La poetica di Luca Crastolla. Dall'ignoranza della polvere all'indole del tarlo, un viaggio nel magma dell'uomo.

"L’universo è immenso, e gli uomini non sono altro che piccoli granelli di polvere su un insignificante pianeta. Ma quando più prendiamo coscienza della nostra piccolezza e della nostra impotenza dinanzi alle forze cosmiche, tanto più risulta sorprendente ciò che gli esseri umani hanno realizzato". 

Da questa definizione di Bertrand Russell vorrei partire per introdurre quello che io considero una sorta di "elogio della polvere" ossia un capitolo decisamente "serio" ma anche "dissacrante" di una metafora poetica, sostanzialmente ermetica, messa appunto nell'opera del poesta pugliese Luca Crastolla autore della silloge: L'ignoranza della polvere (Controluna). 

In questo tentativo di analisi poetico-concettuale la commistione è avvenuta anche con alcuni suoi inediti* che faranno parte di una nuova silloge dal titolo "L'indole del tarlo" (titolo che, probabilmente, prende dalla prima silloge una sorta di eclettica e scenografica ispirazione che si frammenta triade "mobile vecchio - polvere - tarlo" concatenati ad una serie di eventi e visioni del poeta di cui avremo modo di parlare in futuro e a tempo debito) e che radicalizza la scelta di una geografia di toponimi molto chiari e ben definiti:

Ma andiamo per gradi e partiamo dalla polvere, dalla sua inconsistenza che, tuttavia, diventa consistente, concreta, avvolgente, nel momento in cui si stratifica sulle cose. Anche quando sembra assente, quando non si vede a occhio nudo, la polvere fa parte del nostro mondo, ci accompagna nel viaggio e nella stasi, come una carezza di cui non riusciamo a percepire il tatto, il tocco. Se, però, un raggio di sole si insinua, sbilenco, a tracciare una linea di taglio nell’ombra, in quella parte di controluce eccola nella sua evanescente plasticità, così infinitamente piccola eppure così estesa, così tanta da sembrare un'immensa "vita volante" che ha la stessa leggerezza di un soffione.

L’ignoranza è, invece, un aggettivo, un argomento chiarificante, che segue come un elemento connaturale a questa perché la polvere si posa ovunque, sia dove è capace di costruire mantelli di opacità, di “sporco”, sia dove non riesce a elaborare alcuna architettura, penso all’acqua di un ruscello, alle foglie di un albero, a quelle cose che la polvere tocca ma non intacca. 

Ma di che materia è fatta la polvere? Sicuramente è parte di uno "sgretolamento", sia di esseri viventi che di non viventi (i primi sono organismi (ad esempio l'uomo) che compiono il proprio ciclo vitale attraverso gli organi di cui sono dotati, i secondi sono detti anorganismi perchè non possiedono alcun organo utile a compiere un ciclo vitale). Pensiamo per un attimo a quello che avviene alla nostra pelle che, quotidianamente, si rinnova e rinnovandosi diventa, tra le altre cose, minuscola particella di polvere. La polvere è quindi un elemento fatto di materia che non è più quella di un tempo, di uno scarto, di un fallimento, di una morte, di una distruzione. Einstein diceva: "Esseri umani, vegetali, o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile." Ed è per questo che in quel concetto cosmico rientra anche la concezione dell'Antico Testamento: "Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere" - ed altresì: "Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris". Che dire poi della sua interpretazione onirica? Un simbolo bivalente sia di vita che di morte, rispolverare un vecchio mobile può significare portare alla luce beni di cui si trarrà beneficio per lungo tempo, di converso può significare problemi, dimenticanze, frammenti del passato sotterrati nell inconscio, volutamente dimenticati.

quando la carne mi venne a cercare
ero senza perimetro, non avevo confine.
E non credevo
che un giorno sarebbe tornata
all’ombelico ultimo che la rigenerò.

