martedì 6 maggio 2025

Generoso Cresta: il poeta senza maestri che cerca l'infinito nei cieli dell'uomo



Ci sono versi e parole che non cercano l'avvallo del tempo, ma solo un luogo calmo, abitato dal silenzio giusto in cui svilupparsi, emergere, come un seme pronto a germogliare. Allo stesso modo ci  sono poeti che non seguono sentieri battuti dalla folla, strade già tracciate, ma camminano a piedi nudi sul margine delle vie più isolate, dove l’erba è ancora ricamata di rugiada ed il cielo resta una domanda sospesa. Generoso Cresta è uno di questi. 

Ha lasciato che la sua voce maturasse nel buio, tra quaderni lacerati e appunti custoditi come reliquie — e solo ora, dopo anni che sono stati radice, affida i suoi versi alla luce. Chi si avvicina alle sue liriche non incontra un autore tra gli autori, ma un uomo che ha scritto come si respira, per necessità e certo per mestiere. La poesia di Cresta non brilla, sussurra; non imita, ricorda; non spiega, evoca. 

E allora ci affidiamo a chi, come Alessandro Di Napoli, ne ha seguito da vicino il silenzio e il fiorire, e a chi, come Mino Mastromarino, ha saputo coglierne l’enigma e il fremito. Due voci diverse, due specchi inclinati a riflettere lo stesso volto: quello di un poeta che non ha chiesto nulla al mondo, ma ha donato ciò che il mondo aveva dimenticato di cercare.         


          

            Alessandro Di Napoli        

Davvero originale, e per certi aspetti rara, la storia di Generoso Cresta che ha deciso di rivelarsi dopo più di cinquant’ anni di silenzio. Per pudore, forse anche per riservatezza, ha preferito esordire a settant’anni da poco compiuti. Ha custodito i suoi ormai laceri quaderni e appunti senza decidere che farne per decenni e decenni, nonostante le mie e le altre sollecitazioni. I semi di ieri sono finalmente diventati frutti che ognuno di noi potrà assaporare e gustare. Nessuno di noi proverà le stesse emozioni e nemmeno le stesse gioie e le stesse malinconie che fecondano i suoi versi. Sono quelli di ieri: i semi di ieri diventati frutti al tempo giusto. Per Cresta, le sue parole di ieri sono ancora quelle di oggi.

Collocare la sua figura nell’articolato panorama della poesia italiana del secondo Novecento può sembrare un’operazione complessa, quasi proibitiva, considerato che il suo esordio è avvenuto nel 2022, più di cinquant’anni dopo la stesura dei suoi componimenti presenti nella silloge Le parole altre. Pur non avendo Maestri, Cresta è un poeta del secondo Novecento.

La posizione solitaria della sua opera rispetto alle correnti prevalenti della lirica e delle poetiche novecentesche è un dato che non può non essere ritenuto consolidato. Si tratta di una scelta consapevole che segna tutta la parabola della sua scrittura, a partire dalla sua genesi, avvenuta quando studiava a Napoli, e poi proseguita a Castelfranci, dopo il suo definitivo ritorno. Non si è trattato ovviamente, né di un isolamento né di una autoemarginazione. Per lui, scrivere versi, significava dedicarsi alla cura delle parole “altre”, come testimonia inequivocabilmente il titolo della sua silloge d’esordio, Le parole altre. L’inquietudine, la solitudine, l’impressionismo e l’espressionismo diventano così la cifra stilistica più significativa dei suoi componimenti. Nei suoi versi, si assiste ad uno scontro fra poesia e realtà che non impedisce all’uomo e al poeta di esprimersi liberamente e compiutamente.

Nei suoi componimenti ci sono versi memorabili e nelle sue due sillogi, più frequenti in questa seconda, testi davvero esemplari.

Il suo stile è diverso da tutti i poeti del Novecento e per non averli letti non ha subìto né prestiti né contaminazioni. Poche volte, compare qualche parola del passato che lascia pensare a una lontanissima parentela, sicuramente non cercata, con Montale:

        

Non chiedermi di guardare

         con occhi sicuri

         il destino di ogni uomo.

