Ci sono versi e parole che non cercano l'avvallo del tempo, ma solo un luogo calmo, abitato dal silenzio giusto in cui svilupparsi, emergere, come un seme pronto a germogliare. Allo stesso modo ci sono poeti che non seguono sentieri battuti dalla folla, strade già tracciate, ma camminano a piedi nudi sul margine delle vie più isolate, dove l’erba è ancora ricamata di rugiada ed il cielo resta una domanda sospesa. Generoso Cresta è uno di questi. Ha lasciato che la sua voce maturasse nel buio, tra quaderni lacerati e appunti custoditi come reliquie — e solo ora, dopo anni che sono stati radice, affida i suoi versi alla luce. Chi si avvicina alle sue liriche non incontra un autore tra gli autori, ma un uomo che ha scritto come si respira, per necessità e certo per mestiere. La poesia di Cresta non brilla, sussurra; non imita, ricorda; non spiega, evoca.
E allora ci affidiamo a chi, come Alessandro Di Napoli, ne ha seguito da vicino il silenzio e il fiorire, e a chi, come Mino Mastromarino, ha saputo coglierne l’enigma e il fremito. Due voci diverse, due specchi inclinati a riflettere lo stesso volto: quello di un poeta che non ha chiesto nulla al mondo, ma ha donato ciò che il mondo aveva dimenticato di cercare.
Alessandro
Di Napoli
Davvero
originale, e per certi aspetti rara, la storia di Generoso Cresta che ha deciso
di rivelarsi dopo più di cinquant’ anni di silenzio. Per pudore, forse anche
per riservatezza, ha preferito esordire a settant’anni da poco compiuti. Ha
custodito i suoi ormai laceri quaderni e appunti senza decidere che farne per
decenni e decenni, nonostante le mie e le altre sollecitazioni. I semi di ieri
sono finalmente diventati frutti che ognuno di noi potrà assaporare e gustare.
Nessuno di noi proverà le stesse emozioni e nemmeno le stesse gioie e le stesse
malinconie che fecondano i suoi versi. Sono quelli di ieri: i semi di ieri diventati
frutti al tempo giusto. Per Cresta, le sue parole di ieri sono ancora quelle di
oggi.
Collocare
la sua figura nell’articolato panorama della poesia italiana del secondo
Novecento può sembrare un’operazione complessa, quasi proibitiva, considerato
che il suo esordio è avvenuto nel 2022, più di cinquant’anni dopo la stesura
dei suoi componimenti presenti nella silloge Le parole altre. Pur non
avendo Maestri, Cresta è un poeta del secondo Novecento.
La
posizione solitaria della sua opera rispetto alle correnti prevalenti della
lirica e delle poetiche novecentesche è un dato che non può non essere ritenuto
consolidato. Si tratta di una scelta consapevole che segna tutta la parabola
della sua scrittura, a partire dalla sua genesi, avvenuta quando studiava a
Napoli, e poi proseguita a Castelfranci, dopo il suo definitivo ritorno. Non si
è trattato ovviamente, né di un isolamento né di una autoemarginazione. Per lui,
scrivere versi, significava dedicarsi alla cura delle parole “altre”, come
testimonia inequivocabilmente il titolo della sua silloge d’esordio, Le
parole altre. L’inquietudine, la solitudine, l’impressionismo e l’espressionismo
diventano così la cifra stilistica più significativa dei suoi componimenti. Nei
suoi versi, si assiste ad uno scontro fra poesia e realtà che non impedisce
all’uomo e al poeta di esprimersi liberamente e compiutamente.
Nei
suoi componimenti ci sono versi memorabili e nelle sue due sillogi, più
frequenti in questa seconda, testi davvero esemplari.
Il
suo stile è diverso da tutti i poeti del Novecento e per non averli letti non
ha subìto né prestiti né contaminazioni. Poche volte, compare qualche parola
del passato che lascia pensare a una lontanissima parentela, sicuramente non
cercata, con Montale:
Non
chiedermi di guardare
con occhi sicuri
il destino di ogni uomo.
Non chiedermi dove il sole tramonta.
Non cercare in me il nido della pace.
