martedì 29 luglio 2025

The Moonlight's Verses - Mariateresa Bari

A cura di Giuseppina Manganelli


ARCHAEOLOGY OF A LOOK

I nourish myself with the verb delve

that drives out the soul’s tweets

buried in the land of absence.

Furious hands seek

the shards of a presence.

Strayed, the heart

heads toward the world.

And it begs for a hunk of light.


ARCHEOLOGIA DI UNO SGUARDO

 Mi nutro del verbo scavare

che snida i cinguettii dell'anima

sepolti nella terra dell'assenza.

Furiose mani cercano

i cocci di una presenza.

Randagio il cuore

s'incammina per il mondo.

E mendica un tozzo di luce.


lunedì 28 luglio 2025

Il loro grido è la nostra voce: Monopoli si veste di poesia per Gaza


Si è svolta venerdì 18 luglio nel chiostro del Palazzo San Martino di Monopoli “Il loro grido è la nostra voce”, una serata culturale dedicata a Gaza contrassegnata da testimonianze indelebili, arte come forma di resistenza, riflessioni profonde sullo sterminio in atto in Palestina, ma anche sul nostro diritto di dissenso civile da difendere con le unghie e coi denti. Ampia e sentita la partecipazione del pubblico, coinvolto magistralmente dalle associazioni e realtà del territorio che hanno attivamente sostenuto la serata, coordinate da Luca Crastolla e Lucia Cupertino, artefici di questa iniziativa e moderatori della serata: Alma Terra (Mola), Amici di San Salvatore (Monopoli), Anpi (Monopoli), Brigata Poeti Rivoluzionari (Bari), Caffè letterario Monopoli (Monopoli), Con.Fusione (Polignano), Donne in Nero (Monopoli), Emergency (Valle d’Itria), Libreria Minopolis (Monopoli), Progetto Donna (Monopoli) Versipelle (Puglia).

La grande protagonista è stata la poesia palestinese, in particolare quella scritta dai dieci poeti racchiusi nel libro “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza”, edito da Fazi editore (2025). Al giorno d’oggi in Occidente (in Italia non di meno) la poesia è relegata ad uno spazio di nicchia, con poco seguito e depauperata del suo valore trasformativo insito invece nella parola come creatrice di mondi (words create worlds, si dice in inglese), capace di testimoniare, denunciare, svelare, smascherare, parlare ai cuori. Non come mero esercizio di stile. Proprio questo è quello che hanno fatto cogliere Leonardo Tosti e Antonio Bocchinfuso, due dei tre curatori dell’antologia presenti a Monopoli, così come anche la testimonianza del traduttore dall’arabo delle poesie, il palestinese Nabil Bey Salameh (voce dei Radiodervish), in dialogo con i poeti Luca Crastolla e Lucia Cupertino.

I giornalisti ma anche i poeti vengono uccisi a Gaza per silenziare verità scomode. Con una poesia non cambieremo il mondo, ma potremo forse renderlo un luogo in cui metterci in ascolto della realtà sociale e dell’individuo di un tempo storico, questo è stato l’invito dei brillanti curatori. La poesia a Gaza ha doppiamente senso di esistere e fiorire tra le bombe e i droni che trasformano quella realtà in un paesaggio sonoro dove tutti i suoni della vita, della città e della natura tacciono e dominano il ronzio permanente, le deflagrazioni, il pianto, le urla. Come sostiene Marwan Malhoul, poeta presente nel libro: “Per scrivere una poesia non politica, / devo ascoltare gli uccelli, / e per sentire gli uccelli / bisogna far tacere gli aerei da caccia”.

