Il sogno di Edipo e Mitici amori - Analisi di Giuseppina Manganelli

Ho trovato il libro “Il sogno di Edipo e mitici amori “ di Emanuela Sica molto, molto arricchente. Facendo ricorso alla mitologia greca, Emanuela ha analizzato la natura e gli aspetti sia negativi che positivi del tema nell’amore; ha illustrato la metamorfosi degli "amori” e la logica  dei comportamenti e delle razioni  di chi ama. Non mancano nello scritto riferimenti a tematiche attuali che risalgono al mondo mitologico.


-Nel testo grande importanza viene dato al meraviglioso modo di amare della donna: l’incondizionato amore di una madre per un figlio, l’amore autentico, benevolo e altruista per l’uomo. 

-Particolarmente significativa ed attuale è l’analisi dell’ amore non corrisposto: da una parte l’ostinata ricerca dell’amore dell’altro e dall’altra il rifiuto di essere oggetto d’amore. L’insegnamento che potrebbe evitare tragedie, violenze e conseguenti dolori è una dose di consapevolezza e di saggia e matura riflessione: saper comprendere i limiti da non oltrepassare ed imparare ad accettare situazioni con serena rassegnazione.

-Una situazione amorosa di cui si è spesso meno consapevoli è l’essere irrazionalmente vittima d’amore: chi è debole può diventare vittima del proprio vorace sentimento amoroso, spesso provato per chi di quel sentimento non è degno, per chi non nutre sentimenti nobili. Essere vittima dell’amore ed essere travagliato dall’amore può portare chi ama a compiere gesti estremi, devastanti, come ferire altri, perfino persone del suo stesso sangue, per amore dell’amato e per risolvere i problemi che si possono interporre tra chi ama e l’amato. Questo tipo di amore viene illustrato mediante la figura mitologica di Medea, considerata la prima serial killer psicopatica.

-Piacevole è la storia d’amore tra Penelope e Odisseo (Ulisse), la loro è un’odissea d’amore. I due provano un concreto amore eterno, vivono un’ eterna fedeltà. Durante l’assenza di Odisseo,  Penelope ostinatamente lo aspetta, ma deve far fronte alla corte dei suoi pretendenti. Con uno stratagemma riesce a differire il più possibile un nuovo matrimonio, rimanendo  fedele al suo amato sposo. La dona  preferisce essere schiava del suo amore per Odisseo. Penelope, simbolo della fedeltà coniugale femminile, arriva ad affermare che se Odisseo non torna, gli andrà incontro; se è morto, lei non avrà ragione di vivere. Odisseo un giorno ritorna ed essi rivivono felici il loro amore.

-Famosissimo è amore tra Romeo e Giulietta, un amore  impossibile, un amore senza speranza, ostacolato dal destino, un destino  l’odio tra la famiglie di Romeo e quella di Giulietta) che “rubò  la speranza, poi la vita". L’amore tra Romeo e Giulietta è la storia di una tragedia, la storia d’amore più triste, un amore unico in cui entrambi riescono a “vivere”. I due amanti sono consapevoli di appartenere l’uno all’altro: non avrebbero mai potuto amare altri, non avrebbero mai potuto trovare la felicità in un altro rapporto.-


‘’Il caso Antigone ‘’- Commento, analisi e riflessioni, a cura di Mariagiovanna Prudente

«A proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl'Inferi, Dike, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove.» (Antigone, vv. 450-457)

La figura di Antigone, figlia di Edipo e sorella di Eteocle e Polinice, è stata al centro di una  grande riflessione filosofica ottocentesca e novecentesca. Figura femminile magistrale, complessa, sublime, inarrivabile. Interpretata, reinterpretata, anche a distanza di secoli. A lei ed alla tragedia sofoclea, hanno dedicato pagine memorabili autori come: Hegel, Kierkegaard, Heidegger, Agamben. ‘’Il caso Antigone’’ di Emanuela Sica e Luigi Anzalone riunisce, per la prima volta, gli episodi fondamentali della moderna riflessione filosofica sull’Antigone. Il loro contributo, complesso, articolato, poliedrico, è assolutamente decisivo per la comprensione del pensiero sofocleo e per ciò che Antigone stessa rappresenta. La lettura dell’opera  è accompagnata da un saggio introduttivo di Giuseppe Cantillo  che contiene gli elementi necessari per affrontarne la decodifica con un appropriato corredo di precisi presupposti teorici e chiare informazioni critiche. In tal modo, l’opera dei due autori, entrambi mirabili e magistrali nella loro (re)interpretazione,  aspira efficacemente a raggiungere un pubblico vasto che, così facendo, percepisce quella chiave di volta comprensibile e chiara per arrivare a intendere realmente le parole di Sofocle.  La ricognizione è completa, assoluta:  pervasiva la presenza di Antigone nel pensiero filosofico moderno. Gli autori, così facendo, operano la riesamina attenta di una tesi audace e qualificante. 

