In attesa di scoprire la seconda edizione di "EDIPO, per una genealogia dell'umano" - di Luigi Anzalone, Pensa Editore - che verrà presentata al Circolo della Stampa di Avellino il 10 Giugno, proponiamo una riflessione ed analisi della prima edizione.
Proviamo ad immaginare questa scena: sta scendendo la notte come una fitta ragnatela di pece che inizia ad avvolgere ogni cosa. Solitaria nel cielo, la luna mostra il suo volto nella sua interezza e cerca, trovandolo, uno spazio per carezzare di luce e rischiarare un luogo decisamente insolito e particolare come una torcia che illumina un angolo di mondo. Ecco allora visibile un ampio tavolaccio di pietra e sopra di esso tre figure.
L’uno di fianco all’altro, sembrano dormienti. Proviamo a capire di cosa si tratti. C’è un bambino appena nato. Poi un uomo, nel pieno della sua virgulta età. Infine un vecchio con una benda a coprire gli occhi ed un bastone. Di fronte a questi corpi, con le braccia spalancate, quasi a volerli contenere TUTTI idealmente in un abbraccio, una DONNA, di spalle.
Non ne vediamo il volto ma solo i capelli che si muovono vorticosamente nel vento. A mio modesto parere ben potrebbe essere questa notte quella che Hegel chiamava “notte della conservazione”, da cui prende vita, corpo, dimensione, quella genesi e genealogia insieme dell’essere umano e del mito di Edipo raccontata e analizzata da Anzalone. Chi sono i tre personaggi sul tavolo e chi è quella donna? Proviamo a rispondere per gradi. Accanto a Freud e immediatamente dopo di esso, solo per ragioni temporali, si innesta questo libro che, in una forma corposa ed analitica (qualcuno lo chiamerebbe giustamente saggio ma io dico che è un unicum ossia un saggio FILOSOFICO ed un libro di NARRATIVA insieme), che si impreziosisce della straordinaria quanto stringente e radicata introduzione del prof. Giuseppe Cantillo che ben ci introduce in quella notte della conservazione da cui ho tratto il mio incipit. Con questo libro, con Edipo, Anzalone compie, dal punto di vista dell’indagine filosofica e speculativa e altresì da quello narrativo – letterario, un “triplo salto mortale carpiato con avvitamento”.
Qualcosa di davvero difficile e sorprendente (ma non troppo per chi ha la fortuna di conoscerlo) che gli riesce con una semplicità, a tratti, decisamente sconvolgente. Nella sua indagine, che io considero anatomica quasi che si trovassimo di fronte ad una anatomia del MITO, tanto va nelle viscere la sua riflessione investigativa sulla nascita dell’uomo ed ecco il bambino, EDIPO APPENA NATO. Poi nel dileguarsi nella notte del Sé, in cui tutto può scomparire oppure essere conservato, qualsiasi cosa diventa un dilemma ed ecco l’uomo, EDIPO E LA SFINGE. In questa notte indecifrabilmente spaventosa ma meravigliosa che fissa l’uomo negli occhi, scrutandone l’inconscio, ecco venir fuori quell’alito di passato, quella radice profonda, da cui ognuno di noi proviene, ecco il vecchio, EDIPO è L’ANIMALE CHE CAMMINA NEL TEMPO.
Dal “già vissuto” dell’incosciente notte si materializza POI LA COSCIENZA del giorno nel quale possiamo immaginare sia il mito (Edipo) che L’UOMO INSIEME a camminare, perennemente, sul filo di un rasoio, sulle altezze pericolose della coscienza e dell’incoscienza. Eppure quegli occhi, che Edipo si caverà per la dolorosa scoperta dell’incesto, servono, prima ancora che a raccontare la tragedia, a costruire una questione ontologica: il discorso sull’essere uomo, uno e pluralità.
