sabato 7 giugno 2025

Cristina Bevilacqua: l'arte dei frammenti emotivi

Dicono che esista un locus, capace di prendere la forma dell’assenza, è qui che il silenzio, nel precedere il fiato, slaccia la pronuncia della parola. Due palmi d’aria compressa, un incavo che si libera e apre nell’attimo sospeso tra un respiro e quello successivo. In questo perimetro indefinito vive e si agita, nel senso buono del termine, una tempesta al contrario, capace di edificare e non distruggere: mi riferisco all’arte di Cristina Bevilacqua. 

Dire performer sarebbe riduttivo, ci troviamo davanti a una “cucitrice ancestrale" capace di custodire, in sé, frammenti di vite che trasforma in poesia sonora attraverso l’espressività, autentica, versatile, e anche profonda, della sua voce. Anche se la città eterna le ha dato i natali, è nell’universalità delle emozioni che ha trovato casa. Si muove con disinvoltura come vocalist dalla formazione classica, attrice capace di abitare personaggi diversi, autrice che plasma “esistenze verbali” come argilla, speaker capace di far vibrare l’aria con le sue modulazioni vocali. Ma è forse nei suoi “post-it” - piccole e luminose perle di creatività condensata - che troviamo la prima matrice del suo dna, del suo talento: un appuntamento atteso, un rifugio per chi cerca autenticità in un mondo spesso veloce e frenetico, decisamente incapace di fermarsi ad ascoltare. 

Li vedi, sembrano libellule, che toccano appena lo specchio del quotidiano, capaci di distillare memorie nel dono di una voce, ora vellutata ora graffiante, che materializza una dimensione quasi tattile. Nel tempo che incalza, nella carne viva, nei ricordi indelebili, in quello che è stato e in quello che verrà, e negli istanti, la sua “espressività vocale” si fa ponte tra ieri e domani, tra memoria e ultima spes, dolore e slancio di rinascita. Con le sue duttilità espressive ogni singola sillaba viene vista, pesata, insieme alle pause, alle inflessioni, per raccontare un mondo parallelo a quello che le parole delineano.

Durante il periodo della quarantena, quando il mondo sembrava sospeso in un limbo di incertezza, Cristina ha trasformato l’isolamento in creatività pura. I suoi post-it sono diventati compagni di viaggio per molti, piccole luci nell’oscurità di giorni “asetticamente” uguali. Riuscendo a impastare con dovizia di senso e sentimento, cura, quasi materna, anche il dialetto romano, lo trasforma, poi, da vernacolo a linguaggio universale. Le cadenze, le espressioni colorite, la musicalità intrinseca di questa parlata diventano strumenti per scavare più a fondo nell’esperienza umana.  

In un’epoca in cui tutto sembra gridare per attirare l’attenzione, Cristina Bevilacqua sceglie spesso la via del sussurro, della parola misurata, del silenzio eloquente. Non ha bisogno di effetti speciali o di artifici: la sua autenticità è il suo superpotere, la sua vulnerabilità è la sua forza, mentre il suo cuore “metodologico” rifiuta copioni rigidi, e si lascia guidare dall'istinto e dall'emozione del momento, permettendo la creazione di connessioni autentiche con chi ascolta. La sua capacità di passare dal drammatico al comico, dalla nostalgia alla gioia, mantenendo sempre un'autenticità di fondo, rappresenta una delle sue caratteristiche più significative. Cristina adotta una poetica della "crepa", della "vulnerabilità" che rilancia, riannoda come forza, che rifiuta effetti speciali e artifici inutili per concentrarsi sull'essenza dell'espressione umana che, come un mantra sciamanico, richiama all’ascolto. 


Qui un esempio dei suoi Post-It




venerdì 6 giugno 2025

AntropoLogos: Il paradosso dell'autenticità - Mino Mastromarino

Il concetto di autenticità, come coincidenza di parole e comportamenti con sé stessi, è uno dei più ambigui e ingannevoli. Trump ha mostrato al presidente sudafricano in visita diplomatica  alla Casa Bianca ( si fa per dire) l’immagine di operatori della Croce Rossa che trasportano sacchi di cadaveri: sarebbe la prova delle persecuzioni ai danni dei bianchi sudafricani. Peccato che la fotografia derivava da un filmato girato in Congo, non in Sudafrica. Trump ha utilizzato un dato falso, però ha detto quello che pensava.