         Non chiedermi dove il sole tramonta.

         Non cercare in me il nido della pace.

         Essa segue il volo di un gabbiano

         la direzione del vento

         essa naviga sulle onde del mare

         per sciogliersi lontano

         fuori dal mio orizzonte.

         Posso solo dirti che la mia vita

         è nel soffio del vento

         in una goccia di pioggia

         in una foglia

         negli occhi di un uomo

         nel viale dei cipressi

         che il cuore percorre ogni notte

         per incontrare un fantasma

         che appare, rotola, svanisce.

        

Soffermatevi per qualche momento sul primo verso del componimento (Non chiedermi di guardare) e sull’undicesima (Posso solo dirti che la mia vita). Incontrerete, come per incanto, il clima e gli odori di una delle poesie più riuscite di Montale: Non chiederci la parola…, presente in Ossi di seppia.

Come Montale Cresta risponde a un tu, vero o immaginario, ma probabilmente a sé stesso. Il sintagma “Non chiedermi” è ripetuto due volte (v. 1 e v. 4). Nei primi tre versi al suo interlocutore vero o presunto fa presente di non poter “guardare/con occhi sicuri/ il destino di ogni uomo”. Per poi aggiungere che non gli deve essere chiesto neppure “dove il sole tramonta”, come se il sole possa tramontare in posti e luoghi diversi. E subito dopo, sempre con un verbo all’infinito, consiglia il suo interlocutore a non “cercare” in lui “il nido della pace”. Nei successivi cinque versi ne spiega la ragione (“Essa segue il volo di un gabbiano / essa naviga sulle onde del mare / per sciogliersi lontano / fuori dal mio orizzonte”).

Infine, ridando voce a sé stesso, chiarisce “solo” quello che può dirgli: “Posso solo dirti che la mia vita / è nel soffio del vento / in una goccia di pioggia / in una foglia negli occhi di un uomo / nel viale dei cipressi / che il cuore percorre ogni notte / per incontrare un fantasma / che appare, rotola, svanisce.”

Sul piano stilistico, due versi (v. 1 e v. 8) e altre tre parole (v. 5, v. 18 e v. 19) del componimento rimano fra loro: “guardare” (v. 1): “mare” (v. 8): “cercare” (v. 5): “incontrare” (v. 18): “appare” (v. 19). Gli stessi versi e le stesse parole assuonano con altre due parole: “pace” (v. 5) e “viale” (v. 16). Fra loro rimano altri due versi: “gabbiano” (v. 6): “lontano” (v. 9) e assuonano fra loro altre tre parole: “sole” (v. 4): “direzione” (v. 7): “cuore” (v. 17). Nell’ultimo verso sono presenti due virgole, dopo “appare” e “rotola”, riferite, insieme a “svanisce”, al “fantasma” del verso precedente.

Il suo è uno stile semplice, chiaro, leggibile. L’assenza delle virgole, fatte salve le rarissime eccezioni dove è presente, non incide minimamente sulla qualità stilistica e ritmica dei singoli componimenti.

Oggetti primari e universali delle sue poesie sono l’uomo, la vita e il mondo che ha costruito dalle origini ai giorni in cui scrive (infanzia, adolescenza, maggiore età).

I poeti sono giudicati per le parole che hanno scelto: le parole sono l’anima della poesia, non l’abito dei singoli componimenti. I poeti, le parole, le salvano dai loro incubi. E lui è riuscito quasi sempre a farlo.

Usa le parole per dirsi, per raccontarsi, per rivelarsi, per farsi conoscere, per condividere, con i possibili lettori, la storia della sua infanzia, dell’adolescenza e della sua coerente e mai contradditoria maturità.

Le sue sono le parole del cuore e dell’anima, molto spesso della sua ben custodita solitudine. È un giardino di parole il suo, intensamente ospitale, dove ognuno, conoscente, amico o lettore occasionale, potrà trovare il suo fiore preferito, cercandolo con cura nei suoi componimenti. Dovrà solo avere la pazienza e il buon gusto di cercarlo. Odorandolo non mancherà di stupirsi: gli odori dei suoi componimenti e dei suoi versi non appartengono a nessuno, sono solo i suoi che ha seminato e annaffiato negli anni per noi.

