Lo sai, questa doveva essere una preghiera più che una richiesta.
In fondo non chiedevo poi tanto. Più che una voglia era una necessità.
Ma va bene lo stesso. Dove sono arrivato ora, non ha più importanza. Signore, mi prendo il destino che era scritto per me. Quello che spesso viene scritto per i puri di spirito. Volevo soltanto poter vivere senza di lei. Eppure non ho avuto modo di arginare la sua presenza. Sin da quando ho preso questa toga, ha fatto parte del mio mondo, del mio essere uomo. Era come la carne che mi portavo sulle ossa. Chi l’ha conosciuta sa di cosa parlo.
Per qualcuno è una stilettata intensa e profonda.
Per altri é un guizzo di corrente che prende all’improvviso. Per altri una zaffata di acido corrosivo. Per me, invece, é stata una compagna di vita. Se devo essere sincero, forse la più fedele. Non ha mai considerato l’abbandono, era una megera. Mi scopriva le carte della vita e puntava il dito sempre sulla stessa figura. Se ritiravo lo sguardo altrove, per non fissare quel teschio in chiaroscuro, lei si arrabbiava. Urlava, mi inseguiva. Veniva a prendermi ovunque mi trovassi.
Saliva le scale con passo morbido ma pesante. Entrava nella stanza, faceva stridere, lentamente, la porta, come se avesse voluto agguantarmi di soppiatto. Sentivo il suo respiro sul collo. Sentivo il calore di quel fiato corto e quasi singhiozzante, come quello di un bambino atterrito da un incubo notturno. Mi diceva, quasi implorandomi, di desistere, di smetterla, di chiudere un occhio, di limitarmi, di non indagare, non confiscare.
Voleva che non facessi, sino in fondo, il mio lavoro. Quella era la sua traccia genetica. Quello era il modo che aveva per pretendere rispetto, attenzione. Nel suo spartito, il mio ruolo non era autonomo, doveva essere sottomesso al suo volere. Ma era una guerra che aveva perso in partenza.
Non poteva arginare la sete di giustizia che avevo nella gola. Ero il suo ostaggio non collaborativo. Se riusciva a legarmi nei sogni, mi slegavo alle prime luci dell’alba. Quando la realtà plasmava il mio lavoro tra le mura del Tribunale. Potevo e dovevo essere libero. Libero di agire e di reagire alla prepotenza del terrore, alla mafia. Ogni giorno l'ho avuta al mio fianco e quasi mi ero anestetizzato alla sua presenza.
Così anche quel 21 settembre 1990. Prima di uscire di casa, ho dato uno sguardo alla finestra.
Quella era la mia consapevole ossessione da un po’ di tempo. Ho preso macchina, mi sono seduto al volante. Ho adagiato i codici sul sedile posteriore, lasciando libero quello accanto al mio.
Lei era solita sedersi lì. Lo faceva senza che io la invitassi a salire, senza dare nell'occhio. Nessuno la vedeva. Non amava mostrarsi alla gente. Ed anche se io non le davo la benché minima confidenza, la PAURA era lì con me, nonostante tutto. Una figura ingombrante ma evanescente.
Invasiva ma inconsistente. Dominava il mondo e cercava di dominare anche me, ma senza riuscirci. Ho capito sin da subito che, quello, sarebbe stato un viaggio diverso da tutti gli altri viaggi verso il Tribunale. Era stranamente agitata. Si guardava alle spalle ad ogni curva. La sentivo mugugnare senza capire cosa dicesse. Ogni tanto buttava lo sguardo nello specchietto retrovisore. Poi ad un tratto ha messo la sua mano sul cambio: “Accellera, ti prego, non ti fermare”, mi ha urlato, quasi supplicandomi. Non ho avuto neanche il tempo di capire.
Una scarica di colpi è entrata nella carrozzeria.
I vetri in frantumi. Riesco ad uscire dalla macchina ancora vivo. Lei si è aggrappata al mio fiato, come sospesa nel vuoto. Corro verso la campagna senza vedere dove vado. Potrebbe essere la mia via di fuga. Ma chi mi insegue vuole braccare ed abbattere l’animale. Lei è pesante, mi taglia le forze nelle gambe, non riesco a fare molta strada.
Il martirio ha avuto inizio e procede come programmato. Mi raggiungono e mi sparano al volto. Che strana quella sensazione.
Prima che i colpi entrassero nella carne, lei si era staccata da me. Ero libero, avevo solo la preghiera a sostenermi il cuore. Cado e mi rialzo nella navata di una Chiesa. Una folla mi saluta mentre esco in una bara. Ero così giovane, qualcuno mi chiamava ragazzino, ma lo diceva in tono sprezzante.
Ma il mio pensiero va alla paura.
Ci insegue durante la vita e non sa sopravvivere alla morte, come io sono sopravvissuto alla mia, grazie alla fede in Dio, all’amore per la Giustizia.
Eppure non a tutti è concesso questo privilegio.
In memoria del Giudice Rosario Livatino