Luigi Anzalone è particolarmente privilegiato nell’avere un’esegesi autentica, univoca,  al dir poco simbiotica con lo stesso Sofocle, essendo uno storico, studioso e ricercatore della filosofia, in particolare quella socratico-platonica, vicino al pensiero di Friedrich Nietzsche e di Ernst Bloch. Il suo pensiero emerge con fermezza. Reso attraverso adamantine parole, Anzalone esamina con chiarezza  la straordinaria complessità del testo sofocleo, mettendone in luce la sua protagonista. Antigone è una donna appassionata, il cui pensiero e la cui indole non si conciliano con l’etica, la politica e la morale della sua epoca. 

Al contrario, essa finisce col contrastare apertamente soprattutto con le forme maschili del potere ordinativo.    

E’ l’emblema della ribellione e dell’emancipazione del pensiero femminile. E’ il simbolo della lotta, del coraggio, della determinazione. E’ vittima ed  eroina allo stesso tempo.  Sfida  l’uomo, il tiranno, Creonte, e le leggi della polis pur di dare degna  sepoltura al suo amato fratello Polinice. L’etica e la morale che confliggono con l’uomo e le sue leggi.  Nel corso dei secoli, in particolare nel Novecento, la sua figura è divenuta sinonimo di resistenza e rivendicazione del potere femminile. E’, da sempre, considerata il simbolo della lotta contro il potere, della ribellione romantica e solitaria contro il dominio ingiusto di un tiranno senza limiti.

Luigi Anzalone interpreta in modo autorevole Antigone e tutto ciò che essa incarna e rappresenta, come donna, come figura, come simbolo e lo fa attraverso una disamina colta e particolareggiata, mettendo in evidenza sia la problematicità dell’esistenza dell’uomo eschilea, sia  la rilevanza all’uomo singolo rappresentato in un’azione significativa del suo esistere sofoclea. 

La complessa personalità  dell’Antigone si denota da un ulteriore, e certo non meno importante, aspetto: il rapporto che ha con suo padre Edipo, la cui sorte tragica lo porta ad essere vittima e carnefice al medesimo tempo; uccide, seppur inconsapevolmente, suo padre e sposa sua madre. L’inevitabile tormento interiore che ne deriva lo spingerà a compiere un gesto simbolico - allegorico: accecarsi per non aver saputo ‘’vedere’’ la verità, contrariamente a Tiresia: ‘’Essere cieco non è una disgrazia diversa da esser vivo. Ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare’’ .

Antigone è figlia di questo tormento. La sua storia travagliata lo dimostra: il mistero tragico della sua famiglia, il voler seppellire il fratello Polinice, la  proibizione di Creonte, suo cognato che detiene il potere, sua sorella Ismene la quale, non riuscendo a contravvenire a questo divieto, non le presta aiuto e non vuole certo farlo. E’ qui che emerge la sua forte ribellione: di nascosto, ha ricoperto di polvere il cadavere insepolto di Polinice perché non si contamini, pur essendo consapevole che questo infausto gesto la condurrà certamente alla morte. 

Secondo Luigi Anzalone, Antigone non è solo una delle eroine più inflazionate di sempre, ma rappresenta il simbolo e  la rivendicazione della sfida femminile allo statalismo. Se, infatti, Creonte raffigura l’autorità dello Stato con tutte le sue norme e leggi di carattere universale,  Antigone incarna le leggi della parentela e della sua estrema,  successiva, dissoluzione.

V’è una forte contrapposizione tra il legame di parentela fra Antigone e Creonte ed il principio di autorità basato sulla c.d. ‘’Legge del Padre’’.  Lettura questa che fa propendere il nostro pensiero verso Hegel e la sua Fenomenologia dello Spirito, nella quale  il filosofo   riprende la figura di Antigone associandola alla legge degli Dèi del focolare. Egli considera tale tipo di legge come ‘’subordinata ed esterna’’ ai princìpi della polis. Inoltre, per Hegel, Antigone, simbolo del potere femminile, è destinata a morire fin da subito in quanto, con il suo atto di sfida, contravviene apertamente a Creonte,  diventandone il nemico e stravolgendone parti e ruoli. La vera sfida è verso la norma.  Avviene per mezzo di un atto linguistico talmente incisivo da indurre inevitabilmente Creonte, non  solo a condannarla, ma addirittura  a giurare che, nel suo regno, non comanderà mai una donna.

Per Anzalone, la morte di Antigone è inevitabile: sia perché la protagonista ha osato ribadire il reato commesso, sia perché ha superato i limiti della parentela e dell’ordine simbolico essendo, la fanciulla,   figlia di suo fratello Edipo e di sua madre e nonna Giocasta. Per tali motivi, questa tragedia greca andrebbe riletta più e più volte, soprattutto in relazione al nostro attuale contesto storico, politico, sociale, etico, morale e giuridico. La tragedia, essendo focalizzata su più temi, egregiamente si presta alla riflessione rivolta a diversi aspetti, più attuali che mai. Infatti, essa consente di interrogarci sui rapporti tra potere e individui, su quanto, quando e come sia necessario rivendicare i propri diritti individuali, l’affermazione ed il ruolo della donna oggi, il rapporto con la famiglia di origine e la sua evoluzione. 

