LA MIGLIOR SPECIE



Le foglie, lungo il viale, si muovevano appena. Piccoli sbuffi di vento le rialzavano prendendole dalla punta, come attaccate ad un amo invisibile. Si rigiravano su se stesse e poi ricadevano nuovamente, spostandosi poco più avanti. Era come se facessero dei piccoli passi, forse perché curiose di sentire cosa dicevano quelle due ragazze che, rialzatesi da sotto il porticato, avevano iniziato a camminare lentamente. Non era una giornata fredda ma nell’aria si poteva respirare un preavviso di pioggia. L’odore si infilava nelle narici e colpiva i pensieri. Pensieri ammutoliti da una benda di quiete. Quiete che aveva creato un involucro esterno duro e spesso. Ma se al di fuori il calco era solido dentro era un magma in ebollizione. Intanto il silenzio tra di loro continuava a recitare una parte, ma con poca convinzione. Aggredito prima dal rumore delle foglie che crepitavano sotto i loro passi, aggredito poi da una manciata di parole, che una delle due, provò a lanciare come una pietra contro il muro. Una prova per dare avvio ad un dialogo. Aveva preso dalla pancia, dall’istinto, una chiave. Voleva vedere se riusciva ad aprire lo scrigno che aveva di fianco. Parole sussurrate appena, dette quasi con vergogna, mentre con la bocca si era avvicinata a sfiorare l’orecchio destro: “Come ti senti?’”. Era la chiave sbagliata. La serratura dello scrigno non scattò ma l’altra ragazza, pur non sorpresa da quella domanda, si fermò a guardarla. Le pupille si incontrarono e si riconobbero senza esitazione. Le mani degli occhi si toccarono senza muovere quelle del corpo. E come si toccarono si bagnarono di lucide lacrime ma nessuna le fece debordare dagli argini degli occhi. Le ciglia trattennero quello che dovevano trattenere. Poi la ragazza che aveva chiesto si spinse più avanti. Allungò la mano, infilandola sotto il braccio dell’altra. Un’altra chiave. Un altro modo per dirle, senza usare frasi fatte, voglio far parte del tuo mondo, lasciami entrare. La serratura fece prima una debolissima resistenza. Poi il rumore di apertura smosse il liquido che avevano negli occhi e da sottobraccio si trovarono abbracciate. Strette, una all’altra. Mille e mille parole si scambiarono in quel pomeriggio umido di novembre, senza dirsi nulla. Quando si staccarono da quell’abbraccio percepirono che quel dolore era uscito e diviso per due era diventato meno opprimente. Meno pesante. Avevano entrambe il cuore e l’anima carichi di chiodi. Ma sapevano come toglierseli a vicenda. Sapevano curarsi le ferite e camminare stringendo i denti. Col resto del mondo indossavano il calco, facendo finta di non provare dolore. Ma quando erano insieme quel calco si sbriciolava sotto il peso delle loro anime che spingevano per incastrarsi l’una nell’altra. Anime destinate ad appartenersi per sempre. Rifecero la via per tornare a casa. La fecero di corsa, come facevano da bambine quando si tenevano per mano, per non perdersi. Ora sorridono. La gente che le guarda le chiama “amiche” ma loro erano e sono di più. Erano due persone che si erano scelte, tra tante e che si sarebbero scelte ogni giorno. 
Erano e sono la miglior specie di “amica”: “quel tipo con cui puoi stare seduta in un portico e camminarci insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti come se sia stata la miglior conversazione mai avuta.”

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