 e v. 19) del componimento rimano fra loro: “guardare” (v. 1): “mare” (v. 8): “cercare” (v. 5): “incontrare” (v. 18): “appare” (v. 19). Gli stessi versi e le stesse parole assuonano con altre due parole: “pace” (v. 5) e “viale” (v. 16). Fra loro rimano altri due versi: “gabbiano” (v. 6): “lontano” (v. 9) e assuonano fra loro altre tre parole: “sole” (v. 4): “direzione” (v. 7): “cuore” (v. 17). Nell’ultimo verso sono presenti due virgole, dopo “appare” e “rotola”, riferite, insieme a “svanisce”, al “fantasma” del verso precedente.

Il suo è uno stile semplice, chiaro, leggibile. L’assenza delle virgole, fatte salve le rarissime eccezioni dove è presente, non incide minimamente sulla qualità stilistica e ritmica dei singoli componimenti.

Oggetti primari e universali delle sue poesie sono l’uomo, la vita e il mondo che ha costruito dalle origini ai giorni in cui scrive (infanzia, adolescenza, maggiore età).

I poeti sono giudicati per le parole che hanno scelto: le parole sono l’anima della poesia, non l’abito dei singoli componimenti. I poeti, le parole, le salvano dai loro incubi. E lui è riuscito quasi sempre a farlo.

Usa le parole per dirsi, per raccontarsi, per rivelarsi, per farsi conoscere, per condividere, con i possibili lettori, la storia della sua infanzia, dell’adolescenza e della sua coerente e mai contradditoria maturità.

Le sue sono le parole del cuore e dell’anima, molto spesso della sua ben custodita solitudine. È un giardino di parole il suo, intensamente ospitale, dove ognuno, conoscente, amico o lettore occasionale, potrà trovare il suo fiore preferito, cercandolo con cura nei suoi componimenti. Dovrà solo avere la pazienza e il buon gusto di cercarlo. Odorandolo non mancherà di stupirsi: gli odori dei suoi componimenti e dei suoi versi non appartengono a nessuno, sono solo i suoi che ha seminato e annaffiato negli anni per noi.

Dopo aver conseguito il Diploma liceale ed essersi iscritto alla Facoltà di medicina dell’Università di Napoli, non ha mai più letto poesie e non ha mai comprato una raccolta di versi. Della letteratura e della poesia dei secoli precedenti, primo Novecento compreso, la sua era solo una conoscenza scolastica.

Desiderava scrivere versi, poesie, sin da quando frequentava le scuole elementari e medie: lui li chiama appunti, che conserva ancora, come scritti allora, su quaderni con la copertina nera, se ricordo bene. Solo per caso, senza alcuna conoscenza delle polemiche di quegli anni, gli anni Settanta, trova nell’io il suo naturale protagonista poetico, come faranno, senza che lui ne fosse a conoscenza, Patrizia Cavalli (Le mie poesie non cambieranno il mondo del 1974), Dario Bellezza (Invettive e licenze, Garzanti, Milano 1971; Morte segreta, Garzanti, Milano 1976), Cesare Viviani, Nanni Cagnone, Milo De Angelis e Maurizio Cucchi per i quali è stata coniata l’espressione “decentramento dell’io”, non utilizzabile per la sua produzione poetica.

         Nei suoi componimenti non vi è la presenza di alcuna contaminazione, intesa come influenza, come invece è stata censita nella quasi totalità della produzione letteraria dei poeti del primo Novecento.

         Per ognuno di noi, come pure per i poeti, gli scrittori e i critici letterari protagonisti di quegli anni, si verifica un cambio di prospettiva: il poeta perderà prestigio intellettuale, pur diventando ospite televisivo (Amalia Rosselli, Vivian Lemarque, Piero Bigongiari e Edoardo Sanguineti, Margherita Guidacci e Elio Pagliarani, partecipano al programma televisivo L’Aquilone).

Lui invece rimane estraneo anche a queste vicende letterarie-televisive. Si potrebbe parlare di assenza volontaria, consapevole. Per diventare poeta, anche se lui si ritiene solo uno che scrive versi e solo quando ne avverte la necessità, non è necessario leggere gli altri poeti o studiare le Storie della letteratura italiana più risalenti o più recenti. Per non parlare dei poeti stranieri. Conosce, e non è davvero poca cosa, solo gli autori greci e latini, per averli studiati a scuola, quando frequentava il Liceo classico a Napoli.

Probabilmente, la sua produzione poetica, siamo ormai alla seconda silloge, dopo quella pubblicata nel 2022, somiglia, solo in parte, a quella di Luigi Di Ruscio, dal 1952 operario a Oslo, che sembra aver proposto una scrittura senza centro, che inizia da un “anno zero” e che da questa data ignota, l’inizio, ha tratto stimolo per la costruzione dei propri versi.

Col passare degli anni adolescenziali, Cresta continua a scrivere versi e continua a non leggere i versi degli altri. Forse, come ricordato non si ritiene neppure un poeta. Scrive versi, non sempre, neppure troppo spesso, lo fa perché escono spontanei dalla sua indole, dalla sua mente, dal suo corpo, dal suo cuore. Una cosa è certa: continua a non leggere i versi degli altri poeti.