Secondo Anzalone, Antigone, attraverso il suo atto, sfida il potere precostituito, supera i confini del femminile e del  maschile, della legge universale e privata, articolando una nuova visione della parentela. Essa rappresenta l’indefinibile dell’essere umano.  Manifesta inequivocabilmente la sua superiorità etico - ontologica sempre posto sul limite del simbolico. Attraverso il suo atto di ribellione, si libra verso un senso ‘’prometeico di libertà’’, verso l’amore cosmico, trascendente, eterno, irrinunciabile. Rappresenta l’irrappresentabile. Rappresenta la Philia  universale. E’ riconoscimento e allargamento di diritti. E’ la riconciliazione tra ordine politico e rapporti privati.

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Emanuela Sica, dal suo canto, dimostra subito di essere particolarmente vicina e sensibile ad Antigone, alla sua figura e a tutto ciò che essa incarna e rappresenta. Essendo un’attivista per i diritti delle donne e contro la violenza di genere, la Sica scrive in questa veste, ma anche come giurista e, soprattutto, come donna. La scrittrice pone un’attenta analisi di Antigone soprattutto come donna che, in preda al suo dolore, chiede dignità, chiede rispetto. Le parole utilizzate sono cariche di significato, espressive, assumono una connotazione simbolico - allegorica ricca di pathos. L’emozione che da esse ne deriva consente al lettore di immedesimarsi nello sconvolgimento emotivo della donna e nel turbinio delle sue emozioni. Le parole assumono un significato emotivo e  pregnante, soprattutto essendo marcate dai gesti che compie la giovane. Antigone ci viene raccontata con amore. Un amore universale che consente di scavare con educazione nella sua anima, nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, nel suo cuore. E questo la Sica lo realizza in modo magistrale. Antigone è una donna. Come noi, vive l’amore, vive il dolore, affronta il bene ed il male. E lo fa senza  riserbo, senza secondi fini. E’ sensibilità. E’ forza. E’ coraggio. Questo rappresenta quasi un ossimoro con la sua figura di esile fanciulla. In realtà, è lei la figura che si erge forte di fronte a Creonte. E’ lei sinonimo di saggezza, di morale ed etica, di rispetto. E’ lei in grado di scindere il giusto dall’ingiusto, rinnegando con forza ciò che il suo cuore ritiene irragionevole.

Particolarmente interessante e degno di nota, il parallelismo di carattere teologico, in cui viene riscontrato una sorta di confronto con la figura di Gesù. L’analogia, intelligente, calzante e pertinente, risiede nel fatto che, come a Gesù non è stato risparmiato dolore alcuno, così alla donna. Anche Gesù, inoltre, è stato il primo ribelle - alias rivoluzionario - della storia, non sottostando alle inique leggi di Erode. La maestria e l’abilità degli scrittori rendono umano il dolore di Gesù. Lo percepiamo attraverso una scrittura viva, efficace, sincera. Vive il martirio, la paura, la delusione e la sofferenza. L’inevitabile spezzarsi della Sua vita per aver amato tanto, troppo, l’essere umano. Nessuno Gli offre aiuto, né conforto, né sconto di pena. Si immola rendendo il Suo gesto immortale attraverso i secoli. E Antigone si reincarna in tutto questo.  Come direbbe Anzalone - riprendendo Hegel - :’’Sono fratelli’’. Si suggella un legame indissolubile tra amore e dovere, tra bene e male, tra il giusto e l’ingiusto, tra legge morale e divina, la morte che incarna la vita eterna. Il senso di pietas è marcato, assume un carattere particolareggiato attraverso il consapevole sacrificio della vita. E’ sinonimo della purezza dell’amore e di nobili sentimenti dell’anima, è assolutezza, è profondo senso di dovere e di rispetto verso la famiglia.  E’ la voce dei vinti, dei deboli, dei sofferenti, degli ultimi. E’ il simbolo di salvezza e cambiamento rivoluzionario del mondo attraverso un estremo gesto di coraggio e di altruismo. E’ verità. E’ l’assoluto. E’ la vita che trionfa sulla morte. Pertanto, il quadro che emerge è complesso, poliedrico, fortemente articolato. Mette in luce diverse caratterizzazioni che si prestano a molteplici interpretazioni, a notevoli parallelismi che mettono in luce temi ed aspetti che spaziano dalla storia alla letteratura, dalla filosofia alla teologia, dall’etica e dalla morale al diritto, all’attuale ruolo della donna. Personalmente, anche il mio pensiero si poggia, come suggerisce Anzalone, sul binomio: Antigone e Socrate, due figure simbolo dell’antica Grecia messe a confronto da Hegel nelle sue: ‘’ Lezioni di storia della filosofia’’.

La comparazione che emerge è palese: le due morti paradigmatiche sono entrambe provocate dallo scontro personale con il potere dello Stato e con le sue leggi. Entrambe volute ed accettate. Il loro sacrificio da martiri è testamento immortale attraverso generazioni e secoli: combattere per quello ed in quello in cui si crede  affinché, dal sacrificio, irrompa un messaggio per i posteri.

Socrate, rispetto ad Antigone, subisce un processo con l’accusa di corruzione degli animi dei giovani adepti e per aver inculcato loro  insegnamenti in contrasto con le credenze sugli Dèi tradizionali. Egli sostiene fermamente che: se posti al servizio della verità, il pensiero e la coscienza, non devono incontrare censure.

