IMPARIAMO

Il pallone, per Andrea, era quasi un cimelio. Lo teneva al riparo dalla polvere, chiuso in un sacco di tela, nonostante fosse ricoperto di vita vissuta. Consumato da partite infinite. Rotolato sui terreni più diversi: polverosi, melmosi, bagnati. Accarezzato dall’erba fresca del prato dietro la chiesa. Il miglior campo di calcio nelle stagioni primaverili. Preferito al campo del paese, pieno di pietre e buche. Il pallone era la vitamina delle giornate apatiche. Quelle giornate in cui la tv rimaneva spenta per scelta e le mura di casa diventavano simili ad una prigione. Era la consolazione dopo il suono della campanella, all’uscita della scuola. Era il primo pensiero del risveglio, la domenica mattina. Pallone che lo faceva diventare il capitano in ogni partita. Lui che aveva l’onore, o meglio il privilegio, di essere il proprietario del primo Super Santos, mentre fino a pochi anni prima giocava con palloni fatti di stracci. Quel giorno, come ogni giorno di quell’estate del ‘62, quando la scuola era solo una casa vuota e lesionata, Andrea chiamò i suoi amici a rapporto sul piccolo campetto dietro la Chiesa. Tutti presenti, come sempre, per la partita delle cinque. Appartenere alla piazza o vivere nel centro storico oppure nel borgo del paese definiva la formazione delle squadre. Quasi un torneo. L’arbitro prescelto, un bambino magrolino e senza un dente, si disperò in un pianto quasi isterico, voleva giocare anche lui. Andrea seppe calmarlo: “una volta per uno - gli disse - facciamo a turno”. Poi il suono della campana, le cinque esatte, anticipò il fischio di inizio e la squadra della Piazza diede il calcio d’avvio. La rivalità era animata e vivace. Si sfidavano i bambini della Piazza contro quelli del Borgo. Magliette bianche contro magliette rosse. La prima vera azione della partita ebbe come protagonista il figlio del fornaio. Con un dribbling veloce cercò di guadagnare metri verso la porta e, quando vide due difensori frapporsi al suo percorso, calciò con potenza, senza pensarci due volte. Voleva provare l’ebbrezza di fare un gol epico. Quei gol che si vestono di leggenda nelle storie dei ragazzi. Ma la fortuna non fu dalla sua parte ed il pallone, sospinto anche dalla forza del vento, prese una traiettoria strana. Superò il campetto e girò l’angolo della strada come se fosse stato spinto o accompagnat0 da un altro calcio, stavolta trasparente. Scomparve in un guizzo di secondo, lungo la discesa che portava verso il dirupo. Andrea accompagnò il pallone con lo sguardo e riuscì a dire solo un “Nooo” prolungato dalla tensione di perdere il suo adorato tesoro. La partita finì nello stesso istante. Tutti si fermarono, quasi sconvolti, ed un gruppetto si formò intorno al responsabile dell’azione. “Sei sempre il solito spaccone” esordì Andrea, avvicinandosi ad un palmo di naso. “Se il pallone si è perso facciamo i conti” aggiunse tirandosi su le maniche. “Se si è perso mi fa piacere” ribattè spocchioso il ragazzo dalla maglietta rossa “così la smetti di comandare”. La rissa fu una normale quanto necessaria conseguenza. Tutti contro tutti. Si litigava e si faceva a botte per un pallone andato a finire chissà dove. Tuttavia gli animi, dapprima accesi e lividi, man mano si calmarono. Una bonaccia improvvisa, dopo la terribile tempesta, schiarì la rabbia. Complice anche i dolori dopo le botte. Il piccolo arbitro si avvicinò ad Andrea e lo staccò dal malcapitato di turno. Aveva in mano un pallone lercio, fatto di stracci. Glielo porse ed abbozzò un sorriso. Andrea guardò la sua maglietta bianca, sporcata di rosso. Il sangue gli colava giù dal naso che era una meraviglia. Non servirono parole ed in pochi istanti capì quanto era stato assurdo il suo comportamento. Così, con un fischio, richiamò l’attenzione di tutti. “Fermi, che stiamo facendo?” disse bloccando le azioni bellicose. “E’ solo un pallone, usiamo questo e rimettiamoci a giocare.” Incredulità generale. Poi tutto ritornò come prima. Agonismo e sorrisi al posto delle botte e dei litigi. La morale? Forse troppo semplice da capire per i bambini ma decisamente difficile per i grandi. Perché i bambini prima litigano e poi ritornano a giocare insieme? Perché la loro felicità viene prima dell’orgoglio. (Impariamo dai bambini). 