Quindi, è stato autentico. La Corte costituzionale ha statuito che, in caso di procreazione medicalmente assistita, le due madri, la biologica e la intenzionale, integrano la duplice genitorialità. Una delle due madri -tuttavia- non è  autentica. Nel marketing turistico, si usano slogan come <sapori autentici, emozioni autentiche >, magari invocando il ritorno alle radici. Tuttavia, come si fa a riconoscere un ragù autentico, una gelosia autentica?
E poi chi può stabilire cosa sia autentico, quali siano le radici cui riconnettersi ?

Il predicato di autenticità presuppone una  corrispondenza statica tra realtà e verità ovvero – sul piano individuale -  tra il sé e la sua manifestazione esteriore. Invece, essendo  la vita collettiva e l’interiorità dei processi in costante evoluzione, è impossibile decretarne e verificarne l’autenticità, ossia la immutabilità. Il senso del < conosci te stesso > è proprio questo.   

Perciò, quando si adotta l’aggettivo < autentico> o, peggio, lo si abbina al tema dell’identità, si commette uno scempio semantico, sovente antesignano di azioni ed eventi abominevoli.

giovedì 5 giugno 2025

L' IA è in grado di creare un’opera d’arte? L' opinione dell' Architetta Antonella Moscariello

L’interessante esperimento condotto da Emanuela Sica su Plenilunio sottopone l’AI ad una prova affatto banale, chiedendole di creare un’immagine a partire da un testo poetico, per esempio L’infinito di Giacomo Leopardi. La creazione grafica restituita dall’intelligenza artificiale rappresenta un uomo, seduto su un prato, che rivolge lo sguardo verso l’orizzonte, alle sue spalle una siepe ed un albero, il tutto avvolto da una luce che assomiglia, abbastanza, a quella di un tramonto, ma forse di più a quella dell’alba…

Questa immagine, per l’ambientazione, l’atmosfera, la presenza dell’essere umano inespressivo e quasi inanimato, mi ha fatto venire in mente, in prima battuta, lo stile del surrealismo, quello di Renè Magritte, tra gli altri.

Nell’opera ‘La condizione umana I’ (1933), ad esempio, del grande artista Renè Magritte, osserviamo, in estrema sintesi, un paesaggio raffigurato da una finestra con la sovrapposizione di un cavalletto, sul quale il medesimo paesaggio trova continuità.

Lo stesso Magritte, in merito a questo dipinto affermò: “Misi di fronte a una finestra, vista dall'interno d'una stanza, un quadro che rappresentava esattamente la parte di paesaggio nascosta alla vista del quadro. Quindi l'albero rappresentato nel quadro nascondeva alla vista l'albero vero dietro di esso, fuori della stanza. Esso esisteva per lo spettatore, per così dire, simultaneamente nella sua mente, come dentro la stanza nel quadro, e fuori nel paesaggio reale. Ed è così che vediamo il mondo: lo vediamo come al di fuori di noi anche se è solo d'una rappresentazione mentale di esso che facciamo esperienza dentro di noi”.

Nella celeberrima opera intitolata ‘Gli amanti’ (1928), invece, l’artista raffigura un uomo ed una donna nell’atto di un bacio appassionato, ma le loro teste sono avvolte in panni bianchi a coprire completamente i volti.

E’ ancora Magritte che svela il mistero di questo dipinto affermando: “Tutto ciò che vediamo nasconde un'altra cosa, vogliamo sempre vedere ciò che è nascosto da ciò che vediamo. C'è un interesse per ciò che è nascosto e che il visibile non ci mostra. Questo interesse può prendere la forma di una sensazione piuttosto intensa, una sorta di conflitto, si potrebbe dire, tra il visibile che è nascosto e il visibile che è presente”.

Il trauma subito dal giovanissimo Renè a causa del suicidio di sua madre, che nel 1912 si tolse la vita gettandosi nel fiume Sambre, venendo poi rinvenuta con una camicia avvolta sul viso, viene perpetuato dall’artista nelle sue opere: come ne ‘Gli Amanti’, il panno bianco a ricoprire i volti, le identità e la verità. 