Essa segue il volo di un gabbiano
la direzione del vento
essa naviga sulle onde del mare
per sciogliersi lontano
fuori dal mio orizzonte.
Posso solo dirti che la mia vita
è nel soffio del vento
in una goccia di pioggia
in una foglia
negli occhi di un uomo
nel viale dei cipressi
che il cuore percorre ogni notte
per incontrare un fantasma
che appare, rotola, svanisce.
Soffermatevi
per qualche momento sul primo verso del componimento (Non chiedermi di
guardare) e sull’undicesima (Posso solo dirti che la mia vita). Incontrerete,
come per incanto, il clima e gli odori di una delle poesie più riuscite di
Montale: Non chiederci la parola…, presente in Ossi di seppia.
Come
Montale Cresta risponde a un tu, vero o immaginario, ma probabilmente a
sé stesso. Il sintagma “Non chiedermi” è ripetuto due volte (v. 1 e v.
4). Nei primi tre versi al suo interlocutore vero o presunto fa presente di non
poter “guardare/con occhi sicuri/ il destino di ogni uomo”. Per poi aggiungere
che non gli deve essere chiesto neppure “dove il sole tramonta”, come se il
sole possa tramontare in posti e luoghi diversi. E subito dopo, sempre con un
verbo all’infinito, consiglia il suo interlocutore a non “cercare” in lui “il
nido della pace”. Nei successivi cinque versi ne spiega la ragione (“Essa segue
il volo di un gabbiano / essa naviga sulle onde del mare / per sciogliersi
lontano / fuori dal mio orizzonte”).
Infine,
ridando voce a sé stesso, chiarisce “solo” quello che può dirgli: “Posso solo
dirti che la mia vita / è nel soffio del vento / in una goccia di pioggia / in
una foglia negli occhi di un uomo / nel viale dei cipressi / che il cuore
percorre ogni notte / per incontrare un fantasma / che appare, rotola,
svanisce.”
Sul piano stilistico, due versi (v. 1 e v.
8) e altre tre parole (v. 5, v. 18 e v. 19) del componimento rimano fra loro:
“guardare” (v. 1): “mare” (v. 8): “cercare” (v. 5): “incontrare” (v. 18):
“appare” (v. 19). Gli stessi versi e le stesse parole assuonano
con altre due parole: “pace” (v. 5) e “viale” (v. 16). Fra loro rimano altri
due versi: “gabbiano” (v. 6): “lontano” (v. 9) e assuonano fra loro altre tre parole: “sole” (v. 4): “direzione” (v. 7): “cuore” (v. 17).
Nell’ultimo verso sono presenti due virgole, dopo “appare” e “rotola”,
riferite, insieme a “svanisce”, al “fantasma” del verso precedente.
Il suo è uno stile semplice, chiaro,
leggibile. L’assenza delle virgole, fatte salve le rarissime eccezioni dove è
presente, non incide minimamente sulla qualità stilistica e ritmica dei singoli
componimenti.
Oggetti
primari e universali delle sue poesie sono l’uomo, la vita e il mondo che ha
costruito dalle origini ai giorni in cui scrive (infanzia, adolescenza,
maggiore età).
I
poeti sono giudicati per le parole che hanno scelto: le parole sono l’anima
della poesia, non l’abito dei singoli componimenti. I poeti, le parole, le
salvano dai loro incubi. E lui è riuscito quasi sempre a farlo.
Usa
le parole per dirsi, per raccontarsi, per rivelarsi, per farsi conoscere, per
condividere, con i possibili lettori, la storia della sua infanzia,
dell’adolescenza e della sua coerente e mai contradditoria maturità.
Le
sue sono le parole del cuore e dell’anima, molto spesso della sua ben custodita
solitudine. È un giardino di parole il suo, intensamente ospitale, dove ognuno,
conoscente, amico o lettore occasionale, potrà trovare il suo fiore preferito,
cercandolo con cura nei suoi componimenti. Dovrà solo avere la pazienza e il
buon gusto di cercarlo. Odorandolo non mancherà di stupirsi: gli odori dei suoi
componimenti e dei suoi versi non appartengono a nessuno, sono solo i suoi che
ha seminato e annaffiato negli anni per noi.