Estremamente prezioso l’impegno concreto di questa serata culturale, grazie al ricavato di 5 euro per ogni copia del libro “Il loro grido è la mia voce” devoluto ad Emergency, oltre ad una serie di donazioni raccolte grazie ad una serie di banchetti (libri, gastronomia palestinese, artigianato) adibiti nel chiostro del Palazzo San Martino con lo stesso scopo. Nel corso della serata, Carmen Cofano, referente Emergency Valle d’Itria ha spiegato l’impatto di queste donazioni che servono per sostenere una struttura medica presente a Gaza, gestita da Emergency e che riesce ad offrire cure di base in un contesto di malnutrizione, epidemie ed altre malattie che attanagliano la popolazione. 

Nel corso della serata, oltre all’intenso dialogo con i curatori e il traduttore, si sono avvicendati vari lettori e lettrici (uno per ogni realtà sostenitrice della serata) per leggere le biografie e le poesie dei poeti antologizzati. Vogliamo ricordarli: Adriana L’Abbate, Silvana Pasanisi, Sergio Lenoci, Pippo Marzulli, Cosimo Marasciulo, Anna Longano, Gabriele Comes, Lucia Diomede, Caterina Angelini, Bruna De Marinis, Irene Petrosillo.

Cinque quadri del poeta monopolitano Antonio Palmisani hanno arricchito lo spazio scenico del chiostro, opere pittoriche di grande pregio dedicate al dolore della Striscia di Gaza, alle tinte fosche della guerra ma anche, in un balzo di speranza, alla vita che rinasce come auspicio per il futuro della Palestina e dei popoli oppressi nel Mondo. Splendidi anche gli intermezzi musicali della cantante Ilaria Francioso, accompagnata alla chitarra da Dario Ble e Salvatore Santoro. Quasi in chiusura sono entrate in scena con un minuto di silenzio le Donne in nero, che ogni giovedì manifestano il loro sostegno contro il genocidio palestinese a Monopoli. La serata del 18 luglio si è configurata come un mosaico composito e ricco, nato dalla proficua alleanza di realtà del nostro territorio che vogliono continuare a sottolineare in modo congiunto l’urgenza di agire per Gaza e per la nostra libertà d’espressione.











Foto: Giuseppe Mirizzi


domenica 27 luglio 2025

Anatomia del potere: il corpo violato della Storia a Gaza

A cura di Anna Rita Merico

Ora dopo ora, giorno dopo giorno, le notizie che riceviamo da Gaza lasciano sempre più spazio a considerazioni che trascendono, per taluni aspetti, quanto sta accadendo ed invadono il campo delle riflessioni su come-dove stia andando questa diversa declinazione (già avvenuta) del potere. 

Mi interroga una precisa dimensione umana che sta avvenendo dinanzi al come viene letto il corpo della Storia. Un azzardo di immagini compone una visione intorno ad un elemento: la centralità del frammento, la centralità della visione accennata e scheggiata, la centralità -ancora- della perdita dell’intero.

In un’azione violenta accade che non si veda il corpo dell’altra/o nella sua interezza. In un’azione violenta si altera completamente quella vista capace di considerare l’intero. L’intero che viene perso all’interno del campo visivo è quella dimensione nella quale convivono aspetti fisici, esistenziali, emotivi, progettuali. 

Chi agisce l’atto violento vede, nel corpo dell’altra/o, parti staccate sulle quali agire per poter giungere ad una risposta distruttiva capace di soddisfare il proprio bisogno di annullamento e fagocitazione del corpo altrui. 

Mi lascia riflessione questa modalità che, per taluni, sta accadendo: leggere la Storia separandola in schegge, frammenti angolari, una lettura che si auto-priva dell’uso di connettivi e sequenzialità.

Leggere, dunque, il corpo della Storia come si “legge” un corpo da violentare. Prima di giungere alla lettura del dato, accade lo spezzettamento delle parti, la creazione di una “materia spezzettata” che, pur avendo avuto origine da un intero, nega quello stesso intero.

E’ riduzione dello sguardo umano a sguardo incapace di scorgere orizzonte. 