Lo spettatore, anche se ignaro della tragedia del suicidio, coglie e percepisce l’inquietudine e la tragicità della rappresentazione, lo stato d’animo dell’artista, che trasfonde inevitabilmente nell’opera la sua visione della vita e del mondo, le emozioni, i sogni, le illusioni e le delusioni.

Le immagini generate dall’AI, al contrario, non trasmettono nulla a noi spettatori, non esprimono pensiero, né emozioni, nè raccontano sogni, direi proprio che non hanno anima!

Se conveniamo, dunque, che l’arte è un linguaggio universale, è ‘l'espressione estetica dell'interiorità e dell'animo umano, rispecchiando le opinioni, i sentimenti e i pensieri dell'artista’ (Treccani)… non ritengo di poter considerare arte le immagini create dall’AI.



mercoledì 4 giugno 2025

BiblioIlde - "La signora meraviglia" di Saba Anglana



Una vicenda che Saba, la protagonista, ripercorre, in un alternarsi tra passato e presente, attraverso la storia della sua famiglia , alla ricerca profonda di un’identità che rappresenta l’elemento cardine che la scrittrice mette in rilievo, oltre al senso di un dolore condiviso senza vergogna. L’Etiopia, la Somalia e l’Italia sono tre luoghi in cui vive la sua famiglia, ma anche difficili, perché non si sentono accettati, ma spesso emarginati e chiamati con epiteti ingiuriosi, come “Ahmar”.

L’immagine che ha un che di spaventoso e terribile, un alter ego nascosto tra i meandri dei ricordi, una sorta di Gorgone dipinta con il proprio sangue quasi come in un rito, è posta davanti al suo letto, come un monito con cui lei intesse un dialogo muto e interiore.

Saba dovrà aiutare sua zia Dighei a preparare i documenti per farle ottenere la cittadinanza, la “signora Meraviglia”, un sogno che sembra impossibile, dopo quarant’anni di permanenza in Italia: un iter lungo e complicato per ricostruire l’identità della zia attingendo a notizie purtroppo talvolta vaghe.

Lei si sente come “una pagina bianca, sono ciò che ricordo tra le memorie reali e quelle derivate dai racconti della famiglia”. Tenero e nostalgico è il ricordo di sua nonna Abebech, una donna fiera e coraggiosa, preda innocente di una violenza, ma che non si arrende mai e, nonostante avesse la febbre altissima e delirasse, manifestava una grande dignità con cui affrontava tutto, lontana dalla sua famiglia e ciò costituiva un fastidio per la coscienza di quell’uomo che alla fine l’aveva abbandonata. Vorrebbe fuggire per trovare una vita migliore, qualcuno l’aveva aiutata a trovare un lavoro: Abebech serviva ai tavoli con la bambina sempre legata a sé e poi aveva incontrato Worku, un uomo che la amerà tanto, aveva molto sofferto, era stato fatto anche prigioniero. Abebech temeva la sua malattia, quel buio che tornava a trovarla spesso e, quando si innamorarono, tutto era nuovo nella solitudine delle loro fragili esistenze e ricominciarono insieme.

Il profondo amore per sua figlia Myriam e gli altri otto figli che in seguito avrà, secondo la profezia di un indovino che aveva incrociato sul suo cammino, rappresenteranno una sorta di rivalsa di fronte ad un destino avverso, perché lei non aveva mai perso la speranza. 

Abebech si teneva dentro tutte le parole, anche quelle più affettuose per non ferire la giovanissima figlia che si sentiva etiope, diversamente dai fratelli. È legata a riti ancestrali e di superstizione e si reca da Wezero Dinkinesh, una maga che entra in contatto con gli spiriti invisibili e che deve liberarla dal suo Wukabi, una sorta di oscuro malessere a tratti inspiegabile e tramandare questo rispetto alla sua discendenza per tenere lontane malattie e maledizioni. La presenza di Wezero era fondamentale, perché “bastava aprire nuovamente la porta dei nodi e fuggire fuori a respirare” e cominciavano a cantare come se volassero e si creava un’atmosfera particolare.