ANZALONE narra la storia di EDIPO partendo dalla GENESI ossia dalla nascita e inserisce molteplici risvolti FILOSOFICI COLLEGATI in un percorso verso “l’evento metafisico originario”. Quell’evento che generò il mito di Edipo, partorito, se così si può dire, con sangue e dolore, dalla lotta acerrima tra patriarcato e matriarcato. Ecco, QUINDI, la donna che si profila di spalle nella notte: GIOCASTA. Di questa visione, cruda e carnale insieme, l’autore prima si veste dei suoi poderosi studi, da quelli sul matriarcato di Bachofen a quelli di Freud, nell’accezione psicoanalitica di “Complesso”.
Ne crea un abito elegante, rifinito con cura, preciso nei dettagli e nei particolari tuttavia alquanto stretto, per la complessità della sua materia cerebrale. Per tale ragione, ad un certo punto della sua analisi clinica, quasi si trattasse di un’autopsia per conoscere le reali cause di un evento traumatico quale la morte, se lo strappa di dosso, lo lascia cadere sul pavimento, dimostrando, 1 in questo modo, l’autenticità e la modernità del suo argomentare. Anzalone comprende che, per parlare di Edipo necessarium est nascere o dovremmo dire: rinascere. Uscire dal magma del ventre materno, respirare il primo afflato d’ossigeno, piangere disperatamente per il distacco, essere o voler essere un bambino che ha appena visto la luce del giorno, le cui iridi sono ancora vergini rispetto alla infelice tragedia del mondo che lo circonda. Ebbene la storia narra che Laio, padre di Edipo e re di Tebe, aveva saputo dall’oracolo che, se avesse avuto un figlio, questi un giorno lo avrebbe ucciso, avrebbe sposato la madre e avrebbe provocato la rovina della sua casa. Generato Edipo e per evitare l’avverarsi della profezia, ordinò a un servo di abbandonare su un monte il neonato. Il servo eseguì l’ordine, ma poco dopo un viandante che passava di là per caso udì piangere il bambino e, mosso a pietà, lo raccolse e lo portò al suo signore, il re di Corinto Polibo che, non avendo figli ed essendo desideroso di averne uno, lo allevò come proprio. Divenuto adulto, Edipo, ebbe una disputa con un tale che, per offenderlo, gli disse che lui non era il vero figlio di Polibo, ma solo un trovatello salvato dalla morte. Allora, turbato da quella rivelazione, il giovane andò a Delfi per chiedere al dio Apollo chi fossero i suoi veri genitori. L’oracolo di Delfi non gli disse nulla a questo proposito, ma gli predisse che un giorno avrebbe ucciso suo padre e sposato la stessa madre. Volendo sfuggire a quel destino che lo terrorizzava, Edipo decise di non tornare mai più a Corinto. Un giorno però, mentre si trovava a un bivio incrociò la carrozza su cui viaggiava Laio, il cui cocchiere prese così male la curva, che una ruota passò sopra a un piede di Edipo. Essendone nato un grave litigio, il giovane per difendersi da Laio che stava per ucciderlo, trafisse proprio quel padre che non aveva mai conosciuto. Tempo dopo, mentre continuava il suo viaggio, Edipo incontrò la Sfinge e risolse il suo enigma: «Qual è l’animale che ha voce, che il mattino va con quattro piedi, a mezzogiorno con due e la sera con tre?» Edipo pensò attentamente e rispose: «Quell’animale è l’uomo, che nell’infanzia si trascina carponi, nell’età adulta sta in piedi e nella vecchiaia procede appoggiandosi a un bastone». Spezzato il sortilegio, la Sfinge, rabbiosa, si gettò dalla rupe e morì. Avendo liberato Tebe da quel mostro sanguinario, Edipo fu accolto dalla città come un trionfatore tanto da riceverne in moglie la regina Giocasta, sua stessa madre. E così sebbene Laio ed Edipo avessero cercato entrambi di sfuggire alla terribile profezia, tutto si era avverato inesorabilmente.