È convinto che la lettura delle poesie di altri autori, seppure meritatamente famosi, non aiuta a scrivere meglio o peggio. Il che non vuol dire che lui scriva per sé stesso. Scrive perché sente la necessità di farlo e lo fa solo quando questa necessità diventa ineludibile, improcrastinabile.

Chiunque si occuperà dei suoi componimenti e dei suoi versi non dovrà fare proprie le definizioni elaborate in quegli anni: “dissipazione formale”, “ritorno all’ordine”, “maggiore educazione formale”.

I suoi versi sono originali, luoghi dove trovano spazio le sue emozioni, le sue idee, i suoi sentimenti, le sue delusioni, le sue amarezze, le sue speranze quasi sempre vanificate dall’esperienza storico-esistenziale non sempre positiva.

Non ama scrivere in metrica. In alcuni dei suoi componimenti si incontrano rime fra versi, poche, e rime fra parole, più numerose, e assonanze. Chi non ama le gabbie della vita non può amare le gabbie della metrica. All’impegno sociale degli autori di quegli anni, preferisce il travaglio interiore, proprio e del mondo che lo circonda e in cui è costretto a vivere, suo malgrado.

Sintomatico è che la sua poesia ha a che fare con colui che vive e guarda prima dentro sé stesso e poi nella vita e nel mondo. Il suo io è sia l’io interiore che l’io della vita, l’io della mente.

A una lettura non superficiale, sembra che eviti di confrontarsi con la storia di quegli anni. Nulla di più sbagliato. Come poeta, infatti, fa appello esclusivamente alla propria esperienza, si relativizza, preferisce dedicare i suoi versi e i suoi componimenti alla propria condizione esistenziale, che non è estranea a quella della comunità dove ha vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza, prima, e la  maturità, poi. È alla ricerca di una forma espressiva che possa raccontare meglio le contraddizioni in cui sente la vita scorrere immobile, immutabile, priva di prospettive.

È convinto, credo o almeno suppongo, che la poesia non possa e non debba svolgere alcun ruolo sociale né che possa incidere o condizionare il corso degli eventi. Scrive da tutt’altre premesse ideali e stilistiche. Tutte le volte che scrive, anche quando i versi rimangono nascosti o custoditi nella sua mente, il presente e il futuro gli sembrano costruiti dai detriti di un passato ormai per lo più inutilizzabile. A prevalere, nei suoi componimenti, è sempre l’esperienza soggettiva. Ascolta la vita, s’interroga sul destino dell’uomo.

         Le sue poesie vanno lette ad alta voce e quando è possibile lette dal lettore e commentate insieme all’autore. Solo post-mortem, l’autore perde la sua voce e se ne impossessa, diventandone padrone, il lettore, chiunque esso sia e dovunque viva.

         Fra le tante cose su cui non mi sono adeguatamente soffermato, perché questo non è un saggio ma una Prefazione, con questi suoi componimenti, proprio perché risalenti agli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, provava a tracciare un sentiero, pur muovendo delle premesse spontaneistiche, approdava a una forma, tutta personale e non solo per questa, originale, capace di tenere insieme aperture metaforiche personali e realismo esistenziale, in cui il phatos convive in un difficile equilibrio, senza riferimento alcuno alla tradizione filosofica e letteraria che, nel suo caso, arrivano a comporre un vero e proprio canzoniere di monologhi.

         I suoi versi, incisivi più di quanto sottolineato da alcuni, alludono a una storia della fine del Novecento, gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, completamente diversa da quelle degli autori esordienti di quel trentennio. Un altro Novecento il suo di cui s’avvertiva l’esigenza, dopo aver letto quasi tutte le raccolte di versi pubblicati in quegli anni, compresi i numerosi esordienti. Nei suoi versi di allora, che solo oggi possiamo finalmente leggere, è prevalente l’aspetto biografico.

         Per lui, le poesie sono un dono naturale, nascono da un talento innato che qualsiasi autore ha avuto ed ha in sorte da un chi che ci rimarrà sempre ignoto. Lui stesso, quando parliamo dei suoi componimenti, parla di un dono istintivo, che non sempre riesce a spiegare razionalmente. I versi dei suoi singoli componimenti non nascono facilmente, a volte hanno bisogno di sedimentarsi, di essere custoditi dentro di sé e poi escono come se fossero stati elaborati in quel momento, nei pochi minuti della loro deposizione su qualche pagina di un quaderno come quelli con la copertina nera di cinquant’anni fa.

         Questo non è un altro libro di poesia, il secondo, ma sempre lo stesso, come una pianta in continua crescita, seppure con intervalli privi di germogli.

         È difficile, se non impossibile, per quanto fino a questo momento sottolineato, stabilire quali fonti letterarie tradizionali, quelle della letteratura classica e letteratura italiana nel suo complesso, abbiano favorito la nascita dei suoi versi e di gran parte dei componimenti pubblicati in queste sue due sillogi e, forse, anche nella terza.

         Per questa sua estraneità alla poetica italiana del Novecento, nella sua produzione poetica non incontriamo il “lamento” lirico-elegiaco presente in alcuni autori né i residui dell’impegno civile o neorealista del secondo dopoguerra.