Abebech aveva insegnato a sua figlia Nina come inghiottire anche il dolore senza lamentarsi. Nina era stata la prima figlia concepita con il suo Worku, la prima fioritura del suo grembo a renderla felice, se ne stava in disparte, poi sceglieva con cura le parole, sapeva scrivere in italiano che rappresentava la lingua della passione e “maneggiare l’invisibile che sta dietro gli oggetti e le parole”.

Saba avvertiva una strana malinconia nell’aria e una nostalgia mentre entrava in contatto con il passato della sua famiglia e ricordava con tenerezza quando sua nonna Abebech aveva presagito la sua fine e si era ritirata come un gatto in attesa del suo destino.


Nel grembo del destino. Edipo e la genesi dell’umano nel racconto di Anzalone

In attesa di scoprire la seconda edizione di "EDIPO, per una genealogia dell'umano" - di Luigi Anzalone, Pensa Editore - che verrà presentata al Circolo della Stampa di Avellino il 10 Giugno, proponiamo una riflessione ed analisi della prima edizione. 

 

Proviamo ad immaginare questa scena: sta scendendo la notte come una fitta ragnatela di pece che inizia ad avvolgere ogni cosa. Solitaria nel cielo, la luna mostra il suo volto nella sua interezza e cerca, trovandolo, uno spazio per carezzare di luce e rischiarare un luogo decisamente insolito e particolare come una torcia che illumina un angolo di mondo. Ecco allora visibile un ampio tavolaccio di pietra e sopra di esso tre figure.
L’uno di fianco all’altro, sembrano dormienti. Proviamo a capire di cosa si tratti. C’è un bambino appena nato. Poi un uomo, nel pieno della sua virgulta età. Infine un vecchio con una benda a coprire gli occhi ed un bastone. Di fronte a questi corpi, con le braccia spalancate, quasi a volerli contenere TUTTI idealmente in un abbraccio, una DONNA, di spalle.
Non ne vediamo il volto ma solo i capelli che si muovono vorticosamente nel vento. A mio modesto parere ben potrebbe essere questa notte quella che Hegel chiamava “notte della conservazione”, da cui prende vita, corpo, dimensione, quella genesi e genealogia insieme dell’essere umano e del mito di Edipo raccontata e analizzata da Anzalone. Chi sono i tre personaggi sul tavolo e chi è quella donna? Proviamo a rispondere per gradi. Accanto a Freud e immediatamente dopo di esso, solo per ragioni temporali, si innesta questo libro che, in una forma corposa ed analitica (qualcuno lo chiamerebbe giustamente saggio ma io dico che è un unicum ossia un saggio FILOSOFICO ed un libro di NARRATIVA insieme), che si impreziosisce della straordinaria quanto stringente e radicata introduzione del prof. Giuseppe Cantillo che ben ci introduce in quella notte della conservazione da cui ho tratto il mio incipit. Con questo libro, con Edipo, Anzalone compie, dal punto di vista dell’indagine filosofica e speculativa e altresì da quello narrativo – letterario, un “triplo salto mortale carpiato con avvitamento”.
Qualcosa di davvero difficile e sorprendente (ma non troppo per chi ha la fortuna di conoscerlo) che gli riesce con una semplicità, a tratti, decisamente sconvolgente. Nella sua indagine, che io considero anatomica quasi che si trovassimo di fronte ad una anatomia del MITO, tanto va nelle viscere la sua riflessione investigativa sulla nascita dell’uomo ed ecco il bambino, EDIPO APPENA NATO. Poi nel dileguarsi nella notte del Sé, in cui tutto può scomparire oppure essere conservato, qualsiasi cosa diventa un dilemma ed ecco l’uomo, EDIPO E LA SFINGE. In questa notte indecifrabilmente spaventosa ma meravigliosa che fissa l’uomo negli occhi, scrutandone l’inconscio, ecco venir fuori quell’alito di passato, quella radice profonda, da cui ognuno di noi proviene, ecco il vecchio, EDIPO è L’ANIMALE CHE CAMMINA NEL TEMPO.
