UNA CONDANNA


Nei frastagliati sentieri del mio corpo, nelle vene contorte e silenziose, il sangue scrive, ogni giorno, il tuo nome. Lo scrive come onda che si rifrange sulle pareti di uno scoglio. Se la spuma non lascia alcuna traccia, del suo impatto travolgente, lo lascia il sangue. Lascia la domanda ed insieme la risposta ad ogni mia imprecazione.
Vorrei poter dipingere, con quel gettito purpureo, la mia consistenza attuale. Eppure non so fermare la sua piena. Non ho modo di bloccare il flusso che scorre e scorre senza darmi tregua. Se potessi aprire una piccola sorgente, potrei rivivere, in un solo secondo, tutte le forme delle stagioni passate. Quando ti abbracciavo, ti tenevo stretto. Quando non avvertivo alcun timore. Quando le mie narici non la smettevano di respirare la vita che avevi addosso. Quando, mentre dormivi, potevo passare, lentamente, le mani tra i tuoi riccioli neri. Quando risaliva nei polpastrelli il calore della tua pelle bianca.
Erano quelli i giorni in cui i miei occhi si bagnavano di continuo. Quando i profumi e le sensazioni che sprigionavi si attaccavano alla mia quotidianità, naturalmente. Quando bevevo dal tuo amore come se fossi un’assetata che vuole prendere solo aria e lasciare la consistenza terrena al resto del mondo. Immagini di una vita che mi apparteneva, che era uscita dal mio ventre, che era mia. Vita che mi sorrideva ed aveva la forma della tua bocca.
E quel viaggio che intraprendevo, ogni volta che mi venivi incontro, il mare che si sprigionava al solo contatto, era come un’atmosfera celeste che portava la luna a brillare, così intensamente, da rischiarare ogni notturno desolato. Potevo respirare quello che eri. Il tuo spirito trasmigrava nella mia mente, facendo un passaggio veloce. Ossigeno che non entra nei polmoni, sale direttamente al cervello. Lì, ad attenderlo, la complicata architettura della mia umana consistenza. Architravi che, a stento, riuscivano a reggere il peso del tuo essere libero e vivace.
Poi una condanna. Il muro maestro che crolla senza una ragione. Mi sono ritrovata in ginocchio a ripetere il tuo nome come una cantilena. La tua faccia tra le mani. Quel pallore senza possibilità di smentita. Una madre costretta a sopravvivere al figlio. E tutto quello che era stato, finisce in un pianto disperato. Il domani resta fermo ai ricordi. Il presente si carica di aria faticosa da respirare. Una tenda pesante ha coperto la luce dei tuoi occhi. L’iride, che non rivedrò mai più, è diventata un’istantanea nella mia anima sbiadita dal dolore. Ora, ho solo poche parole da scrivere su questo foglio bianco. Non c’è inchiostro. Sono parole scritte dalle lacrime. Bagnano il foglio di parole che nessuno mai vorrebbe pronunciare. Parole difficili da comprendere. Parole che pronuncia un cuore sconfitto da un destino innaturale. L’inverno ha portato con se la traccia del gelo. Ha cristallizzato gli ultimi giorni che hai vissuto nella mia vita. Eppure era estate inoltrata.
Quest'angoscia così intensa e profonda, pretende che io rimanga qui, a piangerti, senza sapere dove sei. Il mio mondo si sgretola senza che nessuno possa fermare la corruzione del tuo corpo. Io non posso mutare il fatto che tu non ci sei. Tu non puoi mutare il fatto che non sei più qui. L’amore esige tutto. Bene e male. Ragione e follia. Gioia e dolore. E così, questo dolore, esige ogni cosa da me. Se fossimo completamente uniti, anche stavolta, tu sentiresti la profondità con cui, questo coltello, scende ed affonda nella carne. Sentiresti la lama che taglia, maldestramente, ogni lembo dell’anima. La vita che mi ha condannato a vivere senza di te non mi da appello.
Vivere la tua assenza, figlio mio, è amare la morte e pretenderne il ritorno. Sono in attesa. Aspetto che venga, presto, a riportarmi da te.

Dedicata a tutte quelle madri che hanno avuto la condanna di perdere un figlio.

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