Antigone e Socrate sono ribelli. Sfidano il potere in  piena consapevolezza delle inevitabili conseguenze. La loro idea di giustizia è ben più fulgida e forte della giustizia stessa. 

Hegel, raffrontando le due personalità, ravvisa in Socrate una contraddizione di fondo: rifiuta la fuga in ossequio alla leggi ma, durante il processo, disprezza le norme e respinge l’alternativa pena della transazione. Antigone  contesta allo Stato il potere assoluto di legiferare. Rivendica al popolo una sfera di diritti inviolabili. Non contesta né il processo né la condanna - considerati come effetti ingiusti, ma ineluttabili - di una legge sostanzialmente ingiusta. Socrate, al contrario, non contesta la legge la cui giustezza gli appare inoppugnabile, ma l’applicazione in concreto della norma ad un processo iniquo. Non a caso, lo stesso Hegel riconosceva ancora che la grandezza della tragedia sofoclea risiedeva nell’assoluta inconciliabilità dei due mondi di valori di cui Antigone e Creonte si fanno testimoni. La posizione del filosofo è chiara: la legge degli uomini, se ingiusta, va violata in nome di una legge superiore, anche a costo della propria vita. Antigone si sacrifica per un bene superiore e, così facendo, rende immortale il suo gesto. 

“Ancora più interessante, sebbene del tutto calata nel sentire ed agire umano, si presenta la medesima opposizione nell’Antigone, una delle opere d’arte più eccelse e per ogni riguardo più perfette di tutti i tempi. Tutto in questa tragedia è conseguente; la legge pubblica dello Stato è in aperto conflitto con l’intimo amore familiare ed il dovere verso il fratello; l’interesse familiare ha come pathos la donna, Antigone, la salute della comunità Creonte, l’uomo. Polinice, combattendo contro la propria città natale, era caduto di fronte alle porte di Tebe; Creonte, il sovrano, minaccia di morte, con una legge pubblicamente bandita, chiunque dia l’onore della sepoltura a quel nemico della città. Ma di quest’ordine che riguarda solo il bene pubblico dello Stato, Antigone non si cura, e come sorella adempie al sacro dovere della sepoltura, per la pietà del suo amore per il fratello. Ella invoca in tal caso la legge degli dèi; ma gli dèi che onora sono gli dèi inferi dell’Ade, quelli interni del sentimento, dell’amore del sangue, non gli dèi della luce, della libera ed autocosciente vita statale e popolare.”  

Attraverso il personaggio dell’Antigone sofoclea, viene in luce una viva contrapposizione tra suddito e re, tra cittadino e Stato. Rousseau, nel Contratto Sociale, non a caso pone a base della delega conferita dai governati allo Stato, la necessaria restituzione e garanzia delle libertà originarie sotto forma di diritti.

L’insegnamento tramandatoci da Antigone e da  Socrate potrebbe spingerci alla seguente considerazione: lo Stato ha il potere-dovere di emanare le legge, ma le stesse devono essere pur supportate dalla necessità e dalla utilità, oltre che nei precetti e nelle sanzioni, nella proporzionalità allo scopo che si propongono di regolamentare.

Ai giudici viene demandato l’arduo compito di applicarla, la legge,  ripudiando ogni tentativo  di sovrapporsi ad essa.  I cittadini limitano la propria ‘’sovranità popolare’’, ma tale - e solo apparente - limitazione, consente loro di essere efficacemente tutelati. Questo a presupposto che  le leggi  non costituiscano palese usurpazione della sovranità popolare stessa. Bertolt Brecht, sul punto, direbbe che: “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere.”

Un altro riferimento che, sul punto, ritengo opportuno fare è certamente rivolto ad un altro filosofo da me molto amato. E’ Platone il quale, nei  dialoghi:  l’Apologia, il Critone, il Fedone dedica il suo pensiero alla dipartita socratica. Quest’ultimo, sereno tanto quanto imperturbabile, rifiuta la fuga proposta - per non dire implorata - da Critone. Se l’avesse fatto, infatti, avrebbe dimostrato ai suoi accusatori di dire il vero e lui il falso. La risposta data nel Critone è di carattere squisitamente politico, ma privilegia un tema particolarmente caro a Socrate: meglio subire ingiustizia piuttosto che commetterla. Questo è un tema fortemente dibattuto nel Protagora, soprattutto nel primo libro della Repubblica e nel Gorgia,  in cui la posizione di Socrate trova il suo contraddittorio in Callicle, sofista che esalta il coraggio di commettere ingiustizia invece di subirla. Nietzsche sosterrà proprio quest’ultimo.

Il filosofo Giorgio Agamben sostiene che la legge, ai tempi di Socrate, si muoveva ancora fra divino e umano. Non a caso, La comunità politica aveva un ruolo e un significato pregnanti nella società e nella  vita degli uomini. Socrate, secondo Agamben, soccombe alle ingiuste leggi della polis perché, di quella stessa polis, egli si sente  - ed è -  parte. Allora aveva senso parlare d’amore. A Socrate basta semplicemente sapere di essere morto nel giusto, per una giusta causa, per un suo giusto pensare ed un giusto agire. Muore seguendo la sua morale. E non v’è legge più forte, se non quella che ci consente di credere, di essere e di sentirci liberi.