Dopo aver conseguito il Diploma liceale ed essersi iscritto alla Facoltà di medicina dell’Università di Napoli, non ha mai più letto poesie e non ha mai comprato una raccolta di versi. Della letteratura e della poesia dei secoli precedenti, primo Novecento compreso, la sua era solo una conoscenza scolastica.

Desiderava scrivere versi, poesie, sin da quando frequentava le scuole elementari e medie: lui li chiama appunti, che conserva ancora, come scritti allora, su quaderni con la copertina nera, se ricordo bene. Solo per caso, senza alcuna conoscenza delle polemiche di quegli anni, gli anni Settanta, trova nell’io il suo naturale protagonista poetico, come faranno, senza che lui ne fosse a conoscenza, Patrizia Cavalli (Le mie poesie non cambieranno il mondo del 1974), Dario Bellezza (Invettive e licenze, Garzanti, Milano 1971; Morte segreta, Garzanti, Milano 1976), Cesare Viviani, Nanni Cagnone, Milo De Angelis e Maurizio Cucchi per i quali è stata coniata l’espressione “decentramento dell’io”, non utilizzabile per la sua produzione poetica.

         Nei suoi componimenti non vi è la presenza di alcuna contaminazione, intesa come influenza, come invece è stata censita nella quasi totalità della produzione letteraria dei poeti del primo Novecento.

         Per ognuno di noi, come pure per i poeti, gli scrittori e i critici letterari protagonisti di quegli anni, si verifica un cambio di prospettiva: il poeta perderà prestigio intellettuale, pur diventando ospite televisivo (Amalia Rosselli, Vivian Lemarque, Piero Bigongiari e Edoardo Sanguineti, Margherita Guidacci e Elio Pagliarani, partecipano al programma televisivo L’Aquilone).

Lui invece rimane estraneo anche a queste vicende letterarie-televisive. Si potrebbe parlare di assenza volontaria, consapevole. Per diventare poeta, anche se lui si ritiene solo uno che scrive versi e solo quando ne avverte la necessità, non è necessario leggere gli altri poeti o studiare le Storie della letteratura italiana più risalenti o più recenti. Per non parlare dei poeti stranieri. Conosce, e non è davvero poca cosa, solo gli autori greci e latini, per averli studiati a scuola, quando frequentava il Liceo classico a Napoli.

Probabilmente, la sua produzione poetica, siamo ormai alla seconda silloge, dopo quella pubblicata nel 2022, somiglia, solo in parte, a quella di Luigi Di Ruscio, dal 1952 operario a Oslo, che sembra aver proposto una scrittura senza centro, che inizia da un “anno zero” e che da questa data ignota, l’inizio, ha tratto stimolo per la costruzione dei propri versi.

Col passare degli anni adolescenziali, Cresta continua a scrivere versi e continua a non leggere i versi degli altri. Forse, come ricordato non si ritiene neppure un poeta. Scrive versi, non sempre, neppure troppo spesso, lo fa perché escono spontanei dalla sua indole, dalla sua mente, dal suo corpo, dal suo cuore. Una cosa è certa: continua a non leggere i versi degli altri poeti.

È convinto che la lettura delle poesie di altri autori, seppure meritatamente famosi, non aiuta a scrivere meglio o peggio. Il che non vuol dire che lui scriva per sé stesso. Scrive perché sente la necessità di farlo e lo fa solo quando questa necessità diventa ineludibile, improcrastinabile.

Chiunque si occuperà dei suoi componimenti e dei suoi versi non dovrà fare proprie le definizioni elaborate in quegli anni: “dissipazione formale”, “ritorno all’ordine”, “maggiore educazione formale”.

I suoi versi sono originali, luoghi dove trovano spazio le sue emozioni, le sue idee, i suoi sentimenti, le sue delusioni, le sue amarezze, le sue speranze quasi sempre vanificate dall’esperienza storico-esistenziale non sempre positiva.