Dopo
aver conseguito il Diploma liceale ed essersi iscritto alla Facoltà di medicina
dell’Università di Napoli, non ha mai più letto poesie e non ha mai comprato
una raccolta di versi. Della letteratura e della poesia dei secoli precedenti,
primo Novecento compreso, la sua era solo una conoscenza scolastica.
Desiderava
scrivere versi, poesie, sin da quando frequentava le scuole elementari e medie:
lui li chiama appunti, che conserva ancora, come scritti allora, su quaderni
con la copertina nera, se ricordo bene. Solo per caso, senza alcuna conoscenza
delle polemiche di quegli anni, gli anni Settanta, trova nell’io il suo
naturale protagonista poetico, come faranno, senza che lui ne fosse a
conoscenza, Patrizia Cavalli (Le mie poesie non cambieranno il mondo del
1974), Dario Bellezza (Invettive e licenze, Garzanti, Milano
1971; Morte segreta, Garzanti, Milano 1976), Cesare Viviani,
Nanni Cagnone, Milo De Angelis e Maurizio Cucchi per i quali è stata coniata
l’espressione “decentramento dell’io”, non utilizzabile per la sua produzione
poetica.
Nei suoi componimenti non vi è la
presenza di alcuna contaminazione, intesa come influenza, come invece è stata
censita nella quasi totalità della produzione letteraria dei poeti del primo Novecento.
Per ognuno di noi, come pure per i
poeti, gli scrittori e i critici letterari protagonisti di quegli anni, si
verifica un cambio di prospettiva: il poeta perderà prestigio intellettuale,
pur diventando ospite televisivo (Amalia Rosselli, Vivian Lemarque, Piero
Bigongiari e Edoardo Sanguineti, Margherita Guidacci e Elio Pagliarani,
partecipano al programma televisivo L’Aquilone).
Lui
invece rimane estraneo anche a queste vicende letterarie-televisive. Si
potrebbe parlare di assenza volontaria, consapevole. Per diventare poeta, anche
se lui si ritiene solo uno che scrive versi e solo quando ne avverte la
necessità, non è necessario leggere gli altri poeti o studiare le Storie della
letteratura italiana più risalenti o più recenti. Per non parlare dei poeti stranieri.
Conosce, e non è davvero poca cosa, solo gli autori greci e latini, per averli
studiati a scuola, quando frequentava il Liceo classico a Napoli.
Probabilmente,
la sua produzione poetica, siamo ormai alla seconda silloge, dopo quella
pubblicata nel 2022, somiglia, solo in parte, a quella di Luigi Di Ruscio, dal
1952 operario a Oslo, che sembra aver proposto una scrittura senza centro, che
inizia da un “anno zero” e che da questa data ignota, l’inizio, ha tratto stimolo
per la costruzione dei propri versi.
Col
passare degli anni adolescenziali, Cresta continua a scrivere versi e continua
a non leggere i versi degli altri. Forse, come ricordato non si ritiene neppure
un poeta. Scrive versi, non sempre, neppure troppo spesso, lo fa perché escono
spontanei dalla sua indole, dalla sua mente, dal suo corpo, dal suo cuore. Una
cosa è certa: continua a non leggere i versi degli altri poeti.
È
convinto che la lettura delle poesie di altri autori, seppure meritatamente
famosi, non aiuta a scrivere meglio o peggio. Il che non vuol dire che lui
scriva per sé stesso. Scrive perché sente la necessità di farlo e lo fa solo
quando questa necessità diventa ineludibile, improcrastinabile.
Chiunque
si occuperà dei suoi componimenti e dei suoi versi non dovrà fare proprie le
definizioni elaborate in quegli anni: “dissipazione formale”, “ritorno
all’ordine”, “maggiore educazione formale”.
I
suoi versi sono originali, luoghi dove trovano spazio le sue emozioni, le sue
idee, i suoi sentimenti, le sue delusioni, le sue amarezze, le sue speranze
quasi sempre vanificate dall’esperienza storico-esistenziale non sempre
positiva.
