UNA MESSA IN MORA


Senza alcun dubbio Lui sa riconoscere le premesse. Riesce a capirlo prima di noi. Invia l’avviso al minimo accenno di crisi. E’ un modo per dirti “stai attento che poi la paghi”. Una sorta di messa in mora genetica dove l’avvocato è il nostro corpo. E non ha bisogno di usare inutili parole o frasi ad effetto ma ti da un tempo limite per fare la cosa giusta. Il suo metodo è semplice: ti rilascia immediatamente una scarica elettrica. La corrente viene veicolata dall’asse surrenale e da qui si infila prima nella pelle e poi fin dentro le ossa. Da li si confonde con il sudore freddo che ne deriva. Quello che percepisce il nostro corpo, la sensazione che nasce da un fatto esterno che apparentemente, secondo le nostre convinzioni o illusioni, non ha niente di critico, è la prima fase di una tempesta. È come una gocciolina solitaria che cade sul terreno arso dal sole. Chi la vede? Chi se ne accorge? Forse nessuno. Eppure la terra, bruciata dalla siccità, la sente come un’inondazione. Quella piccola goccia riesce a dare la percezione di un imminente temporale. Lo stesso avviene nel nostro sistema surrenale. Un antifurto montato su tutti i nostri piani emotivi. Il nostro corpo ci dice di non farci derubare. Derubare della nostra anima, della nostra essenza, della nostra vita. Lo fa per sopravvivenza. Una reazione istintiva al pericolo, in ogni sua forma. Sa che una volta rapinati siamo indifesi e deboli. Senza controllo. Eppure esiste una falla. Un punto di crisi. Il nostro sistema surrenale non fa alcuna differenza tra semplice agitazione, sforzo, tensione, paura, dubbio, rabbia. Quello che però è chiaro è che ci da la possibilità di capire. Ma, per decodificare il messaggio, dobbiamo essere bravi noi. Col primo impulso elettrico ti dice: attento, pericolo. Genera immediatamente un senso di turbamento. Un reticolo di formiche con le zampe chiodate sale dalla schiena e curva nello stomaco. Li muove i succhi gastrici e senti una fiammata. Il calore sale aggrappandosi alle pareti del collo e crea il nodo in gola. Da li una bottiglia di molotov esplode nelle tempie. Le gambe che tremano è la conseguenza immediata oltre allo stordimento di tutti i sensi. Se però non ascoltiamo la sua prima richiesta di attenzione allora decide di adottare una minima resistenza con le forze che riesce a mettere in campo. Senza il nostro aiuto crea una sorta di barriera. Eppure, molto spesso, la resistenza è troppo gracile per sopportare il peso della paura e dopo un po’, ecco il limite di tempo, arriva naturalmente il terzo stadio. L’epilogo, la fine: l’esaurimento. Ma, nonostante tutto, anche in questa fase, diciamo oltremodo difficile, non smette di darti il consiglio giusto. Ti dice e lo ripete senza sosta: vattene, corri, allontanati. Allora è chiaro che siamo noi che non sappiamo riconoscere i segnali di allarme. A volte siamo ciechi, sordi o meglio insensibili ai richiami del corpo. La mente, per delle ragioni che sfuggono alle regole della logica, costruisce una sorta di controreazione alle avvisaglie di crisi. Controreazione che, il più delle volte, rappresenta un vero e proprio suicidio. Pensiamoci bene. Se dessimo ascolto alle reazioni fisiologiche del nostro corpo magari non faremmo la scelta sbagliata. Magari non proseguiremmo per quella strada che sappiamo essere dissestata, piena di buche, di ostacoli. Se guardiamo bene i nostri piedi continuano ad inciampare. Continuiamo a cadere, a farci male, a ferirci, a perdere sangue eppure la nostra mente lo rifiuta. Rifiuta di ammettere l’errore. Di ammettere che si era sbagliata. E continua, incessantemente a proiettare un miraggio. Fa apparire quella strada soleggiata, ricca di vegetazione, apparentemente tranquilla. Ed anche se scappare è la cosa più comprensibile da fare, se l’istinto ti bussa e urla di aprirlo, spesso lasciamo che le cose ci vengano addosso senza opporre resistenza. Così ci allontaniamo dalla realtà e perseguiamo il sogno (che poi sogno non è)  e non ci accorgiamo di quanti lupi siano appostati dietro ai cespugli, pronti a sbranarci.

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