Non ama scrivere in metrica. In alcuni dei suoi componimenti si incontrano rime fra versi, poche, e rime fra parole, più numerose, e assonanze. Chi non ama le gabbie della vita non può amare le gabbie della metrica. All’impegno sociale degli autori di quegli anni, preferisce il travaglio interiore, proprio e del mondo che lo circonda e in cui è costretto a vivere, suo malgrado.

Sintomatico è che la sua poesia ha a che fare con colui che vive e guarda prima dentro sé stesso e poi nella vita e nel mondo. Il suo io è sia l’io interiore che l’io della vita, l’io della mente.

A una lettura non superficiale, sembra che eviti di confrontarsi con la storia di quegli anni. Nulla di più sbagliato. Come poeta, infatti, fa appello esclusivamente alla propria esperienza, si relativizza, preferisce dedicare i suoi versi e i suoi componimenti alla propria condizione esistenziale, che non è estranea a quella della comunità dove ha vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza, prima, e la  maturità, poi. È alla ricerca di una forma espressiva che possa raccontare meglio le contraddizioni in cui sente la vita scorrere immobile, immutabile, priva di prospettive.

È convinto, credo o almeno suppongo, che la poesia non possa e non debba svolgere alcun ruolo sociale né che possa incidere o condizionare il corso degli eventi. Scrive da tutt’altre premesse ideali e stilistiche. Tutte le volte che scrive, anche quando i versi rimangono nascosti o custoditi nella sua mente, il presente e il futuro gli sembrano costruiti dai detriti di un passato ormai per lo più inutilizzabile. A prevalere, nei suoi componimenti, è sempre l’esperienza soggettiva. Ascolta la vita, s’interroga sul destino dell’uomo.

         Le sue poesie vanno lette ad alta voce e quando è possibile lette dal lettore e commentate insieme all’autore. Solo post-mortem, l’autore perde la sua voce e se ne impossessa, diventandone padrone, il lettore, chiunque esso sia e dovunque viva.

         Fra le tante cose su cui non mi sono adeguatamente soffermato, perché questo non è un saggio ma una Prefazione, con questi suoi componimenti, proprio perché risalenti agli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, provava a tracciare un sentiero, pur muovendo delle premesse spontaneistiche, approdava a una forma, tutta personale e non solo per questa, originale, capace di tenere insieme aperture metaforiche personali e realismo esistenziale, in cui il phatos convive in un difficile equilibrio, senza riferimento alcuno alla tradizione filosofica e letteraria che, nel suo caso, arrivano a comporre un vero e proprio canzoniere di monologhi.

         I suoi versi, incisivi più di quanto sottolineato da alcuni, alludono a una storia della fine del Novecento, gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, completamente diversa da quelle degli autori esordienti di quel trentennio. Un altro Novecento il suo di cui s’avvertiva l’esigenza, dopo aver letto quasi tutte le raccolte di versi pubblicati in quegli anni, compresi i numerosi esordienti. Nei suoi versi di allora, che solo oggi possiamo finalmente leggere, è prevalente l’aspetto biografico.

         Per lui, le poesie sono un dono naturale, nascono da un talento innato che qualsiasi autore ha avuto ed ha in sorte da un chi che ci rimarrà sempre ignoto. Lui stesso, quando parliamo dei suoi componimenti, parla di un dono istintivo, che non sempre riesce a spiegare razionalmente. I versi dei suoi singoli componimenti non nascono facilmente, a volte hanno bisogno di sedimentarsi, di essere custoditi dentro di sé e poi escono come se fossero stati elaborati in quel momento, nei pochi minuti della loro deposizione su qualche pagina di un quaderno come quelli con la copertina nera di cinquant’anni fa.

         Questo non è un altro libro di poesia, il secondo, ma sempre lo stesso, come una pianta in continua crescita, seppure con intervalli privi di germogli.

         È difficile, se non impossibile, per quanto fino a questo momento sottolineato, stabilire quali fonti letterarie tradizionali, quelle della letteratura classica e letteratura italiana nel suo complesso, abbiano favorito la nascita dei suoi versi e di gran parte dei componimenti pubblicati in queste sue due sillogi e, forse, anche nella terza.