Dal “già vissuto” dell’incosciente notte si materializza POI LA COSCIENZA del giorno nel quale possiamo immaginare sia il mito (Edipo) che L’UOMO INSIEME a camminare, perennemente, sul filo di un rasoio, sulle altezze pericolose della coscienza e dell’incoscienza. Eppure quegli occhi, che Edipo si caverà per la dolorosa scoperta dell’incesto, servono, prima ancora che a raccontare la tragedia, a costruire una questione ontologica: il discorso sull’essere uomo, uno e pluralità.
ANZALONE narra la storia di EDIPO partendo dalla GENESI ossia dalla nascita e inserisce molteplici risvolti FILOSOFICI COLLEGATI in un percorso verso “l’evento metafisico originario”. Quell’evento che generò il mito di Edipo, partorito, se così si può dire, con sangue e dolore, dalla lotta acerrima tra patriarcato e matriarcato. Ecco, QUINDI, la donna che si profila di spalle nella notte: GIOCASTA. Di questa visione, cruda e carnale insieme, l’autore prima si veste dei suoi poderosi studi, da quelli sul matriarcato di Bachofen a quelli di Freud, nell’accezione psicoanalitica di “Complesso”.
Ne crea un abito elegante, rifinito con cura, preciso nei dettagli e nei particolari tuttavia alquanto stretto, per la complessità della sua materia cerebrale. Per tale ragione, ad un certo punto della sua analisi clinica, quasi si trattasse di un’autopsia per conoscere le reali cause di un evento traumatico quale la morte, se lo strappa di dosso, lo lascia cadere sul pavimento, dimostrando, 1 in questo modo, l’autenticità e la modernità del suo argomentare. Anzalone comprende che, per parlare di Edipo necessarium est nascere o dovremmo dire: rinascere. Uscire dal magma del ventre materno, respirare il primo afflato d’ossigeno, piangere disperatamente per il distacco, essere o voler essere un bambino che ha appena visto la luce del giorno, le cui iridi sono ancora vergini rispetto alla infelice tragedia del mondo che lo circonda. Ebbene la storia narra che Laio, padre di Edipo e re di Tebe, aveva saputo dall’oracolo che, se avesse avuto un figlio, questi un giorno lo avrebbe ucciso, avrebbe sposato la madre e avrebbe provocato la rovina della sua casa. Generato Edipo e per evitare l’avverarsi della profezia, ordinò a un servo di abbandonare su un monte il neonato. Il servo eseguì l’ordine, ma poco dopo un viandante che passava di là per caso udì piangere il bambino e, mosso a pietà, lo raccolse e lo portò al suo signore, il re di Corinto Polibo che, non avendo figli ed essendo desideroso di averne uno, lo allevò come proprio. Divenuto adulto, Edipo, ebbe una disputa con un tale che, per offenderlo, gli disse che lui non era il vero figlio di Polibo, ma solo un trovatello salvato dalla morte. Allora, turbato da quella rivelazione, il giovane andò a Delfi per chiedere al dio Apollo chi fossero i suoi veri genitori. L’oracolo di Delfi non gli disse nulla a questo proposito, ma gli predisse che un giorno avrebbe ucciso suo padre e sposato la stessa madre. Volendo sfuggire a quel destino che lo terrorizzava, Edipo decise di non tornare mai più a Corinto. Un giorno però, mentre