Non
ama scrivere in metrica. In alcuni dei suoi componimenti si incontrano rime fra
versi, poche, e rime fra parole, più numerose, e assonanze. Chi non ama le
gabbie della vita non può amare le gabbie della metrica. All’impegno sociale
degli autori di quegli anni, preferisce il travaglio interiore, proprio e del
mondo che lo circonda e in cui è costretto a vivere, suo malgrado.
Sintomatico
è che la sua poesia ha a che fare con colui che vive e guarda prima dentro sé
stesso e poi nella vita e nel mondo. Il suo io è sia l’io interiore che
l’io della vita, l’io della mente.
A
una lettura non superficiale, sembra che eviti di confrontarsi con la storia di
quegli anni. Nulla di più sbagliato. Come poeta, infatti, fa appello
esclusivamente alla propria esperienza, si relativizza, preferisce dedicare i
suoi versi e i suoi componimenti alla propria condizione esistenziale, che non
è estranea a quella della comunità dove ha vissuto la sua infanzia e la sua
adolescenza, prima, e la maturità, poi.
È alla ricerca di una forma espressiva che possa raccontare meglio le
contraddizioni in cui sente la vita scorrere immobile, immutabile, priva di
prospettive.
È
convinto, credo o almeno suppongo, che la poesia non possa e non debba svolgere
alcun ruolo sociale né che possa incidere o condizionare il corso degli eventi.
Scrive da tutt’altre premesse ideali e stilistiche. Tutte le volte che scrive,
anche quando i versi rimangono nascosti o custoditi nella sua mente, il
presente e il futuro gli sembrano costruiti dai detriti di un passato ormai per
lo più inutilizzabile. A prevalere, nei suoi componimenti, è sempre
l’esperienza soggettiva. Ascolta la vita, s’interroga sul destino dell’uomo.
Le
sue poesie vanno lette ad alta voce e quando è possibile lette dal lettore e
commentate insieme all’autore. Solo post-mortem, l’autore perde la sua
voce e se ne impossessa, diventandone padrone, il lettore, chiunque esso sia e
dovunque viva.
Fra le tante cose su cui non mi sono
adeguatamente soffermato, perché questo non è un saggio ma una Prefazione, con
questi suoi componimenti, proprio perché risalenti agli anni Sessanta, Settanta
e Ottanta, provava a tracciare un sentiero, pur muovendo delle premesse
spontaneistiche, approdava a una forma, tutta personale e non solo per questa,
originale, capace di tenere insieme aperture metaforiche personali e realismo
esistenziale, in cui il phatos convive in un difficile equilibrio, senza
riferimento alcuno alla tradizione filosofica e letteraria che, nel suo caso,
arrivano a comporre un vero e proprio canzoniere di monologhi.
I suoi versi, incisivi più di quanto
sottolineato da alcuni, alludono a una storia della fine del Novecento, gli
anni Sessanta, Settanta e Ottanta, completamente diversa da quelle degli autori
esordienti di quel trentennio. Un altro Novecento il suo di cui s’avvertiva
l’esigenza, dopo aver letto quasi tutte le raccolte di versi pubblicati in
quegli anni, compresi i numerosi esordienti. Nei suoi versi di allora, che solo
oggi possiamo finalmente leggere, è prevalente l’aspetto biografico.
Per lui, le poesie sono un dono
naturale, nascono da un talento innato che qualsiasi autore ha avuto ed ha in
sorte da un chi che ci rimarrà sempre ignoto. Lui stesso, quando
parliamo dei suoi componimenti, parla di un dono istintivo, che non sempre
riesce a spiegare razionalmente. I versi dei suoi singoli componimenti non
nascono facilmente, a volte hanno bisogno di sedimentarsi, di essere custoditi
dentro di sé e poi escono come se fossero stati elaborati in quel momento, nei
pochi minuti della loro deposizione su qualche pagina di un quaderno come
quelli con la copertina nera di cinquant’anni fa.
Questo non è un altro libro di
poesia, il secondo, ma sempre lo stesso, come una pianta in continua crescita,
seppure con intervalli privi di germogli.