Comprendiamo quindi perché, solo rivestito di pelle, ancora calda e umida per il parto, con le autenticità della materia ancora non plasmata, ma pronta a formarsi nel percorso evolutivo, si diventa uomini, con tutto quello che ne consegue. E’ questo un Edipo uguale e diverso da tutti gli altri, tesi e antitesi di domande indefinite, rivestito della sua pelle originale e “solo sua”, quella pelle che gli dà modo di creare, dal mito, conosciuto e riconoscibile, un essere concretamente attuale, tratteggiato con delicata autonomia. Un racconto indagatore, di critica e assoluzione, senza tuttavia condanna, in una soggettiva e per questo direi quasi riformata versione. Con estrema sapienza, con inziale cautela eppur senza paura, si tuffa nell’oceano prima calmo, poi burrascoso, delle teorie, conosciute e conoscibili, con quell’acrobazia così complicata e difficile di cui ho detto prima. Una volta completamente sommerso, quando tocca la profondità della conoscenza, riesce a riemergere portando con se un’essenziale e particolare (unica) materia plastica che gli servirà a costruire e celebrare quella saga mitologica caratterizzata principalmente, ma non esclusivamente, dal germe della violenza. A differenza di Freud che, nell’Interpretazione dei sogni, espone la teoria del “complesso” edipico, muovendo dall’Edipo Re di Sofocle, certificandone l’antica genealogia e vitalità carnale del complesso, quindi analizzando il rapporto con la madre e amante con Giocasta, Anzalone cerca di estrapolarlo dalla carnalità incestuosa tentando (riuscendoci, come diremo avanti) una complessa operazione di spostamento dell’attenzione o dell’indagine dal factum principis ad un fatto collaterale ma per ragioni di analisi filosofica decisamente fondamentale per disvelare tutto il resto. È sulla sfida, quella di Edipo con la Sfinge, che si incentra un’insolita ma più attrattiva definizione del mito. Come una statua che si sgretola dalle fondamenta, che supera la staticità in cui era stata relegata, nella lettura di questo testo riusciamo quasi a vedere la caduta del materiale che teneva bloccato il mito, immobile, fermo, nella posizione di attesa perenne. Anzalone avanza l’ipotesi, oppure il sospetto, che “il senso dell’enigma di Edipo come enigma dell’uomo, della condizione umana nel mondo, possa non essere tale da sciogliersi”.
La sfinge, portatrice dell’enigma che causa la morte di chi non lo risolve, simbolo della dissolutezza e del dominio perverso: essa fu mandata da Era contro la città di Tebe per punire il re Laio ritenuto colpevole d’omosessualità. Sconfitta solo dall’intelletto, dalla sagacia, in contrapposizione con l’istupidimento ottuso nella sua posizione statica 2 aderisce indissolubilmente alla roccia sulla quale poggia. E’ dotata di ali ma non vola e non le servono neanche per salvarsi dall’abisso nel quale si getta per suicidarsi. Della Sphynge greca, nei tratti femminilizzata, simbolo della vanità tirannica e distruttiva, Jung ne ha sottolineato gli aspetti legati all’archetipo della madre nella sua valenza negativa, aspetti con cui ciascun soggetto umano, per divenire tale, deve potersi confrontare. Ebbene, i Tebani ed Edipo sono uomini nel senso pieno del termine? Se gli uni perdono la sfida e sono divorati dalla Sfinge mentre l’altro lo risolve, costringendo la Sfinge al volo mortale, allora è chiaro che i primi (i Tebani) siano quasi l’emblema dell’immagine capovolta della Sfinge. Insomma sono più animali che uomini (la Sfinge era per metà animale e per metà umana). Soltanto Edipo sa rispondere e svelare l’enigma e la cosa gli riesce nel modo peggiore ed ambiguamente beffardo. Le sue possibilità esistenziali si convertono nel loro opposto, tanto è che le nozze con Giocasta sveleranno la loro atroce fisionomia solo quando non si potrà più porre rimedio al male tremendo che hanno cagionato.