         E costituisce per questo una significativa e originale eccezione alla linea ufficiale della poesia italiana del Novecento che invece si fonda, a partire almeno da Montale, sul presupposto antropologico della felicità negata o resa impossibile dalla storia dell’intera umanità. Nei suoi componimenti, o almeno in gran parte di essi, si riafferma la tendenza “esistenziale” che aveva preceduto e si era affermata prima dell’esordio di Montale.

         La sua poesia si nutre essenzialmente della sua esperienza biografica, nella quale il linguaggio in versi abita lo iato tra l’io e l’infinito, la scrittura e l’inafferrabile, la realtà e il non conoscibile. Resta a noi lettori, nonostante le evidenti difficoltà dovute alla sua palese estraneità a cui abbiamo accennato, cercare di avvicinarci e tentare di capire il senso profondo di una tensione espressiva che non ha alcuna parentela con la linea ortodossa del Novecento poetico.

         Un’estraneità la sua, quella alla poesia e alle diverse poetiche del Novecento, che ci coglie di sorpresa e che condiziona fortemente la nostra lettura, abituati, per la nostra formazione, a soffermarci, tra l’altro, su “prestiti” e “debiti” contratti dalla gran parte dei poeti del Novecento con i poeti dei secoli precedenti. Una tensione libertaria, la sua, che spesso assume, consapevolmente o meno, un’inquietudine umana, esistenziale. Nel suo lessico ci sono, ovviamente, anche le parole del vocabolario di quanti lo hanno preceduto. Il loro uso, però, non è lo stesso, è originale oltre che diverso.

         Tra Le parole altre e Io cerco l’infinito nei cieli dell’uomo esiste una interna e sotterranea continuità. Persino le scelte linguistiche non producono alcuna cesura, non vi è un prima e un dopo. Il tutto non è giocato sull’uso delle forme impersonali. Lo svolgimento delle singole liriche, in entrambe le sillogi, è incentrato generalmente sulla prima persona singolare, in pochi componimenti sulla seconda e in alcuni, pochi il “tu” è correlato all’ “io”.

Con i suoi versi vuole parlare a tutti, a chiunque sia disposto a leggerlo e quindi ad ascoltarlo. Senza per questo sentirsi né un depositario né un invalido della parola dei poeti laureati, quelli che non ha mai letto nei suoi anni giovanili e che continuerà a ignorare ancora oggi. Le sue parole non accecano né trasformano in visionari i possibili lettori, ma rendono solo più acute le percezioni della miseria umana. Cresta sa che la sua poesia è figlia di una storia incomprensibile, che non produce illusioni, che non alimenta la speranza, mostra semmai il disadorno vestito della vita. Forse, come Montale, sa che le poesie sono “un prodotto assolutamente inutile”. Ed è proprio per questo, probabilmente, che io continuo a leggerle e altri, con amore e passione, come fa Cresta, continuano a scriverle. E Cresta, nonostante questa disarmante consapevolezza, continua a cercare, senza per questo smarrirsi, l’uomo, e un po’ sé stesso, “nei cieli dell’infinito”. Come suo lettore, gli auguro di trovare entrambi: l’uomo e se stesso.


Mino Mastromarino 

Dopo ‘Le parole altre’, Generoso Cresta ci ha regalato un’altra, benvenuta raccolta di poesie: Io cerco l’infinito nei cieli dell’uomo.  

E’ una conversazione perpetua tra l’Io e il Mondo, quest’ultimo inteso come Alterità, Natura e Amore. Non ricorrono  quindi temi dominanti, non c’è  asfittica concentrazione su di una specifica questione. Di nostalgia, di paesologia, di  declino demografico, di insopportabilità della vita di provincia nemmeno un cenno. Signoreggia il soggettivismo, con qualche sparuta suggestione simbolista. Finalmente. 

L’Io lirico affronta la sua crisi ma non si scinde, non si dissolve . Non aderisce alla sirene moderniste. Non si lascia ingolosire dal flusso emotivo. Preferisce rimanere saldo, integro. 

Jorge Luis Borges, in Sette sere, ci ha invitato a evitare la tentazione di  parafrasare la scrittura poetica :  “ Sentiamo la poesia come sentiamo la vicinanza di una donna, o una montagna , un’insenatura. Se la sentiamo immediatamente, perché diluirla in altre parole, che saranno di sicuro più deboli delle nostre emozioni ? ”.  Per l’impareggiabile scrittore argentino, il lettore è solo di fronte all’ enigma della poesia. Anche il critico Alfonso Berardinelli, piuttosto che soffermarsi sulla Poesia e sui poeti, ha sempre insistito sull’unica, fertile possibilità discorsiva che fa seguito alla lettura delle singole poesie.

Si tratta di riconoscere e istigare il miracolo della  meraviglia. Del poeta e, soprattutto,  del lettore. Un utile richiamo  va alla perspicua antologia del prof. Di Napoli, intitolata appunto ‘Tra le forme della meraviglia’, che indaga l’epifania dello stupore nella poesia irpina contemporanea.   

La  lettura attiva trasforma, amplia lo spazio e la fecondità poetici. Dunque, facciamo nostra l’ambizione di Montaigne: « Un lettore perspicace scopre spesso negli scritti altrui perfezioni diverse da quelle che l’autore vi ha poste e intraviste, e presta loro significati e aspetti più ricchi». I versi ospitano rimandi, connessioni, escursioni, possibilità digressive: insomma, mostrano di conoscere più cose di quante ne abbia insinuate l’autore. 