Spezzare il tutto e vedere la singola parte impedendo ad essa ogni possibile connessione. E’ un’operazione che ha, come esito aggiunto, la perdita di significato della parola così come l’abbiamo conosciuta. E’ operazione che svuota e disarticola parola ed etica insieme. E’ operazione che ci obbliga a riparare in territori all’interno dei quali si mostra, ossessivamente, la spiegazione della spiegazione della spiegazione di ciò che era ovvio, di ciò che pareva acquisito e scontato. 

La parola retrocede in spazi separati e mi richiama quanto accadeva alla figura di Cassandra: voce scissa obbligata a rincorrere se stessa nel vuoto in cui chi deteneva potere rispetto a lei, Apollo, l’aveva immersa in assenza di soggettività riconosciuta. 

Cosa ci sta lasciando e cosa sta producendo (tra l’altro) questa esperienza estrema relativa alla cancellazione del popolo palestinese? 

Sicuramente un’emergenza che riguarda la registrazione della diffusione di un’alterazione dell’umano sguardo come dato voluto, creato da un potere che ha necessità di autogenerarsi. L’autogenerazione si mostra come relativa ad inedite clonazioni funzionali per una narrazione fasulla della Storia e delle sue contemporanee cronologie.

Come stanno accadendo e di cosa si stanno nutrendo gli attuali slittamenti di realtà?

“…Il sionismo -il movimento mirante a riportare gli ebrei in Erez Yisrael e a conferire la loro sovranità sul paese- affondava le radici in antichi aneliti millenaristici della tradizione religiosa ebraica, nonché nella fioritura di ideologie nazionaliste tipica dell’Europa dell’Ottocento… Il ritorno a Sion era inteso come un atto sociale e politico che avrebbe messo fine all’inattuale condizione di minoranza oppressa degli ebrei della Diaspora… Nel sionismo l’ideologia precedette ampiamente la realtà…”

Benny Morris, Vittime Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, traduzione di Stefano Galli, B.U.R. Storia 2004, pg 25-26

“… Si può imparare molto dalle dichiarazioni dei più importanti leader sionisti il cui compito fu, dopo Herzl, di trasformare il suo progetto in azione… Il successo del sionismo non deriva esclusivamente dall’audace progettazione di uno stato futuro… La sua efficacia a superare la resistenza arabo-palestinese sta nel suo essere una politica attenta ai minimi dettagli… la Palestina non era solo la Terra Promessa… ma un territorio specifico con determinate caratteristiche… è a questo che, fin dagli inizi della colonizzazione sionista, gli arabi non sono stati in grado di rispondere… Non si resero conto così di trovarsi di fronte ad una pratica basata sui dettagli… per mezzo della quale un dominio, fino a quel momento immaginario, poteva essere realizzato in Palestina, centimetro per centimetro, passo dopo passo…”

Centrale l’operato di Chaim Weizmann nel tradurre idea e dettato sionista in politica, azione, obiettivi concreti. 

Fonte e cit.: Edward W. Said, La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, prefazione di Guido Valabrega, trad. di Stefano Chiarini-Antonella Uselli, Gamberetti Editrice, 1995 pg 91-99


BiblioIlde - “La verità è un fuoco" di Agnese Pini


A cura di Ilde Rampino

Un lampo improvviso, che squarcia il velo della menzogna e svela un’immagine, piccole tracce di un segreto mai svelato che spalanca un baratro in cui si può precipitare e ci si immerge in quel buio che si addensa sempre più. E’ questo il momento più difficile e pregnante della vita di Agnese che segna la sua adolescenza in modo rilevante ed imperituro, in cui scopre la verità su suo padre che non riesce ad accettare, per infrangere il silenzio che sigilla la loro intesa e guardarsi allo specchio che riflette un’altra sé che non riconosce più.

Attraverso i meandri del suo cuore ferito vorrebbe cercare di comprendere quali siano stati il suo tormento e il suo dolore, le ragioni celate di una scelta definitiva che ha rivoluzionato la sua vita. Nel profondo disagio ed inquietudine che Agnese prova, percorre tutti i sentieri dell’esistere, aprendo il suo cuore al dottor F. per chiedersi in quale notte dell’anima suo padre abbia sepolto il suo rimpianto, se c’è stato e quanti interrogativi e delusione egli abbia dovuto sperimentare.