         Per questa sua estraneità alla poetica italiana del Novecento, nella sua produzione poetica non incontriamo il “lamento” lirico-elegiaco presente in alcuni autori né i residui dell’impegno civile o neorealista del secondo dopoguerra.

         E costituisce per questo una significativa e originale eccezione alla linea ufficiale della poesia italiana del Novecento che invece si fonda, a partire almeno da Montale, sul presupposto antropologico della felicità negata o resa impossibile dalla storia dell’intera umanità. Nei suoi componimenti, o almeno in gran parte di essi, si riafferma la tendenza “esistenziale” che aveva preceduto e si era affermata prima dell’esordio di Montale.

         La sua poesia si nutre essenzialmente della sua esperienza biografica, nella quale il linguaggio in versi abita lo iato tra l’io e l’infinito, la scrittura e l’inafferrabile, la realtà e il non conoscibile. Resta a noi lettori, nonostante le evidenti difficoltà dovute alla sua palese estraneità a cui abbiamo accennato, cercare di avvicinarci e tentare di capire il senso profondo di una tensione espressiva che non ha alcuna parentela con la linea ortodossa del Novecento poetico.

         Un’estraneità la sua, quella alla poesia e alle diverse poetiche del Novecento, che ci coglie di sorpresa e che condiziona fortemente la nostra lettura, abituati, per la nostra formazione, a soffermarci, tra l’altro, su “prestiti” e “debiti” contratti dalla gran parte dei poeti del Novecento con i poeti dei secoli precedenti. Una tensione libertaria, la sua, che spesso assume, consapevolmente o meno, un’inquietudine umana, esistenziale. Nel suo lessico ci sono, ovviamente, anche le parole del vocabolario di quanti lo hanno preceduto. Il loro uso, però, non è lo stesso, è originale oltre che diverso.

         Tra Le parole altre e Io cerco l’infinito nei cieli dell’uomo esiste una interna e sotterranea continuità. Persino le scelte linguistiche non producono alcuna cesura, non vi è un prima e un dopo. Il tutto non è giocato sull’uso delle forme impersonali. Lo svolgimento delle singole liriche, in entrambe le sillogi, è incentrato generalmente sulla prima persona singolare, in pochi componimenti sulla seconda e in alcuni, pochi il “tu” è correlato all’ “io”.

Con i suoi versi vuole parlare a tutti, a chiunque sia disposto a leggerlo e quindi ad ascoltarlo. Senza per questo sentirsi né un depositario né un invalido della parola dei poeti laureati, quelli che non ha mai letto nei suoi anni giovanili e che continuerà a ignorare ancora oggi. Le sue parole non accecano né trasformano in visionari i possibili lettori, ma rendono solo più acute le percezioni della miseria umana. Cresta sa che la sua poesia è figlia di una storia incomprensibile, che non produce illusioni, che non alimenta la speranza, mostra semmai il disadorno vestito della vita. Forse, come Montale, sa che le poesie sono “un prodotto assolutamente inutile”. Ed è proprio per questo, probabilmente, che io continuo a leggerle e altri, con amore e passione, come fa Cresta, continuano a scriverle. E Cresta, nonostante questa disarmante consapevolezza, continua a cercare, senza per questo smarrirsi, l’uomo, e un po’ sé stesso, “nei cieli dell’infinito”. Come suo lettore, gli auguro di trovare entrambi: l’uomo e se stesso.


Mino Mastromarino 

Dopo ‘Le parole altre’, Generoso Cresta ci ha regalato un’altra, benvenuta raccolta di poesie: Io cerco l’infinito nei cieli dell’uomo.  

E’ una conversazione perpetua tra l’Io e il Mondo, quest’ultimo inteso come Alterità, Natura e Amore. Non ricorrono  quindi temi dominanti, non c’è  asfittica concentrazione su di una specifica questione. Di nostalgia, di paesologia, di  declino demografico, di insopportabilità della vita di provincia nemmeno un cenno. Signoreggia il soggettivismo, con qualche sparuta suggestione simbolista. Finalmente. 