Il titolo, nonostante l’enfasi,  lusinga il lettore promettendogli un insidioso rovesciamento acrobatico. Esso, a mezzo di  sussiego metafisico, traspone l’infinito dal cielo all’uomo. La finitudine del quale muta nell’infinito celeste. 

Tra le prime della silloge, quasi a suggerire  un itinerario ermeneutico privilegiato, irrompe ‘Mendicante’:   

<< Mendicante

 chiudo nel sacco tarlato

 tutte le illusioni

ora in un vicoletto senza sole

ora sotto il cielo stellato

al sorriso

dell’elemosina della vita>>.

L’autocoscienza della ontologica miseria umana definisce e condiziona  la relazione con l’Altro, ossia il Con–Esserci. 

In particolare, ci dispone alla corrispondenza con l’esistenza,  che infatti – e questo è un pregevole lampo lirico -  non si dà una volta per tutte, ma si concede alla stregua della erogazione  precaria e discontinua dell’elemosina. Degna di sottolineatura, giacchè riuscita, è la metafora della vita come permanente oscillazione tra il pessimismo ( tarlo ) delle illusioni e l’ottimismo iridescente del sorriso (esistenziale). La precisa formulazione della contraddizione onora l’idea della espressione poetica quale esperienza del limite. Serve pure a delineare il perimetro concettuale di ciò che è notoriamente precluso alla razionalità: il simulacro della vita autentica. 

Nello scrigno dei versi traspare la propensione dell’Autore per l’ombra. Il teatro della vicenda umana   - sia che si tratti di un vicoletto senza sole, che di un  cielo stellato -    non è mai irradiato da luminosità piena o eccessiva. Tutte le sensazioni, tutti i sentimenti sono mediati da una luce fragile, quasi un lucore. In particolare, la percezione visiva, il potere-dovere di vedere cui è dedicata – evidentemente -  la riportata poesia. 

Al senso uditivo, invece, sembra rivolgersi il testo  di cosa sfugge : 

<< Cosa sfugge

alle nostre orecchie

del pianoforte della vita: 

forse il tono duro

dei volti riflessi 

nell’osso bianco dei tasti

forse quel tono leggero che m’impronta pianista

a ricalcare la voce dei misteri >>. 

Ma è solo un attimo, perchè subito interviene  l’equilibrio di una sinestesia.   

L’abilità lirica dell’Autore intarsia ogni verso, attingendo con disinvoltura all’udito ( le nostre orecchie, il tono, la voce dei misteri ), al tatto ( pianoforte della vita, i tasti, l’osso, m’impronta pianista, ricalcare), alla vista ( volti riflessi, l’osso bianco, misteri), non disdegnando però la contaminazione dell’immaginario, dell’ ultrasensibile. 

Non manca  l’invettiva. Ecco che irrompe la  coppia  di componimenti ungulati, Cemento armato e Piange il salice: 

<< Cemento armato

 e finestroni di vetro

 quattro pini geometrizzati

trapiantati nella terra

 tra erbe selezionate

 giardino etichettato

“ senza spine o erbacce”

 E’ tutto l’essenziale

 già, manca solo l’indirizzo

 si sa solo che è di tale

insigne giurista >>

******

<<  Piange il salice

 nel cerchio di cemento

 cammina

 con gli zoccoli del diavolo

 l’uomo solitario

 Il labbro ha sussurrato

sentenze di morte

nel mercato della vita

dura a morire >>.

Cresta denuncia qui – con epigrammatico lindore -   la diserzione dell’Umanità e della Natura che pervade  la società , come quella attuale, ogni qualvolta si persegue la funzione a scapito dell’essere. 

Il cemento armato e i finestroni di vetro di una villa, e i quattro pini geometrizzati trapiantati (e non piantati ) del giardino circostante sono divenuti  l’essenziale, il nuovo paradigma di una vita edulcorata e deprivata di ogni imperfezione ( senza spine o erbacce)  e relazione sociale ( manca solo l’indirizzo ).  Ed anche  la Legge, che è stato il massimo strumento di educata regolazione dei rapporti umani, è degradata a una etichetta di impersonale e vacua erudizione ( tale insigne giurista, l’uomo solitario il cui labbro ha sussurrato sentenze di morte  ). 

Si sbaglierebbe, tuttavia, a ricondurre questi  versi al corrivo e abusato schema  dell’impegno civile.  Essi sono innervati dal furore della dissidenza nei riguardi del visibile, non già da insoddisfazione  sociale. Mirano - da una prospettiva profana -  a scardinare il mistero dell’esistenza. La poesia – è stato detto – costituisce un atto sovversivo rispetto alla realtà così come appare. 

Insomma, una tensione verso la nudità.

La scrittura poetica del Nostro, oltre a essere irriverente, è perciò felicemente incontemporanea. 

In Senza preludi  Cresta si misura con il Tempo: decostruendolo, demistificandolo.

<< Senza preludi e presagi

specchi e orizzonti

la vita corre

su fili di paglia

pensieri sfumati

All’alba

ascolta il silenzio del  tempo

crepa la terra fino all’ultimo grido

si tuffa nel fiume in piena

Ritrova lo scoglio già vinto.  >>.