Heidegger, nella sua analisi, non è da meno. Egli, infatti, consente di connotare il testo sofocleo sotto un'ulteriore importantissima luce. Secondo il filosofo, infatti, di tale necessaria contingenza è testimonianza l’Antigone, laddove è  manifesto cogliere l’intero limite e la potenza dell’umano. Heidegger traduce in veste tipicamente e intimamente teoretica Sofocle e questo conferisce alla sua opera un mirabile contributo interpretativo che sfocia in una fedele autenticità.

L’umano, o τὸ δεινότατόν, è tradotto da Heidegger con " das Unheimlichste" , “gli estremi confini e gli abissi”, e viene interpretato dallo stesso come il nostro "sentirci senza dimora". Il δεινόν, infatti, è ‘’l’inquietante’’ che impone - senza scampo - l’angoscia e il timore. È l’umano che ha perduto un luogo caro, ma che continua ad essere, in lui, caro al suo cuore.

Pur vero è che il filosofo si concentra soprattutto sul Primo stasimo, ove la sua riflessione si poggia su di un duplice profilo: da un lato, protagonista indiscussa la natura essenziale dell’uomo, dall’altro una “sintesi profetica e premonitrice del sorgere e declinare della civiltà occidentale” per tradurla in termini del Maestro G. Zagrebelsky. La vicenda della principessa tebana ha sempre un doppio scenario: il suo estremo gesto la rende immortale pur conducendola alla morte; è mente e cuore, è trionfo, ma anche sconfitta. Sofocle, sul punto, ci risponderebbe in tal senso: “Molte sono le meraviglie ma nulla è più portentoso dell’uomo”.                                                

In breve, tutta l’interpretazione di Heidegger fa leva sulla ‘’ tà deinà’’  - lett. le “cose meravigliose”- , che il filosofo traduce con la parola ‘’ inquietante’’ o, per dirla alla M. Cacciari: la “tremenda potenza”. Sì, perché l’uomo, con tutti i suoi artifici, esercita sulla natura una serie di trasformazioni che denotano un carattere certamente evolutivo per la stessa e per la polis ma, spesso, il prezzo è molto alto e le conseguenze che ne scaturiscono sono terribili e terrificanti. Antigone è il frutto di questa evoluzione/involuzione, progresso/regresso. E’ la - terribile - umanità che domina sulla realtà. 

Per completezza e per chiarezza d’esposizione, riporto in breve alcune righe tratte dal testo che contiene le complesse riflessioni di Heidegger su Antigone, nel contesto dell’analisi filosofica della poesia di Hölderlin contenuta nel saggio:’’ L’inno Der Ister di Hölderlin’’ (ed. Mursia). 

«Abbiamo equiparato l’inquietante, in corrispondenza del significato greco del deinòn, a ciò che fa paura, che esercita la violenza, che è inconsueto. […] L’inquietante significa […] prima di tutto, l’unità dei tre modi sunnominati, affiancati ognuno dalla forma che gli si oppone. Il più inquietante sarebbe la piena essenza dell’inquietante […]. Solo che […] ciò che propriamente, e quindi unicamente, costituisce l’essenza dell’essere inquietante [è…] l’essere spaesato […]. Ciò che [… ] è nella sua essenza spaesato supera in maniera inquietante tutto ciò che è inquietante, ossia lo supera nell’essenza. Spaesato non è però semplicemente ciò che non è di casa; spaesato è quel tratto delle cose di casa che è cercato senza essere trovato, perché è cercato sul cammino della lontananza e dell’estraneazione da sé. […] Il tratto più inquietante che l’uomo possa assumere è indicato dalle parole pantóporos-áporos e dal nesso ypsipolisápolis. In quanto è colui che dappertutto si aggira, l’uomo tutto raggiunge e tuttavia in questo modo dappertutto perviene al nulla, nella misura in cui quel che ottiene nel suo aggirarsi non è mai sufficiente per colmare e sopportare la sua essenza. Ciò che l’uomo intraprende si volge in se stesso, e non solo in qualche esito sfavorevole, contro ciò che l’uomo nel suo intraprendere cerca, ossia il farsi-di-casa nel mezzo dell’ente […]. Ypsipolis-apolis parla puntando nella direzione di un ambito particolare nel quale si compie l’agire umano. […] È l’essenza stessa della polis di premere nell’ascesa e di precipitare nella rovina, cosicché l’uomo venga disposto nelle due possibilità in conflitto e debba in questo modo essere egli stesso tutte e due le possibilità. L’uomo non “ha” queste possibilità al di fuori di sé e accanto a sé, ma la sua essenza consiste nell’essere colui che, in quanto ascende all’interno della sede della sua essenza, ugualmente è senza sede. Essere in questo modo, essere cioè determinato nell’essenza del tratto spaesato significa però essere denso di contrasti. Ci si spinge verso l’altezza del proprio spazio essenziale per dominarlo ed egualmente per rovinare nella sua profondità e perdersi in esso. […] Poiché l’uomo nel suo essere storico deve lasciare che l’inquietante si imponga nella densità dei suoi contrasti estremi, apparendo nella polis ed egualmente celandosi, l’uomo è l’ente più inquietante. E l’essere spaesato stesso? Esso è congiunto alla polis, ossia alla sede del soggiornare dell’uomo storico nel mezzo dell’ente. […] Perché l’uomo, e soltanto l’uomo, si riferisce all’ente in quanto ente, all’ente nel suo non nascondimento e nel suo nascondimento, e circa l’essere dell’ente può cadere in errore; anzi a volte, ossia sempre circa gli ambiti estremi di questa sede, circa l’essere, deve cadere in errore, cosicché prende il non-ente per l’ente e l’ente per il non-ente. [I termini Pantopóros áporos… ypsípolis ápolis… (dappertutto aggirandosi, tutto esperendo per via, senza scampo, inesperto… dall’alto la sede dominando, dalla sede escluso)] nominano il tratto spaesato dell’uomo, e lo nominano per indicare che l’uomo, nell’ente che di volta in volta egli “ottiene” [bekommt] e tiene nella mano, non perviene [Kommt] mai all’essenza che gli è propria.» (pp.77 ss).