È difficile, se non impossibile, per
quanto fino a questo momento sottolineato, stabilire quali fonti letterarie tradizionali,
quelle della letteratura classica e letteratura italiana nel suo complesso, abbiano
favorito la nascita dei suoi versi e di gran parte dei componimenti pubblicati
in queste sue due sillogi e, forse, anche nella terza.
Per questa sua estraneità alla poetica
italiana del Novecento, nella sua produzione poetica non incontriamo il
“lamento” lirico-elegiaco presente in alcuni autori né i residui dell’impegno
civile o neorealista del secondo dopoguerra.
E
costituisce per questo una significativa e originale eccezione alla linea
ufficiale della poesia italiana del Novecento che invece si fonda, a partire
almeno da Montale, sul presupposto antropologico della felicità negata o resa
impossibile dalla storia dell’intera umanità. Nei suoi componimenti, o almeno
in gran parte di essi, si riafferma la tendenza “esistenziale” che aveva
preceduto e si era affermata prima dell’esordio di Montale.
La sua poesia si nutre essenzialmente
della sua esperienza biografica, nella quale il linguaggio in versi abita lo
iato tra l’io e l’infinito, la scrittura e l’inafferrabile, la realtà e il non
conoscibile. Resta a noi lettori, nonostante le evidenti difficoltà dovute alla
sua palese estraneità a cui abbiamo accennato, cercare di avvicinarci e tentare
di capire il senso profondo di una tensione espressiva che non ha alcuna
parentela con la linea ortodossa del Novecento poetico.
Un’estraneità la sua, quella alla
poesia e alle diverse poetiche del Novecento, che ci coglie di sorpresa e che
condiziona fortemente la nostra lettura, abituati, per la nostra formazione, a
soffermarci, tra l’altro, su “prestiti” e “debiti” contratti dalla gran parte
dei poeti del Novecento con i poeti dei secoli precedenti. Una tensione
libertaria, la sua, che spesso assume, consapevolmente o meno, un’inquietudine
umana, esistenziale. Nel suo lessico ci sono, ovviamente, anche le parole del
vocabolario di quanti lo hanno preceduto. Il loro uso, però, non è lo stesso, è
originale oltre che diverso.
Tra Le parole altre e Io
cerco l’infinito nei cieli dell’uomo esiste una interna e sotterranea continuità.
Persino le scelte linguistiche non producono alcuna cesura, non vi è un prima e
un dopo. Il tutto non è giocato sull’uso delle forme impersonali. Lo
svolgimento delle singole liriche, in entrambe le sillogi, è incentrato
generalmente sulla prima persona singolare, in pochi componimenti sulla seconda
e in alcuni, pochi il “tu” è correlato all’ “io”.
Con
i suoi versi vuole parlare a tutti, a chiunque sia disposto a leggerlo e quindi
ad ascoltarlo. Senza per questo sentirsi né un depositario né un invalido della
parola dei poeti laureati, quelli che non ha mai letto nei suoi anni giovanili
e che continuerà a ignorare ancora oggi. Le sue parole non accecano né
trasformano in visionari i possibili lettori, ma rendono solo più acute le
percezioni della miseria umana. Cresta sa che la sua poesia è figlia di una
storia incomprensibile, che non produce illusioni, che non alimenta la
speranza, mostra semmai il disadorno vestito della vita. Forse, come Montale,
sa che le poesie sono “un prodotto assolutamente inutile”. Ed è proprio per
questo, probabilmente, che io continuo a leggerle e altri, con amore e passione,
come fa Cresta, continuano a scriverle. E Cresta, nonostante questa disarmante
consapevolezza, continua a cercare, senza per questo smarrirsi, l’uomo, e un
po’ sé stesso, “nei cieli dell’infinito”. Come suo lettore, gli auguro di
trovare entrambi: l’uomo e se stesso.
Mino Mastromarino
Dopo ‘Le parole altre’, Generoso Cresta ci ha regalato un’altra, benvenuta raccolta di poesie: Io cerco l’infinito nei cieli dell’uomo.