Quell’ album rosso, trovato per caso in fondo ad un cassetto, in cui si affollavano   foto della “vita di prima” di suo padre, che la sconvolgono: quei paramenti sacri appartenevano ad un’altra persona che lei non conosceva, ma quella foto l’aveva sempre portata con sé, era il filo che univa le due vite di suo padre, come aveva conservato anche la sua pipa. A quell’età, tredici anni, non avrebbe potuto condividere quel segreto con nessuno, per un senso di profonda vergogna,  il suo mondo “stava stretto dentro poche strade”: era come se l’avesse travolta un uragano, viveva un insieme imprescindibile di emozioni. La sua domanda posta ai suoi genitori avevano creato una distanza e aveva visto il viso di suo padre “spezzarsi e anche il mio”, l’improvvisa solitudine di un padre e di una figlia che si scoprono senza difese, ma, dopo la sua risposta , il dolore era diventato sconfinata tenerezza e l’odio si era trasformato in pena

L’esistenza di suo padre aveva continuato a rappresentare un atto d’amore con l’adozione di due bambini che vivevano in un orfanotrofio in Perù e, durante i suoi numerosi anni di insegnamento, non vi era stato un momento in cui deviasse dalla strada su cui si era incamminato sin da quando era molto giovane e non era mai venuto meno ai valori profondi in cui credeva e che aveva trasmesso agli altri

Agnese aveva bisogno di ripercorrere i luoghi in cui i suoi genitori si erano conosciuti e innamorati , come la biblioteca del seminario di Sarzana in cui aveva studiato da ragazzo  e avrebbe poi insegnato come giovane prete e in quelle stanze ora vuote sembrano riecheggiare i momenti della sua giovinezza, le incertezze, gli sguardi timidi, la ritrosia di lei: il mistero del suo segreto era cresciuto in lei nel silenzio e nelle domande che non aveva mai avuto il coraggio di fare, perché aveva reputato incomprensibile la scelta definitiva di suo padre. “La figlia di Pini” per lei aveva rappresentato una sorta di stigma e non riusciva a perdonarlo, anche se si rendeva conto che egli aveva dovuto lottare contro i pregiudizi di tante persone e che egli, bambino fragile e malaticcio e adolescente inquieto poi, si era trovato ad affrontare una situazione che forse in realtà non aveva scelto consapevolmente e ne aveva sofferto.

Un elemento pregnante della storia che fa riflettere è la foglia che sua madre aveva avuto in dono da bambina e che le aveva regalato: Agnese la conserverà per tutta la vita, perché sentiva che “se avessi perso quella foglia avrei perso una parte di me”, era diventata una sorta di ponte e di legame tra loro due, anche se talvolta lei non riusciva a comprendere la sua ritrosia e la mancanza di ribellione e di spirito combattivo, anche se si rendeva conto che essi avevano avuto coraggio e forza nel portare avanti la loro vita, pur in una condizione così difficile. 

Attraverso un percorso di ricordi, ricostruendo una storia di sentimenti autentici, anche se ottenebrati da sensi di colpa, “la responsabilità intera della vita di un altro, la rinuncia intera della propria” aveva compreso che suo padre aveva sempre obbedito e aveva avuto rispetto della sua vocazione. 

Significative sono le pagine in cui finalmente Agnese riesce a fare un sogno in cui aveva incontrato un venditore di accendini e lo dice al dottor F. : una sorta di scoperta, per illuminare e squarciare il velo della verità e, forse, fare finalmente pace con il proprio passato.