L’alba non segna l’inizio, bensì il silenzio del tempo. La vita corre ma ritrova lo scoglio già vinto. L’acuto espressivo costringe il lettore a interrogarsi sulla natura soggettiva della dimensione temporale, che non è né lineare né progressiva né irreversibile .

Le caustiche interrogazioni di Cresta pretendono  - insolitamente – nuove domande o, meglio,  pseudo-risposte del tipo concepito  da Marguerite Yourcenar nel provocatorio componimento Risposte:

-Cosa hai per consolare la tomba,

Cuore sfacciato, cuore ribelle?

Il frutto maturo si appesantisce e cade.

Cosa hai per consolare la tomba?

- Ho il tesoro di essere stato.

-Cosa hai per sostenere la vita,

Cuore pazzesco, cuore stanco?

Cuore senza speranza, cuore senza invidia,

Cosa hai per sostenere la vita?

-Pietà per ciò che deve passare.

-Cos’hai per disprezzare gli uomini,

Cuore di ghiaccio, facile da spezzare il cuore?

Cos’hai per disprezzare gli uomini?

Cosa sei più di noi?

-Capace di disprezzarmi.


                                                                                                              

 

 

Misteri - Non ho barato - Maria Gabriella Cianciulli

Nella Rubrica MISTERI ospitiamo uno scritto di Maria Gabriella Cianciulli 

Non erano maschere di carnevale quelle che di tanto in tanto Umberto Sati vedeva alzando lo sguardo al televisore nell’angolo della sala d’attesa del poliambulatorio, dove si era recato per un consulto specialistico, poiché da tempo accusava forti crampi allo stomaco. L’infermiera, sopraffatta da un colpo di tosse, gesticolò per qualche secondo indicando il corridoio a sinistra pregandolo di raggiungere la sala ecografica, il verdetto fu inequivocabile: <<Signor Umberto lei ha una calcolosi in atto, dovrà togliere questa cistifellea al più presto>> tuonò il dottor Mauro Collante. Si portò fuori al balcone per una boccata d’aria con la sua mole di uomo nerboruto, ossidato dal lavoro di tranviere svolto in Brianza per 40 anni. Gli occhi cerulei guizzarono  sul viso tondo incorniciato da una capigliatura rossiccia e scompigliata,  inevitabilmente come sempre gli capitava si velarono di un leggero torpore per via del dolore addominale;  rientrando in sala d’attesa lo sguardo andò nuovamente al televisore nell’angolo che trasmetteva il telegiornale. Da qualche giorno l’attenzione dei media era sempre più focalizzata sull’arrivo di un nuovo virus che andava diffondendosi rapidamente nella regione di Wuhan in Cina,  la qual cosa sembrava essere circoscritta a quella regione, a quel popolo che nel giro di pochi giorni aveva messo su un ospedale, una città nella città. “Un virus...sembrano marziani vestiti così questi infermieri...non sarà mica venuto da una altro pianeta?” pensò...strizzando lo sguardo alla signora seduta affianco,  che in pochi istanti fu annebbiato dal fumo del sigaro tirato fuori dalla scatolina, in barba a Clara, appena fuori del poliambulatorio. << Ehilà, Giorgio, ho visto delle robe in tv, sai...c’è da qualche parte una di quelle cose lì...una sorta di influenza, di quelle che fanno compagnia durante l’inverno, soprattutto a quelli come noi...da rottamare!>> soggiunse. <<Va là Bedì, non siamo di primo pelo, ma ce la caviamo ancora, siamo di scorza dura noi, ad avercela la tempra come la nostra! Ormai di influenze ne abbiamo fatto una scorpacciata, cosa vuoi che sia una in più, non sarà mica la peste! Dobbiamo sempre tenere alto lo spirito, siamo stati nel corpo dei bersaglieri,  poi, sai cosa ti dico: crederci aiuta a riempire la vita! >> replicò Giorgio, facendo trapelare un sorrisetto dei suoi di mentre lisciava  i baffi, quando lo sguardo cadde su un gruppo di ragazzi, intenti a discutere animatamente sull’ultimo smartphon . I due si erano dato appuntamento per la consueta partita a burraco al circolo per anziani nel quartiere storico della città. << Non perderemo certo l’abitudine di vaccinarci con un buon bicchiere di Lambrusco, amico mio, il mondo per quelli come noi è lì, credimi!  Io e il Dario l’altra sera ce ne siamo scolato un bel fiasco, tanto da non riconoscere la Tonia sul pianerottolo di casa che mi sembrò persino ringiovanita di quasi vent’anni...ahahaha!>> Umberto scosse la testa <<Ma possibile che al secondo bicchiere di vino dai già i numeri e vai in brodo di giuggiole? Mancava solo che ti venissero a raccogliere con la carrozzina! >>Giorgio brontolò fino all’isolato successivo, tirando fuori la saga delle avventure di quando faceva il boscaiolo sulle Alpi, di quanto fosse stato duro quel lavoro  che nonostante tutto rimpiangeva. Insieme si defilarono nel trambusto della città con i suoi cubi di cemento a tratti illuminati con grosse scritte,  che li ingoiò di lì a poco. Quella sera al bar si discusse di quanto si andava vociferando nei telegiornali, così lontano da loro. Si disse che poteva essere una di quelle disavventure che di tanto in tanto irrompevano nella vita delle persone per via degli allevamenti intensivi...<< Così sembra>> se ne convinsero, tanto da pensare che quella fosse solo l’ennesima riprova di cattive abitudini, figlie del consumismo.  Dopo la partita, Umberto si congedò dagli amici, ricordandosi di passare in farmacia per un antidolorifico, sua moglie Clara lo aspettava per cena. I suoi passi di si fecero pesanti all’ennesimo spasmo, si allontanò non potendo fare a meno di piegarsi ancora una volta assorbito dal vocio indistinto della piazza, dove irruppe festoso il suono delle campane del Duomo a dargli la spinta nel cuore della sera.