Come già rilevato, una fetta importante della filosofia tra Ottocento e Novecento considera la tragedia classica come una vera e propria evocazione delle - eterne - domande fondamentali: l’essere, l’esserci, l’esistere e l’esistenza dell’uomo, come singolo e nel mondo. Se Freud si limita - con un forte eco a Schopenhauer - a rintracciare il legame tra psiche e co(no)scenza, Nietzsche ci propone un’analisi disincantata circa la contraddittorietà dell’esistenza umana. La metafora di questo nodo è complessa, intricata, profonda, radicata.  E lo fa focalizzando l’attenzione contro esiti - seppur apparentemente -  consolatori, ma nichilistici in vero, del platonismo e del cristianesimo: fughe queste per il non accettare la propria (de)finita condizione terrestre. Nietzsche non a caso, infatti, pone le basi perché il tragico diventi permanentemente una categoria filosofica: Antigone come fusione tra apollineo e dionisiaco . 

Con Kierkegaard ci troviamo proiettati in una dimensione nuova rispetto a quelle appena esaminate: ci troviamo su di un piano interpretativo di natura esistenziale. Sì, perché il filosofo, nella sua attenta analisi, si concentra non tanto sul conflitto “esteriore” di Antigone con il potere politico, quanto sul suo conflitto “interiore”, esistenziale. Questa nuova angolazione ci consente di inquadrare Antigone sotto una nuova luce:  è l’antesignana di tutti i personaggi tragici della modernità individualista. Antigone è la coesione delle eterne e più grandi confluenze: è tormento interiore e forza esteriore, è dolore e rinascita, è senso di responsabilità e senso di colpa. 

Diversamente, il filosofo Ernst Bloch ha intravisto nella tragedia sofoclea la celebrazione di un solo diritto, quello della “pietà non scritta contro lo jus strictum della ragion di stato” , una posizione ermeneutica non molto dissimile da quella di J.P. Vernant, secondo cui il conflitto tra Antigone e Creonte non riguarderebbe un vero e proprio confronto tra religione e politica, oppure tra spirito religioso e irreligioso, ma abbraccerebbe soprattutto una contrapposizione particolarmente avvertita dai popoli antichi, quella tra religione privata e religione pubblica, in quanto le divinità immaginate a protezione della città dovrebbero allo stesso tempo incarnare i valori più importanti dello stato  . 

La figura di Antigone è dunque irraggiungibile, irrappresentabile, paradigmatica, archetipica, irrisolta, paradossale ed estrema.

Unisce natura e cultura, «ethos» e «pathos» o, in termini nietzscheani, Apollo e Dioniso. Il rapporto originario che si stabilisce tra «natura» e «cultura» — e che la figura di Antigone esibisce in modo esemplare — costituisce il problema stesso della filosofia, quello che potremmo definire — in senso «kantiano» — il problema interno della filosofia. La figura di Antigone è l’exemplum di questo «paradosso originario» .

«Deinòtes», infatti, significa esattamente questo: un’alterità assoluta che resiste ad ogni tentativo di riappropriazione dialettica e di rilevamento concettuale . La figura di Antigone evoca quella traccia originaria  che non si lascia riassorbire dalla sintesi filosofica. Il Lògos di Antigone è insieme divisione e unione, proprio e improprio, metafora e concetto, presenza e assenza. 

Antigone e Creonte sono separati da Nòmos e Physis, natura e cultura. Pertanto, emerge la consapevolezza secondo la quale la cosa migliore, per l’uomo, è non essere nato — «mè phynai» — non essere e, dunque, essere niente, perché il Nulla è il fondamento incondizionato che, ogni volta, traspare nell’apparenza e nel visibile.

L’esistenza è assimilabile al «monoumenos»: sradicata e condannata all’esilio, dissociata e frammentaria. La colpa  di Antigone assume matrice e connotazione ontologica, essendo  la determinazione unilaterale del suo ethos e della sua «pràxis». Divide la continuità della polis.  Divide l’unità etica della coscienza.  Si perde l’identità.

È qui che subentra il tema tanathos: è  proprio la morte, infatti, il luogo attraverso il quale si manifesta l’identità del  singolo attraverso la sua , seppur paradossale, decisione contro il potere. 