Pensieri stravaganti - L’ambivalenza del segno radicale


A cura di Mino Mastromarino

Carsicamente compare nel discorso pubblico il richiamo alle radici. Le radici culturali dell’Europa, le radici cristiane, le radici familiari, le radici dell’anima. Ma l’uso inconferente e granulare di una parola – si sa - ne causa e denuncia la perdita di significato. Questo lemma sommamente figurativo è utilizzato, a fini di propaganda,  dai  movimenti localistici, identitari e spesso xenofobi. E’ anche adoperato, indiscriminatamente, in triviali operazioni di grottesco folklore, di  promozione (pseudo) turistica, di altrettanto maldestro neuromarketing. La metafora delle radici resta comunque un potente  dispositivo di cognizione del mondo e di sé stessi, potendo concorrere a formare la memoria collettiva e personale. Muove dall’inevitabile bisogno di conoscere e riconoscere il nostro passato, di gruppo e di individui. Rimanda a un albero rigoglioso, cioè  a un corpo vitale sostenuto e nutrito da una ramificazione vegetale interrata. Una rappresentazione ideale che, attraverso l’ancoraggio al sottosuolo, mira a indicare lo sviluppo, il cangiamento e il divenire in direzione verticale, quindi espansiva. Il suo senso risiede dunque nella metamorfosi, presupponendo la ‘radicata’ condivisione di un determinato spettro simbolico. La società globalizzata versa – al contrario -  in una condizione di totale deficit simbolico, e mena stupidamente vanto della triste  scomparsa di ogni  rito. Perciò, in luogo di adagiarci sull’utilizzo pervasivo, ‘prezzemolare’  del termine  ‘radici’, sarebbe meglio fare qualcosa per riappropriarci della spiritualità della vita. D’altronde, ‘anima’  significa ‘soffio, vento’.  E’ un guaio quando l’allegoria ‘radicale’ viene asservita all’affermazione del concetto di identità, che, per definizione e all’opposto, si fonda sulla immutabilità, sulla fissità, sulla rigidità, giacchè  tende all’immedesimazione con una natura originaria, pura e cristallizzata che come tale  non può e non deve modificarsi. Del resto, un simbolo ( le radici dell’albero), costretto in posizione servente di un’ astrazione ( l’identità collettiva),  non funziona.    Tanto che – è stato acutamente sottolineato  - le radici danno un’immagine dell’identità che paradossalmente, nonostante il rigoglìo della pianta, è più sterile di altre immagini, perché è determinata e deterministica. Le radici, come idea istituente di una identità comunitaria, integrano infatti  una contraddizione in termini. Al riguardo, basterebbe chiedersi banalmente se il paradigma delle radici sia estensibile anche alla foresta: il problema non si pone e non si è mai posto, per la semplice ragione che le radici di una foresta (gruppo di alberi) non possono che corrispondere alla sommatoria delle radici di ciascun albero che la compone. In altri termini,  le radici di una foresta on esistono né sono autonomamente concepibili.  

L’evocazione rizomatica nasconde un’altra trappola di senso, riscontrabile specialmente nelle vacue elucubrazioni sulle tradizioni popolari. Ad esempio, si ritiene che una tradizione sia tanto più autentica e solida quanto più antiche ne siano le presunte radici. Ma la loro individuazione e collocazione storica non sono (quasi ) mai precisate, perché scientificamente impossibili o arbitrarie o disfunzionali alla contingenza politico-sociale. La vitalità, la durata e la permanenza di una tradizione dipendono dalla sua rituale iterazione, non già dalla distanza antiquaria  della sua (presunta) genesi. 

La ricerca delle origini – al di fuori di ogni interesse antropologico – può avere esiti pericolosi, allorchè assuma la forma della nostalgia della purezza, di un fantasmagorico stato ancestrale. O esilaranti, come succede spesso nel campo culinario e toponomastico ( i fagioli del mio paese sono originali, quelli del tuo, no; c’è sempre un borgo più medievale degli altri).    

A proposito delle radici alimentari italiane, comunque non dimentichiamo che  il pomodoro, i peperoni, i peperoncini, financo la patata provengono dall’ America; mentre per la mela e la melanzana  siamo debitori  dell’Oriente ( sic ! ).