Si potrebbe senz’altro dire, quindi, che la risoluzione dell’enigma, la vittoria di Edipo sulla Sfinge risulta, infine solo apparente perché se è vero che chi risolve non vive e viene divorato e chi risolve vive e viene proclamato Sapiente, Re di Tebe, ecco che la stessa vittoria lo conduce all’estrema vergogna, all’accecamento, alla perdita del trono. Per tale ragione, dal momento in cui Edipo risolve l’enigma, ecco il germe della disperazione e della morte che si innesta nella sua vita. Apparentemente vittorioso porta in se la genesi di un nuovo dolore, questo comprensibile e vissuto sin nella carne, con la razionalità di un uomo che non è più un bambino abbandonato ma un Re. Il trionfo di Edipo, quindi, prelude alla sua rovina e la nascita dell’uomo, in quanto uomo e la sua morte in quanto animale non accade mai definitivamente. Anzi l’autore dice che accade soltanto in parte e altresì riconducendo la soluzione dell’enigma alla morte dell’animale per metà donna, si allude non solo alla fuoriuscita della specie umana dall’ordine di Madre Natura ma anche e soprattutto all’eventus dell’uomo che “si fa uomo” mediante il camminare eretto, il linguaggio, il pensiero simbolico e trova la sua primordiale interazione nei primi anni di ogni essere umano dopo che fuoriesce dal grembo della madre. Dalla nascita ci si lega, per converso, in maniera stringente, alla morte, come una necessità assoluta per la definizione autentica della prima e, lo diceva semplicisticamente anche una canzone, “si muore un po’ per poter vivere”. Eppure “la morte - diceva Heidegger - è lo scrigno del nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente assente e che, tuttavia è, addirittura si dispiega con il segreto dell’essere stesso. La morte alberga in sé ciò che è essenziale dell’essere.” L’Edipo di Anzalone esprime, nella sua drammatica sconvolgente esistenzialità, l’ambiguità, la doppiezza, l’enigmaticità ma anche l’attualità. Edipo è il chiaroveggente, il decifratore di enigmi, ma è lui stesso l’enigma che, nel suo accecamento, è incapace di decifrare. Non è quindi uno bensì un doppio come la stessa parola dell’oracolo. E’ un re salvatore ed un mostro di impurità che concentra su di se tutto il male, tutto il sacrilegio del mondo e che bisogna cacciare come un pharmakòs, un capro espiatorio perché la città, ritornata pura, sia salva. Edipo è un uomo che si ribella al destino non per diventare eroe ma per non abdicare al suo essere uomo ossia padrone autentico di se stesso e delle sue azioni e quindi anche della sua sorte per non essere un oggetto in balia del destino o vittima di questo.
Un destino che lo avvolge e lo travolge, che lo edifica nella gloria e lo distrugge con le sue stesse mani. Edipo scioglierà l’enigma della Sfinge ma mai scioglierà l’enigma di se stesso. L’enigma delle tre età, l’evidente allusione alla filogenesi dell’uomo, che la Sfinge propone ad Edipo, si riferisce non solo alla portamento fisico, al modo di camminare dell’umanità ma alla sua sostanza psicologica, alla mentalità, al carattere esistenziale ed esistentivo dell’essere umano. E’ “nell’evento metafisico originario” che si raccoglie e si condensa la vita dell’uomo, molteplice, ricca, complicata, diversificata e diversificabile rispetto a tutte le altre vite umane e soprattutto animali. L’uomo muore come animale perché è coscienza, più precisamente diviene coscienza. Coscienza che fruttifica nel pensare ed essere pensiero. L’uomo quindi si scopre uomo, coscienza, tempo, proprio nel fatale cammino sulla strada della morte, impegnato in una sfida costante (e impari) con questa. Nella risoluzione dell’enigma, nel movimento dell’uomo nel tempo, nei tre stadi della vita, infanzia, maturità, vecchiaia, la Sfinge lacera le sue carni nell’abisso e nella morte dell’animale subentrare la nascita (ma anche la rinascita) l’uomo, il suo essere diverso.
Emanuela Sica
Appuntamento al Circolo della Stampa di Avellino