Nell’opera di Sica- Anzalone, la densità filosofica che si respira è ampia e permea il tessuto della rappresentazione tragica. Si manifesta attraverso il logos, che restituisce l’alètheia ai fatti, al divenire. Essi ci fanno riflettere non solo sui tanti aspetti filosofici ed ontologici che caratterizzano la reinterpretazione della tragedia sofoclea, ma anche sugli eterni opposti che assumono significato eterno e ridondante nel panorama classico della nostra cultura. Mi riferisco, nello specifico, agli ossimori: natura - cultura, universale - singolare, sensibile - intellegibile.

La dimensione tragica si percepisce inequivocabilmente attraverso il tragico destino di Antigone: la sua anima si disgrega, si frantuma irreversibilmente creando intrinseca dissoluzione. La sua scelta è dettata dall’istinto, è organica, ontologica, consapevole, determinata e determinante. Contraria allaΤύχη . L’azione è  violenta — «Bìa» — produce «hybris», perché presuppone la morte.

Attraverso il dolore, quello che qui emerge non è la coerenza razionale dell’«ousìa» della quale ci parlava Platone, ma  l’assoluta e intraducibile estraneità di un destino - Ate- rievocando fortemente l’essenza dianoetica del concetto.

Per questo, lo spazio tragico evocato da Antigone è, insieme, pòlis e oikos, Hestìa ed Hermes, Nòmos e Physis .

Per Antigone, realizzare fino in fondo sé stessa e la sua autonoma dimensione etica significa attraversare la soglia della sepoltura, affidandosi al diritto primordiale di Hestìa che è l’altro della «pòlis» . La «Physis», la Natura che è il senso profondo delle cose , l’ «Alètheia» che ne svela la verità assoluta ed incondizionata.  La tragedia, così come è stata reinterpretata, nasce da questo improvviso rovesciamento etico e ontologico. La sua interpretazione raggiunge la più alta forma attraverso una chiave di lettura ermeneutica, sempre nuova, sempre  diversa.

In definitiva, ciò che emerge è una contraddizione in termini: la verità  fallisce e, con essa, v’è  il fallimento del pensiero stesso. La scelta di Antigone presuppone la capacità di ascoltare l’appello della «natura», stando, tuttavia, all’interno della polis. 

Nessuna possibilità di riscatto. Mostra, prima internamente, poi eternamente, il dolore — il «pònos» —  della fanciulla. Edipo e Antigone, infatti, esibiscono, secondo prospettive diverse, ma complementari, il medesimo problema:  il problema interno della filosofia.


Le leggi non scritte — gli «àgrapta nòmima» di Antigone  - evocano la profondità della terra che è madre, che è il divenire di tutte le cose. Conserva nel cuore  l’ Hestìa: la casa e tutto ciò che essa rappresenta, figurativamente e simbolicamente. Scopre, attraverso l’inevitabile catastrofe, la profondità noumenica, l’assolutezza della libertà attraverso la quale emerge il paradosso di una salvezza che distrugge:“Ahi infelice, / né tra gli uomini né tra i defunti / abiterò, non con i vivi, non con i morti!”  - 

Ultimo, ma certamente non meno rilevante aspetto all’interno della magistrale opera dei due scrittori, è costituito dal rilevare una visione nuova, complessa ed emblematica dell’Antigone. Essi mettono in luce le figure della scissione e così la fondazione dell’uomo utilizzando tre riferimenti: il Signore- servo, la coscienza infelice e Antigone.  Gli scrittori individuano un parallelismo tra la Fenomenologia dello spirito di Hegel ed il pensiero economico marxista. Hegel, nel libro IV A, parla di questa dialettica tra servo/signore considerando alcuni profili: il signore dapprima domina il servo, inteso quale strumento con cui operare sulle cose; tuttavia, il signore, si limita a negare le cose e,così facendo, consegue un’autocoscienza immediata, non mediata cioè dal riconoscimento dell’altro e di sé attraverso l’altro; da ultimo, Hegel rileva che il servo, al contrario, nel lavoro acquista consapevolezza di sé, supera lo stadio della coscienza naturale, conquista un orizzonte superiore di oggettività, di libertà. Le due coscienze sono tra loro diverse per essenza: la coscienza del padrone è l’essere-per-sé, la coscienza del servo è l’essere per un altro. Il servo, cioè, fa ciò che dovrebbe fare il padrone e quest’ultimo, inevitabilmente, rende la sua coscienza dipendente all’elaborazione mediata al servo. Il rapporto negativo verso l’oggetto diventa forma permanente dell’oggetto stesso. L’operare  costituisce il puro essere-per-sé della coscienza che ora, lavorando, diventa indipendente .

Il conflitto nasce nel momento in cui il padrone pretende il tutto; il servo resta solo colui il quale ha partecipato. Tutti questi processi evidenziano diversi tipi di alienazione: un’ alienazione prodotta dal progetto, in cui il lavoratore realizza il progetto; alienazione prodotta dal prodotto, in cui  il prodotto realizzato è del padrone; l’alienazione prodotta dalle macchine, in cui il lavoratore è mera forza - lavoro; l’ alienazione prodotta dai robots, ove l’intelligenza artificiale esclude il lavoratore.