si trovava a un bivio incrociò la carrozza su cui viaggiava Laio, il cui cocchiere prese così male la curva, che una ruota passò sopra a un piede di Edipo. Essendone nato un grave litigio, il giovane per difendersi da Laio che stava per ucciderlo, trafisse proprio quel padre che non aveva mai conosciuto. Tempo dopo, mentre continuava il suo viaggio, Edipo incontrò la Sfinge e risolse il suo enigma: «Qual è l’animale che ha voce, che il mattino va con quattro piedi, a mezzogiorno con due e la sera con tre?» Edipo pensò attentamente e rispose: «Quell’animale è l’uomo, che nell’infanzia si trascina carponi, nell’età adulta sta in piedi e nella vecchiaia procede appoggiandosi a un bastone». Spezzato il sortilegio, la Sfinge, rabbiosa, si gettò dalla rupe e morì. Avendo liberato Tebe da quel mostro sanguinario, Edipo fu accolto dalla città come un trionfatore tanto da riceverne in moglie la regina Giocasta, sua stessa madre. E così sebbene Laio ed Edipo avessero cercato entrambi di sfuggire alla terribile profezia, tutto si era avverato inesorabilmente.
Comprendiamo quindi perché, solo rivestito di pelle, ancora calda e umida per il parto, con le autenticità della materia ancora non plasmata, ma pronta a formarsi nel percorso evolutivo, si diventa uomini, con tutto quello che ne consegue. E’ questo un Edipo uguale e diverso da tutti gli altri, tesi e antitesi di domande indefinite, rivestito della sua pelle originale e “solo sua”, quella pelle che gli dà modo di creare, dal mito, conosciuto e riconoscibile, un essere concretamente attuale, tratteggiato con delicata autonomia. Un racconto indagatore, di critica e assoluzione, senza tuttavia condanna, in una soggettiva e per questo direi quasi riformata versione. Con estrema sapienza, con inziale cautela eppur senza paura, si tuffa nell’oceano prima calmo, poi burrascoso, delle teorie, conosciute e conoscibili, con quell’acrobazia così complicata e difficile di cui ho detto prima. Una volta completamente sommerso, quando tocca la profondità della conoscenza, riesce a riemergere portando con se un’essenziale e particolare (unica) materia plastica che gli servirà a costruire e celebrare quella saga mitologica caratterizzata principalmente, ma non esclusivamente, dal germe della violenza. A differenza di Freud che, nell’Interpretazione dei sogni, espone la teoria del “complesso” edipico, muovendo dall’Edipo Re di Sofocle, certificandone l’antica genealogia e vitalità carnale del complesso, quindi analizzando il rapporto con la madre e amante con Giocasta, Anzalone cerca di estrapolarlo dalla carnalità incestuosa tentando (riuscendoci, come diremo avanti) una complessa operazione di spostamento dell’attenzione o dell’indagine dal factum principis ad un fatto collaterale ma per ragioni di analisi filosofica decisamente fondamentale per disvelare tutto il resto. È sulla sfida, quella di Edipo con la Sfinge, che si incentra un’insolita ma più attrattiva definizione del mito. Come una statua che si sgretola dalle fondamenta, che supera la staticità in cui era stata relegata, nella lettura di questo testo riusciamo quasi a vedere la caduta del materiale che teneva bloccato il mito, immobile, fermo, nella posizione di attesa perenne. Anzalone avanza l’ipotesi, oppure il sospetto, che “il senso dell’enigma di Edipo come enigma dell’uomo, della condizione umana nel mondo, possa non essere tale da sciogliersi”.