In principio
la morte mi venne negata
in seguito, si fecero avanti
milizie di uomini oscuri
con le mille e inutili parole della luce
Infine, riconobbi il suo prosperoso ventre
nelle carcasse dei cani, esposte al caos della mosca.

Quando l’ignoranza della polvere
si coagulò intorno al mio nome sancito nell’acqua
conobbi l’alfabeto del mondo
e presi a giocare alla creazione
come un demiurgo
ubriacato dal sidro dell’innocenza.

Seminai il dolore
sporcai il sangue
fessurai la volta più bassa del cielo
fratturai le pietre della montagna fumante.

Cercando il seme, dimenticai le more
desolato
disposi un fascio di speranza sull’altare del riscatto.

Ho creduto, così, alla croce
forgiata, d’evidenza, secondo i miei assi
Ho creduto nel ritorno della sostanza
in calchi coniati da fiati anteriori

Ho creduto
in me
apostrofo di dio.

Smise tutta quest’imperfezione
quando finalmente addormentai il petto
sulle nudità della pietra asciugata
dalle miriadi del sole nascente

Durò quel tempo
sottile
d’un vasto oblio pomeridiano


Sarà per tale ragione che, sin dal titolo, il libro di Crastolla m'appare come un'entità poetica a sé stante, un distacco a parte, che si sposta da quella che potremmo chiamare poesia classica e pretende di elaborare un percorso tutto suo, riuscendoci, in un'opera complessa di "sgretolamento del senso" da cui crea il suo privato e personale "alfabeto del mondo". Questo per dire che la lingua di Luca è espressione di un "idioma tutto suo" fatto di: periodi che iniziano senza lettere maiuscole, come se fossero travi appese e cadenti di una cattedrale ormai distrutta, di un'emozione già sfilata dal tempo; di punteggiature libere; di "titoli assenti" che esprimono quel desiderio di libertà, di estensione duttile al movimento e non alla severità di marmi o tombe di univoche interpretazioni; di spazi tra i versi in cui gravita la polvere che non si vede ma c'è; di chiusure che sembrano aperture; di "daccapo" che appaiono sentimenti tagliati con coltelli arrugginiti.

Sicuramente è tutta qui la spiegazione della sua arte poetica, di quel suo modo, unico, di dipingere, plasmare, scolpire ma anche distruggere gli elementi della vita e della morte. 

La dimensione Crastolliana si muove dalla terra dei suoi natali, radici del suo passo, in una con la catarsi del suo "essere padre e figlio" così legato alla materia pulsante del suo ambiente “naturale”, con i suoi santi e i suoi miti pagani, con le sue limbiche visioni, le sue tradizioni sanguigne, sacre e dissacranti. La scelta di Luca è insita nella parola che sgorga, vorace, dalla sua fonte sotterranea che, probabilmente, nessuno è ancora riuscito a chiarire esattamente, tanto è copiosa, tanto è fresca, tanto è inebriante eppure, tante volte, velenosa in controsenso assoluto, increspata, torbida. La polvere Crastolliana, allora, altro non è che la "storia" di quello che siamo stati, il movimento di quell'impercettibile materia in trasparenza che diventa solida nel lemma che si libera dall'ispirazione intimista liberando una poetica di "resurrezione" in cui quello che era un tempo adesso è altro, in un'ottica multifocale e multi espressiva che prende sempre differenti chiavi di letture anche per cose apparentemente identiche. Il dinamismo intrinseco dell'ispirazione poetica risale sinuosa sino ad arrivare al cuore di chi legge, anche chi sembra spaesato, rispetto a dei termini, magari, non aderenti al suo sentire, rimane rapito dalla bellezza estemporanea che, come il vento caldo del sud, muove e smuove ogni immobilità della carne. Un vento che si ritrova, come mantra, in molti dei suoi versi, come se quell'alito di vita della natura fosse il respiro di cui cibarci per non rimanere senz'aria e senza ossigeno in un mondo sempre più asfittico, cattivo, malato.  