E’ una conversazione perpetua tra l’Io e il Mondo, quest’ultimo inteso come Alterità, Natura e Amore. Non ricorrono quindi temi dominanti, non c’è asfittica concentrazione su di una specifica questione. Di nostalgia, di paesologia, di declino demografico, di insopportabilità della vita di provincia nemmeno un cenno. Signoreggia il soggettivismo, con qualche sparuta suggestione simbolista. Finalmente.
L’Io lirico affronta la sua crisi ma non si scinde, non si dissolve . Non aderisce alla sirene moderniste. Non si lascia ingolosire dal flusso emotivo. Preferisce rimanere saldo, integro.
Jorge Luis Borges, in Sette sere, ci ha invitato a evitare la tentazione di parafrasare la scrittura poetica : “ Sentiamo la poesia come sentiamo la vicinanza di una donna, o una montagna , un’insenatura. Se la sentiamo immediatamente, perché diluirla in altre parole, che saranno di sicuro più deboli delle nostre emozioni ? ”. Per l’impareggiabile scrittore argentino, il lettore è solo di fronte all’ enigma della poesia. Anche il critico Alfonso Berardinelli, piuttosto che soffermarsi sulla Poesia e sui poeti, ha sempre insistito sull’unica, fertile possibilità discorsiva che fa seguito alla lettura delle singole poesie.
Si tratta di riconoscere e istigare il miracolo della meraviglia. Del poeta e, soprattutto, del lettore. Un utile richiamo va alla perspicua antologia del prof. Di Napoli, intitolata appunto ‘Tra le forme della meraviglia’, che indaga l’epifania dello stupore nella poesia irpina contemporanea.
La lettura attiva trasforma, amplia lo spazio e la fecondità poetici. Dunque, facciamo nostra l’ambizione di Montaigne: « Un lettore perspicace scopre spesso negli scritti altrui perfezioni diverse da quelle che l’autore vi ha poste e intraviste, e presta loro significati e aspetti più ricchi». I versi ospitano rimandi, connessioni, escursioni, possibilità digressive: insomma, mostrano di conoscere più cose di quante ne abbia insinuate l’autore.
Il titolo, nonostante l’enfasi, lusinga il lettore promettendogli un insidioso rovesciamento acrobatico. Esso, a mezzo di sussiego metafisico, traspone l’infinito dal cielo all’uomo. La finitudine del quale muta nell’infinito celeste.
Tra le prime della silloge, quasi a suggerire un itinerario ermeneutico privilegiato, irrompe ‘Mendicante’:
<< Mendicante
chiudo nel sacco tarlato
tutte le illusioni
ora in un vicoletto senza sole
ora sotto il cielo stellato
al sorriso
dell’elemosina della vita>>.
L’autocoscienza della ontologica miseria umana definisce e condiziona la relazione con l’Altro, ossia il Con–Esserci.
In particolare, ci dispone alla corrispondenza con l’esistenza, che infatti – e questo è un pregevole lampo lirico - non si dà una volta per tutte, ma si concede alla stregua della erogazione precaria e discontinua dell’elemosina. Degna di sottolineatura, giacchè riuscita, è la metafora della vita come permanente oscillazione tra il pessimismo ( tarlo ) delle illusioni e l’ottimismo iridescente del sorriso (esistenziale). La precisa formulazione della contraddizione onora l’idea della espressione poetica quale esperienza del limite. Serve pure a delineare il perimetro concettuale di ciò che è notoriamente precluso alla razionalità: il simulacro della vita autentica.
Nello scrigno dei versi traspare la propensione dell’Autore per l’ombra. Il teatro della vicenda umana - sia che si tratti di un vicoletto senza sole, che di un cielo stellato - non è mai irradiato da luminosità piena o eccessiva. Tutte le sensazioni, tutti i sentimenti sono mediati da una luce fragile, quasi un lucore. In particolare, la percezione visiva, il potere-dovere di vedere cui è dedicata – evidentemente - la riportata poesia.
Al senso uditivo, invece, sembra rivolgersi il testo di cosa sfugge :
<< Cosa sfugge
alle nostre orecchie
del pianoforte della vita:
forse il tono duro
dei volti riflessi
nell’osso bianco dei tasti
forse quel tono leggero che m’impronta pianista
a ricalcare la voce dei misteri >>.