L’Io lirico affronta la sua crisi ma non si scinde, non si dissolve . Non aderisce alla sirene moderniste. Non si lascia ingolosire dal flusso emotivo. Preferisce rimanere saldo, integro. 

Jorge Luis Borges, in Sette sere, ci ha invitato a evitare la tentazione di  parafrasare la scrittura poetica :  “ Sentiamo la poesia come sentiamo la vicinanza di una donna, o una montagna , un’insenatura. Se la sentiamo immediatamente, perché diluirla in altre parole, che saranno di sicuro più deboli delle nostre emozioni ? ”.  Per l’impareggiabile scrittore argentino, il lettore è solo di fronte all’ enigma della poesia. Anche il critico Alfonso Berardinelli, piuttosto che soffermarsi sulla Poesia e sui poeti, ha sempre insistito sull’unica, fertile possibilità discorsiva che fa seguito alla lettura delle singole poesie.

Si tratta di riconoscere e istigare il miracolo della  meraviglia. Del poeta e, soprattutto,  del lettore. Un utile richiamo  va alla perspicua antologia del prof. Di Napoli, intitolata appunto ‘Tra le forme della meraviglia’, che indaga l’epifania dello stupore nella poesia irpina contemporanea.   

La  lettura attiva trasforma, amplia lo spazio e la fecondità poetici. Dunque, facciamo nostra l’ambizione di Montaigne: « Un lettore perspicace scopre spesso negli scritti altrui perfezioni diverse da quelle che l’autore vi ha poste e intraviste, e presta loro significati e aspetti più ricchi». I versi ospitano rimandi, connessioni, escursioni, possibilità digressive: insomma, mostrano di conoscere più cose di quante ne abbia insinuate l’autore. 


Il titolo, nonostante l’enfasi,  lusinga il lettore promettendogli un insidioso rovesciamento acrobatico. Esso, a mezzo di  sussiego metafisico, traspone l’infinito dal cielo all’uomo. La finitudine del quale muta nell’infinito celeste. 

Tra le prime della silloge, quasi a suggerire  un itinerario ermeneutico privilegiato, irrompe ‘Mendicante’:   

<< Mendicante

 chiudo nel sacco tarlato

 tutte le illusioni

ora in un vicoletto senza sole

ora sotto il cielo stellato

al sorriso

dell’elemosina della vita>>.

L’autocoscienza della ontologica miseria umana definisce e condiziona  la relazione con l’Altro, ossia il Con–Esserci. 

In particolare, ci dispone alla corrispondenza con l’esistenza,  che infatti – e questo è un pregevole lampo lirico -  non si dà una volta per tutte, ma si concede alla stregua della erogazione  precaria e discontinua dell’elemosina. Degna di sottolineatura, giacchè riuscita, è la metafora della vita come permanente oscillazione tra il pessimismo ( tarlo ) delle illusioni e l’ottimismo iridescente del sorriso (esistenziale). La precisa formulazione della contraddizione onora l’idea della espressione poetica quale esperienza del limite. Serve pure a delineare il perimetro concettuale di ciò che è notoriamente precluso alla razionalità: il simulacro della vita autentica. 

Nello scrigno dei versi traspare la propensione dell’Autore per l’ombra. Il teatro della vicenda umana   - sia che si tratti di un vicoletto senza sole, che di un  cielo stellato -    non è mai irradiato da luminosità piena o eccessiva. Tutte le sensazioni, tutti i sentimenti sono mediati da una luce fragile, quasi un lucore. In particolare, la percezione visiva, il potere-dovere di vedere cui è dedicata – evidentemente -  la riportata poesia. 

Al senso uditivo, invece, sembra rivolgersi il testo  di cosa sfugge : 

<< Cosa sfugge

alle nostre orecchie

del pianoforte della vita: 

forse il tono duro

dei volti riflessi 

nell’osso bianco dei tasti

forse quel tono leggero che m’impronta pianista

a ricalcare la voce dei misteri >>. 