La sfinge, portatrice dell’enigma che causa la morte di chi non lo risolve, simbolo della dissolutezza e del dominio perverso: essa fu mandata da Era contro la città di Tebe per punire il re Laio ritenuto colpevole d’omosessualità. Sconfitta solo dall’intelletto, dalla sagacia, in contrapposizione con l’istupidimento ottuso nella sua posizione statica 2 aderisce indissolubilmente alla roccia sulla quale poggia. E’ dotata di ali ma non vola e non le servono neanche per salvarsi dall’abisso nel quale si getta per suicidarsi. Della Sphynge greca, nei tratti femminilizzata, simbolo della vanità tirannica e distruttiva, Jung ne ha sottolineato gli aspetti legati all’archetipo della madre nella sua valenza negativa, aspetti con cui ciascun soggetto umano, per divenire tale, deve potersi confrontare. Ebbene, i Tebani ed Edipo sono uomini nel senso pieno del termine? Se gli uni perdono la sfida e sono divorati dalla Sfinge mentre l’altro lo risolve, costringendo la Sfinge al volo mortale, allora è chiaro che i primi (i Tebani) siano quasi l’emblema dell’immagine capovolta della Sfinge. Insomma sono più animali che uomini (la Sfinge era per metà animale e per metà umana). Soltanto Edipo sa rispondere e svelare l’enigma e la cosa gli riesce nel modo peggiore ed ambiguamente beffardo. Le sue possibilità esistenziali si convertono nel loro opposto, tanto è che le nozze con Giocasta sveleranno la loro atroce fisionomia solo quando non si potrà più porre rimedio al male tremendo che hanno cagionato.
Si potrebbe senz’altro dire, quindi, che la risoluzione dell’enigma, la vittoria di Edipo sulla Sfinge risulta, infine solo apparente perché se è vero che chi risolve non vive e viene divorato e chi risolve vive e viene proclamato Sapiente, Re di Tebe, ecco che la stessa vittoria lo conduce all’estrema vergogna, all’accecamento, alla perdita del trono. Per tale ragione, dal momento in cui Edipo risolve l’enigma, ecco il germe della disperazione e della morte che si innesta nella sua vita. Apparentemente vittorioso porta in se la genesi di un nuovo dolore, questo comprensibile e vissuto sin nella carne, con la razionalità di un uomo che non è più un bambino abbandonato ma un Re. Il trionfo di Edipo, quindi, prelude alla sua rovina e la nascita dell’uomo, in quanto uomo e la sua morte in quanto animale non accade mai definitivamente. Anzi l’autore dice che accade soltanto in parte e altresì riconducendo la soluzione dell’enigma alla morte dell’animale per metà donna, si allude non solo alla fuoriuscita della specie umana dall’ordine di Madre Natura ma anche e soprattutto all’eventus dell’uomo che “si fa uomo” mediante il camminare eretto, il linguaggio, il pensiero simbolico e trova la sua primordiale interazione nei primi anni di ogni essere umano dopo che fuoriesce dal grembo della madre. Dalla nascita ci si lega, per converso, in maniera stringente, alla morte, come una necessità assoluta per la definizione autentica della prima e, lo diceva semplicisticamente anche una canzone, “si muore un po’ per poter vivere”. Eppure “la morte - diceva Heidegger - è lo scrigno del nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente assente e che, tuttavia è, addirittura si dispiega con il segreto dell’essere stesso. La morte alberga in sé ciò che è essenziale dell’essere.” L’Edipo di Anzalone esprime, nella sua drammatica sconvolgente esistenzialità, l’ambiguità, la doppiezza, l’enigmaticità ma anche l’attualità. Edipo è il chiaroveggente, il decifratore di enigmi, ma è lui stesso l’enigma che, nel suo accecamento, è incapace di decifrare. Non è quindi uno bensì un doppio come la stessa parola dell’oracolo. E’ un re salvatore ed un mostro di impurità che concentra su di se tutto il male, tutto il sacrilegio del mondo e che bisogna cacciare come un pharmakòs, un capro espiatorio perché la città, ritornata pura, sia salva. Edipo è un uomo che si ribella al destino non per diventare eroe ma per non abdicare al suo essere uomo ossia padrone autentico di se stesso e delle sue azioni e quindi anche della sua sorte per non essere un oggetto in balia del destino o vittima di questo.
Un destino che lo avvolge e lo travolge, che lo edifica nella gloria e lo distrugge con le sue stesse mani. Edipo scioglierà l’enigma della Sfinge ma mai scioglierà l’enigma di se stesso. L’enigma delle tre età, l’evidente allusione alla filogenesi dell’uomo, che la Sfinge propone ad Edipo, si riferisce non solo alla portamento fisico, al modo di camminare dell’umanità ma alla sua sostanza psicologica, alla mentalità, al carattere esistenziale ed esistentivo dell’essere umano. E’ “nell’evento metafisico originario” che si raccoglie e si condensa la vita dell’uomo, molteplice, ricca, complicata, diversificata e diversificabile rispetto a tutte le altre vite umane e soprattutto animali. L’uomo muore come animale perché è coscienza, più precisamente diviene coscienza. Coscienza che fruttifica nel pensare ed essere pensiero. L’uomo quindi si scopre uomo, coscienza, tempo, proprio nel fatale cammino sulla strada della morte, impegnato in una sfida costante (e impari) con questa. Nella risoluzione dell’enigma, nel movimento dell’uomo nel tempo, nei tre stadi della vita, infanzia, maturità, vecchiaia, la Sfinge lacera le sue carni nell’abisso e nella morte dell’animale subentrare la nascita (ma anche la rinascita) l’uomo, il suo essere diverso. 