La vera libertà non sta nel consumo, ma bensì nella dimensione progettuale. Secondo Hegel, dobbiamo riappropriarci del rapporto materiale con la res in quanto, così facendo, si realizza la riappropriazione della propria libertà. Questo, naturalmente, sottintende l’eliminazione del concetto di proprietà privata marxista, la sopraelevazione del bene comune, lo sviluppo autonomo, il dominio dell’intelligenza umana. Il superamento della alienazione conduce - inevitabilmente -  al superamento della dialettica servo-signore, alias lavoratore-padrone. Ciononostante, la premessa che deve realizzarsi è l’avvento di una razionalità liberatoria che dia ad ogni soggetto la consapevolezza della limitatezza dell’essere-per-sé di fronte alla vita rappresentata dall’essere per l’altro, l’essere per tutti . 

Pertanto, queste tre (meta)figure viaggiano attraverso i canali dello scetticismo e dello stoicismo e rappresentano, in questa nuova chiave di lettura, figure simbolo non solo dell’Antigone, ma della Fenomenologia stessa.

Non a caso, queste figure colgono l’essenza dell’animo umano nella sua più totale complessità ed unicità, ove è possibile cogliere la coscienza infinita nell’altrettanto infinita individualità, nella duplicità morale ed istituzionale, nei rapporti storici e socio- economici che, col tempo, si rigenerano, si modificano, si evolvono .

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Nel mondo di oggi, l’eco delle due donne, la principessa tebana Antigone e sua sorella Ismene, risuona più forte che mai. L’Antigone e l’Ismene di oggi potrebbe essere una qualunque donna del mondo arabo e asiatico. Purtroppo, la loro condizione sociale, politica e giuridica è ancora assai lontana dal nostro Occidente europeo ed anche qui, infatti, il cammino verso l’uguaglianza tra i sessi è ancora in costante evoluzione. In molti Stati, infatti, la donna è considerata una proprietà dell’uomo, non ha gli stessi diritti giuridici, deve attenersi a determinati schemi comportamentali e, nei casi più estremi, non gode di alcuna libertà, anzi è costretta a sottostare a diverse forme di violenza fisica e psicologica. Sono vittime di una società patriarcale intima, profonda, radicata, che avvinghia le sue unghie tarpando le ali della loro libertà. Uomini che, al pari dello stesso Creonte, si ergono a semidei, incarnano un disumano potere di vita e di morte. E qui, come nella tragedia sofoclea, alle donne due sono le strade che vi si presentano: essere ribelli, al pari di Antigone, oppure essere sottomesse, al pari di Ismene. Quest’ultima, tuttavia, non è certo da biasimarsi, nutrendo un forte timore circa le conseguenze scaturite da un eventuale mancanza di ottemperanza all’uomo e alle sue leggi. In tal senso, la tragedia greca, seppur secolare, ci fa riflettere su di un modello globale - e fortemente attuale-  di donna. Tutt’oggi, non sempre la donna che risiede in questi Paesi è libera di decidere, di non rimanere in situazioni deflagranti che, il più delle volte, ne mettono a concreto repentaglio l’incolumità fisica e lo stesso benessere psicologico.                                  

“Io sono fatta per condividere l’amore non l’odio.”-  Prendendo spunto da questa celebre frase di Antigone, tutte le donne  dovrebbero cercare, nella vita di ogni giorno, situazioni e persone che  permettano loro di condividere l’amore e non l’odio, il coraggio di essere sé stesse, di essere libere. Libere di essere al tempo stesso Antigone, che incarna il coraggio, libere di essere Ismene, che incarna la fragilità. Nel nostro Paese, la lotta per l’emancipazione ha subìto un’evoluzione lunga, complessa, difficile e, il più delle volte, dolorosa.

Entrata in vigore il 1° gennaio 1948, la Costituzione italiana considera e valorizza la donna e la figura femminile.  Secondo le disposizioni della nostra Carta costituzionale, la donna assume parità formale e sostanziale nei confronti dell’uomo. E’ dovere della Repubblica agire affinché questa uguaglianza venga - in concreto e nel quotidiano-  attuata effettivamente, efficacemente e realmente -  in ogni campo della vita sociale, economica e politica. Tutto ciò si realizza considerando la donna sia come singolo essere umano, sia nell’ambito di tutte le formazioni sociali dove si svolge la sua personalità (famiglia, scuola, associazioni, strutture pubbliche, etc.). Non a caso, la Costituzione ha voluto sottolineare in modo particolare alcuni diritti riconosciuti alle donne: la protezione della maternità, il diritto della donna lavoratrice, a parità di lavoro, di conseguire le stesse retribuzioni del lavoratore e di avere condizioni di lavoro che le consentano di adempiere la sua funzione all’interno della famiglia; il diritto della donna all’elettorato attivo una volta conseguita la maggiore età, il diritto alle pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza.

Antigone ci insegna il coraggio, l’emancipazione, l’amore assoluto ed incondizionato, ci insegna a lottare per la libertà, per il buono e per il giusto, ci insegna che il diritto senza governo si chiama “anarchia”, ci insegna che  il governo senza diritto si chiama “dispotismo’’.


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