NIENTE

Il peso di quell’assenza affondava nei passi. L’eco del silenzio si infilava, severo, nei capelli. Li annodava con sapienza, spinto da manciate di vento caldo (che poi, forse, vento non era). Tesseva le trame, un reticolato di pensieri asfissianti. Era lui uno dei compagni di viaggio. Forse quello che meglio comprendeva le sue emozioni. Emozioni liquefatte nel movimento assurdo degli impulsi cerebrali. Impulsi che, davanti ad una condanna, non riuscivano ad elaborare niente. Bloccati sullo stesso tasto, a suonare una sola nota: muta. Anche il silenzio, come gli occhi di lei, si nutriva di quella mancanza. Occhi che sembravano interrompersi nello sguardo, salvo poi riprendersi, nel movimento repentino delle ciglia che sbattevano veloci. Chiusi ed aperti. Come in un continuo vedo non vedo. Eppure il cammino era lungo. Faticoso. Riusciva a percepirlo, sentirlo, nella sua maestosità. Cosa doveva fare? Trattenere il fiato, respirare appena. Esercizi che servivano per darle forza. Per non inglobare troppa aria nei polmoni. Per non far pesare e pensare la testa. Per dare alle gambe la spinta necessaria per continuare. Era solo il movimento, quasi un automatismo, a definire quel corpo come un corpo dinamico. Per il resto niente sembrava vivere in lei. Era una casa disabitata. Nessuno che apre le finestre. Nessuno che accende la luce. Mura che man mano si sgretolano sotto il peso di quella tormenta. Eppure davanti a quella casa c’era una strada. Si apriva simile ad un viatico di passione. Strada di cui conosceva l’arrivo, la fine. Strada senza senso ma obbligatoria da percorrere. La vita gli aveva indicato o imposto il cammino e lei lo aveva preso, intrapreso, senza togliere il cuore dai carboni. Cuore che bruciava, avvolto dalle fiamme del dolore, ma che, ancora, non era completamente cenere. Poteva sentire, così come lo aveva avvertito la prima volta, il dolore trafiggerla con precisione inaudita. Come al primo annuncio del destino. Maledetto. In quelle parole, in quella diagnosi, aveva capito cos’era quella zavorra che la rendeva così pesante. Cos’era quell’assenza. Quella mancanza. Le lacrime se ne erano andate quando aveva guardato quel bambino diventare improvvisamente vecchio, senza vivere neanche un anno della sua vita. Quando aveva raccolto i primi capelli caduti sul golfino. Quando gli aveva tenuto la mano durante la prima flebo, tremando solo con la gola. Quando aveva trasformato la paura in una favola bugiarda, a lieto fine, mentre gli rimboccava le coperte prima di dormire. Quando lo aveva preso in braccio sfinito, dopo l’ultima terapia, e non aveva sentito che ossa. Non più suo figlio ma una piuma. Il peso di un’anima pronta a sparire per sempre. Ed in quell’abbraccio si era scarnificata della speranza. In quell’abbraccio, l’ultimo, aveva consegnato, sconfitta, quella che era la sua vita “in mani più grandi, mani discese dal cielo”. Così aveva detto il prete durante l’omelia, mentre lei si svuotava di preghiere mai ascoltate. Lei che, oramai, non credeva più a niente. Niente che non fosse reale. Reale come quella morte

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