Mancava solo la prenotazione per l’intervento e poi sarebbe finita, soprattutto con quel piegamento in avanti che lo ingobbiva in alcuni momenti. E pensare che Clara aveva insistito tanto perché si decidesse per l’intervento. Il momento era arrivato. La moglie lo aveva atteso certa dell’esito, appena lo vide sentenziò: <<Lo so, non dirmi nulla...domani chiamo per la prenotazione>>.<<Sì, purtroppo. Ora sono stanco prendo un antidolorifico.>> Umberto si tuffò sul divano, dopo un po’ prese sonno, assalito da una leggera agitazione che lo fece dimenare più volte su se stesso.  La prenotazione per l’intervento fu fissata per i principi di marzo, i controlli pre-operatori si svolsero in un clima caotico come non gli era mai capitato di vedere. Nell’ospedale un via vai di infermieri con maschere sul viso accompagnavano pazienti in barella, da spostare nell’ala est dell’ospedale: una scena che gli sembrò di aver già visto da qualche altra parte. Chiese con un un filo di voce ad una persona giunta lì in grande apprensione: <<Mi scusi cosa sta succedendo, sa qualcosa?>> <<Covid 19, covid 19...mio padre...>> disse con sopraffiato, poi si dileguò nel corridoio correndo dietro ad una barella su cui penzolava il braccio di  un uomo. Gli fu riferito di non oltrepassare il limite segnato in rosso, di entrare direttamente in stanza e di attendere l’infermiere per la presa della temperatura. Umberto accusava forti dolori diffusi per tutto il corpo sin dalla mattina. “credo di avere la febbre come faranno ad operarmi in queste condizioni...” La temperatura rilevata confermò ciò che aveva presagito. Qualche minuto dopo gli fu riferito di dover attendere i risultati delle analisi per procedere all’intervento programmato per il giorno dopo, nel caso fossero stati nella norma. “Covid 19...mmh...ora ricordo...Wuhan...noi come Wuhan”. <<Signor Umberto, mi ascolti...purtroppo l’intervento programmato per domani non potrà essere effettuato, lei dovrà curare prima questa forma influenzale di cui sono chiari i sintomi, è affetto da Covid 19 purtroppo, in queste condizioni non può essere operato e dovremo aspettare che sia perfettamente guarito. Abbiamo già avvertito sua moglie, lei resta in isolamento fino alla guarigione. Verrà un’infermiera che la trasferirà nel padiglione est, vista la pericolosità della malattia, non sono ammesse visite al fine di evitare contagi.>> Umberto ammutolì per qualche istante, annuì con la testa mentre un tuono gli esplodeva dentro. “ Covid 19, che tu sia maledetto...potevi restartene in Cina da dove sei venuto, ma io ti sconfiggerò, non sono abituato a perdere, non lo farò certo con te...”Un torpore lo assalì, con forti dolori alle ossa che lo indussero a posare in tutta fretta il telefonino sul comodino; stava per chiamare Clara, ma lei era già in linea. <Ciao, hanno detto che dovrò restare in isolamento per qualche giorno.>> << Lo so, Umberto, vedrai che andrà tutto bene. Ci vedremo presto, leone!>> Non poté fare a meno di ingoiare qualche lacrima congedandosi da lui. 