Ma è solo un attimo, perchè subito interviene l’equilibrio di una sinestesia.
L’abilità lirica dell’Autore intarsia ogni verso, attingendo con disinvoltura all’udito ( le nostre orecchie, il tono, la voce dei misteri ), al tatto ( pianoforte della vita, i tasti, l’osso, m’impronta pianista, ricalcare), alla vista ( volti riflessi, l’osso bianco, misteri), non disdegnando però la contaminazione dell’immaginario, dell’ ultrasensibile.
Non manca l’invettiva. Ecco che irrompe la coppia di componimenti ungulati, Cemento armato e Piange il salice:
<< Cemento armato
e finestroni di vetro
quattro pini geometrizzati
trapiantati nella terra
tra erbe selezionate
giardino etichettato
“ senza spine o erbacce”
E’ tutto l’essenziale
già, manca solo l’indirizzo
si sa solo che è di tale
insigne giurista >>
******
<< Piange il salice
nel cerchio di cemento
cammina
con gli zoccoli del diavolo
l’uomo solitario
Il labbro ha sussurrato
sentenze di morte
nel mercato della vita
dura a morire >>.
Cresta denuncia qui – con epigrammatico lindore - la diserzione dell’Umanità e della Natura che pervade la società , come quella attuale, ogni qualvolta si persegue la funzione a scapito dell’essere.
Il cemento armato e i finestroni di vetro di una villa, e i quattro pini geometrizzati trapiantati (e non piantati ) del giardino circostante sono divenuti l’essenziale, il nuovo paradigma di una vita edulcorata e deprivata di ogni imperfezione ( senza spine o erbacce) e relazione sociale ( manca solo l’indirizzo ). Ed anche la Legge, che è stato il massimo strumento di educata regolazione dei rapporti umani, è degradata a una etichetta di impersonale e vacua erudizione ( tale insigne giurista, l’uomo solitario il cui labbro ha sussurrato sentenze di morte ).
Si sbaglierebbe, tuttavia, a ricondurre questi versi al corrivo e abusato schema dell’impegno civile. Essi sono innervati dal furore della dissidenza nei riguardi del visibile, non già da insoddisfazione sociale. Mirano - da una prospettiva profana - a scardinare il mistero dell’esistenza. La poesia – è stato detto – costituisce un atto sovversivo rispetto alla realtà così come appare.
Insomma, una tensione verso la nudità.
La scrittura poetica del Nostro, oltre a essere irriverente, è perciò felicemente incontemporanea.
In Senza preludi Cresta si misura con il Tempo: decostruendolo, demistificandolo.
<< Senza preludi e presagi
specchi e orizzonti
la vita corre
su fili di paglia
pensieri sfumati
All’alba
ascolta il silenzio del tempo
crepa la terra fino all’ultimo grido
si tuffa nel fiume in piena
Ritrova lo scoglio già vinto. >>.
L’alba non segna l’inizio, bensì il silenzio del tempo. La vita corre ma ritrova lo scoglio già vinto. L’acuto espressivo costringe il lettore a interrogarsi sulla natura soggettiva della dimensione temporale, che non è né lineare né progressiva né irreversibile .
Le caustiche interrogazioni di Cresta pretendono - insolitamente – nuove domande o, meglio, pseudo-risposte del tipo concepito da Marguerite Yourcenar nel provocatorio componimento Risposte:
-Cosa hai per consolare la tomba,
Cuore sfacciato, cuore ribelle?
Il frutto maturo si appesantisce e cade.
Cosa hai per consolare la tomba?
- Ho il tesoro di essere stato.
-Cosa hai per sostenere la vita,
Cuore pazzesco, cuore stanco?
Cuore senza speranza, cuore senza invidia,
Cosa hai per sostenere la vita?
-Pietà per ciò che deve passare.
-Cos’hai per disprezzare gli uomini,
Cuore di ghiaccio, facile da spezzare il cuore?
Cos’hai per disprezzare gli uomini?
Cosa sei più di noi?
-Capace di disprezzarmi.