Giuseppe Cerbino, nella prefazione al libro così si esprime: "Nei versi del poeta pugliese Luca Crastolla, avvertiamo la sensazione che nulla di certo ci possa arrivare con la parola; nulla di sicuro si possa equiparate alle facili retoriche di sociologi, psicologi... professionisti di vario genere che pensano di dare una soluzione ai problemi. Il poeta risolve sempre il disagio in una bellezza plastica, mai definitiva eppure imperscrutabile. (...) La poesia di Crastolla appare come un fenomeno del tutto peculiare che ci fa riflettere sul concetto di comprensione della poesia; una vexata quaestio che si pone sempre indebitamente nella discussione intorno all’evento poetico. (...) La parola di Crastolla è quasi sempre aspra, inospitale, mai rasserenante, rifiuta la retorica perché si interessa a vivere e a far vivere tutti noi nelle nostre vicende che rintracciamo nei ritagli simbolici di questa poesia."

A mio avviso non si può prescindere da questa "brace di verità" che crepita nella dimensione filosofica della poesia Crastolliana. Credo che l’insieme del mondo interiore del poeta si riversi nella parola come una gara, spontanea e senza sosta, a tagliare il traguardo della creazione. Sicuramente l’utilizzo di una determinata terminologia è parte di un substrato emotivo ed emozionale che appartiene a ciascuno di noi, tuttavia in Luca la parola è sintesi, feconda, di viaggi dal dentro al fuori, verso un miraggio o verso un paesaggio fatto di case e fantasmi, e dal fuori al dentro, verso quell’intimo villaggio in cui l’Io si espande e si riposa, stanco quel tanto che basta per allungare le membra e sognare nuove dimensioni dell’essere. Una sorte di andirivieni dove ogni singola espressione, significato, allusione, si innesta in un messaggio segreto, addirittura criptico che caratterizza, come una firma di “inconfondibilità”, di “riconoscibilità”, l’arte e l’estro dell’autore. La codificazione del poeta Crastolla non è operazione semplice né mi spingerò a farlo, non mi è mai piaciuto ricondurre un autore, vecchio o nuovo che sia nel panorama poetico, ad uno schema, un confine, per dire della sua lirica cogitante e preziosa. Quello che vorrei fare è togliere un piccolo strato di “polvere” dalle parole per provare a farle parlare, senza preconcetti e senza mediazioni, liquide e succose, tale da comprendere (seppur parzialmente) ciò che vogliono dire (o almeno provarci). 

Se ci si spinge a fare questa lieve operazione d’indagine del “dire Crastolliano”, ecco nascere un’armonia nella "disarmonicità" di alcune espressioni che, solo in apparenza sembrano disconnesse ma che, in realtà, fanno parte di quel mondo ancestrale, magico eppure terrigno, di zolle e di sudore, di nenie e di lavoro, di odori e olezzi, di colori e chiaroscuri, di sapori e di nausee, di sensazioni epidermiche e istinti di sopravvivenza, in cui il poeta è Sovrano, è Sacerdote ma anche Schiavo. Quanti personaggi si muovono nei reticoli del suo vissuto, in un viaggio che riempie il vaso, come se fosse una moderna Pandora al maschile, del singolare e plurale, inteso come vite soggettive e oggettive, che il poeta va a riscoprire, puntellare, definire, azzardare, stravolgere, spegnere, collocare, in un mondo semplice che si allunga con le punte delle mani fino al passato ma che ha lo sguardo, attento, silenzioso, furioso, multifocale, sul futuro, senza fare sconti, tuttavia, al presente. A queste aggiunge le urlanti tentazioni della carne, le catapulte della rabbia, la stasi della rassegnazione, la libertà assoluta della passione, la tagliente lama dell'ira, la turbativa dell'incomprensione. 