Il grigiore della nebbia non lasciò  spazio al flebile raggio di sole appena decifrabile; dalla finestra che dava nello spazio interno all’ospedale il fumo dei bocchettoni dei riscaldamenti si innalzava prepotente e brividi di freddo lo invasero. Il respiro si fece affannoso nel giro di poche ore, a stento suonò il campanello per farsi aiutare; due infermieri incapsulati con tute bianchissime giunsero in stanza, lo alzarono sui cuscini per posizionargli la maschera dell’ossigeno. Intanto i dolori al petto divennero sempre più fitti e lancinanti, la voce stentò a pronunciare il grido e si lasciò andare al torpore in arrivo. ”mamma, cosa sta succedendo...dove mi trovo, chi sono costoro...andate via...”un enorme corridoio semioscuro gli si aprì davanti, a mano a mano che lo attraversava si delineavano antri simili a caverne attraversate da sibili acuti come lance. Un battito martellante lo accompagnava e si sforzò di vedere da dove provenisse, ma non vide nessuno fino a quando divenne più intenso e chiaro: un’ombra con sembianze quasi umane, con lineamenti mutanti in varie forme, indecifrabili...gli si parò davanti a pochi centimetri dagli occhi. Tentò di aprire la bocca, ma la sentì serrata e l’urlo gli si appiattì in gola. Mosse le braccia che intanto si erano appesantite come macigni; nuovamente mosse le mani per sbarazzarsi del mostro senza riuscirci. “Ti prenderò prima o poi, non sai che non sono abituato a perdere...giochiamo ad armi pari se hai il coraggio!” L’ombra tentacolata sghignazzava il suo riso beffardo sul volto di Umberto, puntandogli due occhi simili a due oblò rosso fiamma a pochi millimetri dalla faccia; ne sentì tutto il peso nonostante si divincolasse come tarantolata premendo sullo stomaco quasi a soffocarlo e il martellare del battito  accelerato gli rimbombava sempre più forte nella testa. La figura prese a schiaffeggiarlo imperterrita, allungò all’infinito le sue protuberanze che lo avvinghiarono nella morsa stritolante. Umberto raccolse tutte le forze in un respiro profondissimo, tentò di alzare la testa nell’attimo in cui la belva si distrasse e riuscì a percepire lo spazio circostante che avanzava labirintico; ecco che una nuova caverna si apriva imperscrutabile e un lamento simile al pianto di un neonato cominciò a farsi sempre più distinto. Sentì le membra sciogliersi teneramente: gli sembrò di riconoscere quel gemito sfumato in pochi secondi, facendo largo al battito della bestia che divenne prorompente fino ad invaderlo nuovamente; si sentì impazzire come in una di quelle giornate intense di traffico passate sul tram, che ad ogni fermata  gli stampava lo stridore dei freni in ogni parte del corpo. E come allora pensò di dover calcolare la velocità con cui proseguire per evitare quello stridore e il sobbalzo alla fermata. Tese il braccio fuori dal torace certo di avere finalmente acciuffato una di quelle  braccia che si divincolavano ora dietro le spalle ora davanti al viso. Tutto fu inutile fino alla caverna successiva. “Covid...tu non mi fai paura, ti chiami così ,vero?...prima o poi sarai nelle mie mani, non sono abituato a perdere..coooviid...”Il respiro si fermò di nuovo per qualche secondo, poi riprese con l’affanno. <<Presto, facciamo presto...in terapia intensiva, presto!>> <<Ma non so se abbiamo altri posti liberi...>> <<Proviamo a vedere nella corsia di riserva!>> Da lontano un medico fece cenno di non avvicinarsi: un decesso appena avvenuto, ma il posto era già per un altro paziente. La lotta di Umberto con la figura malvagia che si moltiplicava e si riduceva tendendogli trappole sempre più insidiose si accanì sul suo corpo,  accesa di furore, con occhi di fiamma lo scherniva  ululandogli il suo fiato malefico nelle narici;   fece per alzare il braccio destro al fine di colpirlo in volto, ma lui gli sferrò un sinistro e poi un destro, un colpo dopo l’altro, lo distese...sfinito tentò di asciugarsi il sudore, ma il suo viso non aveva consistenza, poi tutto ridivenne buio e si accasciò stremato precipitando in un sonno profondo, infinito. Un sussulto e si trovò fuori dal buio, lo scorrere come di un traliccio gli attraversò il torace, non vide più lei, l’ombra malvagia, ne sentì a malapena il rimbombare del battito che andò affievolendosi sempre di più. Si portò le mani in volto e poté passarle sugli occhi che ad un tratto si  aprirono non lasciandosi penetrare dalla luce di un faro puntato sul volto. Si riaddormentò con il terrore di dover affrontare ancora una volta l’ombra maledetta; nel torpore del sonno giunto per appagare le torture subite, una voce lo pervase. <<Ben tornato tra noi, Umberto, lei è fuori pericolo, finalmente.>> <<Ma dove sono, da quanto tempo sono qui?>> disse toccandosi il torace.  Un infermiere gli si avvicinò trincerato dietro uno scafandro e gli tocco il polso rassicurandolo << Da un bel po’, ma siete al sicuro ora, siete guarito dal Covid, vostra moglie vi sta aspettando fuori all’ingresso, un portantino vi accompagnerà giù e potrete tornare a casa; fu alzato, aiutato a rivestirsi dei suoi panni e invitato a sedersi su una sedia a rotelle per uscire dall’ospedale. Appena fuori dalla stanza una schiera di infermieri e medici incapsulati lo attendeva  accompagnandolo con un applauso fragoroso.  Non poté fare a meno di farsi scrosciare un pianto liberatorio sul viso, sforzandosi di stare dritto. Ancora una volta riuscì a  tirare fuori lo spirito da combattente e un sorriso commosso trapelò dalle labbra emaciate. Clara lo attendeva fuori con un pacchetto di cioccolatini, i suoi preferiti; a stento trattenne le lacrime mentre lo abbracciava. La città insolitamente vuota, lo accolse immersa in un silenzio che in un primo momento gli sembrò necessario, dopo tutto quel putiferio che gli si era scaraventato addosso. Le vetrine, che a quell’ora sfoggiavano luci colorate apparivano stinte con le serrande abbassate sui marciapiedi privi di pedoni, gli si paravano dinanzi  correndo  affianco alla piccola utilitaria di Clara. Umberto girò la testa a destra e a sinistra più volte in silenzio, attese invano il suono delle campane del Duomo ad annunciare la messa domenicale. Stava per chiedere di Giorgio, si erano sentiti poco prima del ricovero con la promessa che al ritorno dall’ospedale avrebbero organizzato un torneo di gioco, ma Clara lo anticipò fiondandogli lo sguardo basso nel petto e a malapena si fece uscire quel nome di bocca ingoiando un singhiozzo. “no, non dovevi farmi questo, ho combattuto tanto, proprio come avresti fatto tu, non ho barato...eppure ho perso...Giorgio...” C’era un  via vai di ambulanze che correvano a sirene spiegate quel giorno verso l’ospedale... 