Ma è solo un attimo, perchè subito interviene  l’equilibrio di una sinestesia.   

L’abilità lirica dell’Autore intarsia ogni verso, attingendo con disinvoltura all’udito ( le nostre orecchie, il tono, la voce dei misteri ), al tatto ( pianoforte della vita, i tasti, l’osso, m’impronta pianista, ricalcare), alla vista ( volti riflessi, l’osso bianco, misteri), non disdegnando però la contaminazione dell’immaginario, dell’ ultrasensibile. 

Non manca  l’invettiva. Ecco che irrompe la  coppia  di componimenti ungulati, Cemento armato e Piange il salice: 

<< Cemento armato

 e finestroni di vetro

 quattro pini geometrizzati

trapiantati nella terra

 tra erbe selezionate

 giardino etichettato

“ senza spine o erbacce”

 E’ tutto l’essenziale

 già, manca solo l’indirizzo

 si sa solo che è di tale

insigne giurista >>

******

<<  Piange il salice

 nel cerchio di cemento

 cammina

 con gli zoccoli del diavolo

 l’uomo solitario

 Il labbro ha sussurrato

sentenze di morte

nel mercato della vita

dura a morire >>.

Cresta denuncia qui – con epigrammatico lindore -   la diserzione dell’Umanità e della Natura che pervade  la società , come quella attuale, ogni qualvolta si persegue la funzione a scapito dell’essere. 

Il cemento armato e i finestroni di vetro di una villa, e i quattro pini geometrizzati trapiantati (e non piantati ) del giardino circostante sono divenuti  l’essenziale, il nuovo paradigma di una vita edulcorata e deprivata di ogni imperfezione ( senza spine o erbacce)  e relazione sociale ( manca solo l’indirizzo ).  Ed anche  la Legge, che è stato il massimo strumento di educata regolazione dei rapporti umani, è degradata a una etichetta di impersonale e vacua erudizione ( tale insigne giurista, l’uomo solitario il cui labbro ha sussurrato sentenze di morte  ). 

Si sbaglierebbe, tuttavia, a ricondurre questi  versi al corrivo e abusato schema  dell’impegno civile.  Essi sono innervati dal furore della dissidenza nei riguardi del visibile, non già da insoddisfazione  sociale. Mirano - da una prospettiva profana -  a scardinare il mistero dell’esistenza. La poesia – è stato detto – costituisce un atto sovversivo rispetto alla realtà così come appare. 

Insomma, una tensione verso la nudità.

La scrittura poetica del Nostro, oltre a essere irriverente, è perciò felicemente incontemporanea. 

In Senza preludi  Cresta si misura con il Tempo: decostruendolo, demistificandolo.

<< Senza preludi e presagi

specchi e orizzonti

la vita corre

su fili di paglia

pensieri sfumati

All’alba

ascolta il silenzio del  tempo

crepa la terra fino all’ultimo grido

si tuffa nel fiume in piena

Ritrova lo scoglio già vinto.  >>.

L’alba non segna l’inizio, bensì il silenzio del tempo. La vita corre ma ritrova lo scoglio già vinto. L’acuto espressivo costringe il lettore a interrogarsi sulla natura soggettiva della dimensione temporale, che non è né lineare né progressiva né irreversibile .

Le caustiche interrogazioni di Cresta pretendono  - insolitamente – nuove domande o, meglio,  pseudo-risposte del tipo concepito  da Marguerite Yourcenar nel provocatorio componimento Risposte:

-Cosa hai per consolare la tomba,

Cuore sfacciato, cuore ribelle?

Il frutto maturo si appesantisce e cade.

Cosa hai per consolare la tomba?

- Ho il tesoro di essere stato.

-Cosa hai per sostenere la vita,

Cuore pazzesco, cuore stanco?

Cuore senza speranza, cuore senza invidia,

Cosa hai per sostenere la vita?

-Pietà per ciò che deve passare.

-Cos’hai per disprezzare gli uomini,

Cuore di ghiaccio, facile da spezzare il cuore?

Cos’hai per disprezzare gli uomini?

Cosa sei più di noi?

-Capace di disprezzarmi.