Emanuela Sica


Appuntamento al Circolo della Stampa di Avellino



martedì 3 giugno 2025

Sergio Carlacchiani - lo sciamano dell'arte totale

Credo sia decisamente complicato, se non impossibile, tracciare l'autenticità di un profilo artistico, soprattutto se non lo si guarda con tutti i sensi in ascolto e visione, capaci di lasciarsi prendere e attraversarsi, anche nelle più lievi contraddizioni e sfaccettature dell'umano.

Ci sono artisti che interpretano un’opera altri che le vivono diventando opera essi stessi. Una metempsicosi di materia fluida, voce che vibra, carne che si fa verso. Sergio Carlacchiani non lo si può spiegare a parole, lo si deve guardare o forse evocare mentre lo si osserva o "sente" nel silenzio dei momenti acuti d' attenzione, come si fa con quei torrenti notturni o le parole dei vecchi sciamani quando dialogano con gli spiriti della natura. 

Nato a Macerata nel 1959, residente a Civitanova Marche, artista nomade è passato per le mille stanze della "creazione". Sergio Pitti, Karl Esse, Sergio e Basta!, il Clamorosissimo, Lo Sciamano, Il Folle: ognuno di questi nomi è un frammento "spirituale", un personaggio, un trucco da teatro o forse l'elaborazione più mistica, e ribelle insieme, della vita. In lui convivono personalità ed esseri realistici figli autoctoni delle sue ombre, ma anche slanci di luce che, di volta in volta, prendono una forma definita: un doppiatore e un profeta, un attore e un eremita, un pittore e un rabdomante del silenzio. Le sue 40.000 letture a voce alta, gocce d’ambra su una voce baritonale, rappresentano la geografia di un atlante sonoro fatta di poesia - da Gilgamesh a Merini, passando per Whitman, Hikmet, Hölderlin.
Carlacchiani non usa per prima gli occhi, bensì l’udito. Non legge: sente. E se riusciamo a sentire quello che evoca è solo perché lui l’ha percepito, sentito per primo.

La sua è una voce sismica: sguscia tra accenti, implode nei sospiri, si arrampica sugli acuti e poi piomba in quel fondo dove la parola si frantuma e l’anima. Come nel celebre recital leopardiano del 2010, al Colle dell’Infinito, accanto a Lorenzo Di Bella: “Chopin & Leopardi, il Poeta del pianoforte e il Poeta dei poeti”. Ha scritto, dipinto, inciso, anche l’amore, come quello sussurrato e sottolineato con Alda Merini, nella cartella firmata a quattro mani, sei disegni e tre poesie inedite — 300 copie, tutte con dentro qualcosa di irripetibile: quello che gli umani chiamano “fremito”. Possiede, nel dna, un talento, rarissimo, riversare in ogni lettura un atto d’amore, da qui la sintesi espressiva del teatro. Non a caso ha collaborato con Margherita Hack, con Fabrizio Bosso, con Eugenio Finardi, con Joyce Lussu. 
Sarebbe lungo citare tutte le sue pubblicazioni, ne elenchiamo alcune: nel 1980, Poesie - Collana Poeti D’oggi, Gabrieli Editore, Roma. Nel 1983 - Quadri di Parole, e nel 1987, Quadri di parole 2 - recentemente ha pubblicato tre voluminosi libri di poesia: Indiscrezioni dal Fortilizio, giugno 2020; Testamento, giugno 2022 e Dadaadalda, gennaio 2024.
Più volte nel genetliaco di Giacomo Leopardi è stato chiamato sul Colle dell'infinito di Recanati ad essere la voce recitante, occasione speciale data soltanto ad attori prestigiosissimi! La famiglia Leopardi e il Presidente del Comitato Scientifico l'allora Professor Lucio Felici, visto il grande favore del pubblico ottenuto dal Carlacchiani vollero editare un cd di Canti Leopardiani proprio con la voce dell'attore marchigiano.

In questa occasione, per darvi un piccolo assaggio della sua “creatività performante” vi proponiamo il reading tenuto al Festival della Poesia di Grosseto. Ma forse sarebbe più opportuno parlare di un tempo sospeso dove Carlacchiani diventa specchio e profezia poetica. Lasciate che la sua voce vi trovi dove siete più fragili. Poi restate in quel punto, nel semitono di un raggio che poi si allarga fin dove la poesia vi scova, vi prende per le corde del cuore, e vi eleva.

Clicca qui per guardare


*Foto credit di Gianfranco Mancini

Per approfondire ecco alcuni link