lunedì 5 maggio 2025

Misteri - Ianare, Unicorni, Solitudini - Massimo Sensale

Nella Rubrica MISTERI ospitiamo uno scritto di Massimo Sensale - Dalle Memorie di un Aquilone 

Sorvolavo a bassa quota un borgo ai piedi del Monte Partenio, quando mi accorsi che l’aria primaverile era pervasa da un intenso e uniforme profumo di gelsomino. Solo quel borgo e non gli altri intorno né le campagne. Un fenomeno singolare che mi trattenne e mi fece pensare che dovesse celare un mistero. Il sole era tramontato e fluttuavo lentamente di qua e di là nella luce crepuscolare, su vicoli e piazzette, accarezzato da quell’effluvio inebriante.

All’inizio fu quasi impercettibile, meno di un brusio confuso nella voce del vento o nella mia immaginazione. E intorno ebbi sentore di piccole e fugaci luminescenze che sparivano nel momento stesso in cui cercavo di fissarle meglio. Pareva che a dispetto si accendessero per un istante da un lato mentre guardavo dall’altro. Un gioco di apparire e nascondersi per non farmi capire da cosa fossi circondato. E il brusio era un intreccio di fuggevoli voci femminili che dicevano frammenti di frasi che divennero via via più chiari e comprensibili.

… dire meraviglie… nell’aria della notte… perché sembra che tutto faccia se-greto di noi… guarda… gli alberi… gli amanti… se sapessero come… gli amanti potrebbero, se sapessero come… nell’aria della notte dire meraviglie… noi tutto trapassiamo… come l’aria che muta… 

Erano più voci, morbide, suadenti, che mi avvolgevano e brillavano di attimi di luce. E il profumo di gelsomino si faceva ancora più intenso. Perché era il loro profumo.

… tutto cospira a tacere di noi… un po’ come si tace un’onta…

Ma sì, improvvisamente riconobbi quelle parole, era una elegia di Rilke, decostruita in frammenti brevi e ripetuti, che le voci si rimandavano l’una all’altra in contrappunto.

… gli amanti potrebbero, se sapessero come, nell’aria della notte dire meraviglie… solo noi tutto trapassiamo… e tutto cospira a tacere di noi… un po’ come si tace un’onta… un po’ come si tace una speranza ineffabile…

Pian piano quelle voci luminescenti si addensarono in un’unica meravigliosa figura femminile che nuotava sinuosa e inafferrabile intorno al mio volo.

Ebbe finalmente compassione del mio spaesamento e si rivelò.

Sono io, sono la ianara, tutte le voci che sentivi, le luci e i colori che vedevi ero soltanto io. So cosa pensi, hai sempre saputo che le ianare sono esseri mostruosi e crudeli. Streghe che si danno convegno sotto il noce di Benevento. Ma non è così… tutto cospira a tacere di noi… come si tace un’onta… una speranza ineffabile…

Non posso raccontarvi altro, la ianara mi impose il segreto; non posso rischiare, è pur sempre una strega, l’ho capito da certi sguardi di sottile perfidia. Ecco, gli sguardi, a osservarli bene, con rapidissimi mutamenti suscitavano l’intera gamma delle emozioni, dall’ebbrezza alla paura… come l’aria che muta…

Dunque non posso dirvi delle sue metamorfosi e di quelle che indusse in me in forma quasi umana nel breve tempo del nostro incontro amoroso, del nostro ab-braccio, dell’incanto del suo corpo, del piacere dolce che mi donò quella sera, di quel che mi restò impresso di lei, perché fare l'amore è solo quando si lascia un segno di sé, altrimenti è altra e più povera cosa 

Posso solo dire, parafrasando Milan Kundera nel Valzer degli addii, che era apparsa per rivelarmi che si poteva vivere in un altro modo e per qualcos'altro, che la bellezza è più che la giustizia, più che la verità; che è più reale, più indiscutibile e anche più accessibile; che la bellezza è superiore a tutto. E in quell'i-stante era definitivamente perduta per me. Era venuta a mostrarsi solo all'ultimo momento perché io non credessi di aver conosciuto tutto e di aver esaurito fino in fondo tutte le possibilità della vita.

S’era fatta notte e mi lasciai sospingere dal vento lentamente in alto fino a rag-giungere le cime del Partenio. Sorvolai quella montagna magica fino al più vasto dei suoi altipiani, il Campo Maggiore. L’immensa spianata era circondata da faggete. Non più il profumo di gelsomino ma il respiro notturno di milioni di alberi. S’era fatto silenzio anche dentro di me, una quiete senza pensieri, quando vidi uscire dal margine del bosco un essere fiabesco, un unicorno azzurro che scendeva sulla spianata. Pensai, sperai che ci fosse una piccola mandria. Invece rimase da solo a scavallare sulla prateria, quell’unicorno inverosimile e splendente sotto il plenilunio. Restai a lungo a guardarlo, nella sua e nella mia solitudine.