Le poesie di questa raccolta, così come gli inediti, sono come un parto fecondo, inaspettato, che la terra, la Lucania ed il Salento insieme, mettono al mondo attraverso la sua mente, le caverne dei suoi dolori, le speranze mai sopite, le divagazioni della gioventù, le corse dell’infanzia, le pungenti spine del presente che si sforza di estendersi, in uno slancio di speranza, verso il domani. Dolore e amore, amore come eros, come piena concretezza della pulsione e del sentimento, mente e carne impastati nella sua ricerca di fondamenta solide, insolite, diverse da tutto il resto del creato. Il tormento riemerge nella triade del Sud: solitudine - umana - devozione. Particelle di pensieri, queste, guardate, ognuna, con incanto e disincanto insieme, in un andirivieni di antitesi che, nei suoi versi, stringenti, corroborati quel tanto che basta dalla sofferenza e dall’aspirazione alla salvezza, diventano il sacrificio e l’offerta alla divinità, alla natura che sovrasta ogni cosa e che ingoia i mondi del disincanto e della meraviglia in una fusione di rabbia a dolcezza che ci viene donata con la sapienza di un orafo.

I gioielli, prima grezzi poi eleganti, vengono creati dalle memorie storiche del poeta, con la lentezza e la delicatezza che si confà ad un artigiano che, nelle sue opere, lavora con cura la materia prima già prefigurando il risultato finale. E il risultato altro non è che una fusione, a caldo, di luoghi, folklore, riti cristiani e pagani, di famiglie, emigrazione, lutti, dimenticanze, assenze, sembianze, catarsi, andate e ritorni, vittorie e sconfitte, fatica e leggerezza, terra arsa e terra feconda, di femmine e madri, di matrimoni e disastri, di libertà e sottomissione. 

La poesia di Luca Crastolla si esprime così, nel magma di quel vulcano che possiede al posto del cuore, carico di calda passione, d'indomita speranza ma, anche, di scetticismo freddo, di arresa agli eventi, di senso e non senso, di luoghi e fantasmi. In questo universo fatto di solide radici e di ali enormi, chiaramente ancorato alla dimensione soggettiva dell’autore, le figure della nonna, del fratello, della madre, si legano e si slegano a dismisura, rimandando a echi di verismo, pessimismo ma, anche, edificante desiderio di rivalsa. La nonna materna diventa, per Luca, il simbolo di una forza, addirittura in lega d’acciaio, che non si inginocchia alla fatica della terra, che si innalza a fortificare il carattere e a temprarlo nelle avversità dell’esistenza. Il fratello diventa legame inscindibile tra terra natia e divagazioni d’oltre mare, scontro e incontro di passioni e unioni di sangue, di appartenenza. La madre, infine, resta confinata in una gabbia di sottomissione e di violenza, simbolo crudo e crudele del patriarcato più atavico e doloroso, dove la donna null’altro è che fattrice senza dignità e senza coraggio, piegata alle regole di una società che non la riconosce come essere pensante, privo addirittura dell’essenza vitale dell’anima. 

*dovrei dirti del tepore oleario 
dai frantoi nelle domeniche di novembre 
quando i mattini intuiscono il silenzio
dai campanili, puntellare la distesa;
dovrei dirti cosa ci rimane e fare presto
delle Vie Crucis di calce, delle Madonne nere
dell'iconografia dell'estrose mancanze
e di un certo lusso messo a capperi e acciughe
non dei millantati capillari della Francigena 
le trovate, il ruralismo, le false cantine
Del frangente in cui mi feci lama di serpe 
per andare incontro al trilite, dirti
del naufrago riemerso presso Pisco Marano
per sommare la sua età ai millenni
per arrestare la deportazione degli orfani
la gloria dei declassati, e la parola era 
ancora non era cuneiforme, girava a vuoto
su un niente che da troppo ci accompagna
allestito con tinte balneari o con l'indifferenziata
sversata sulle vicinali della nostra vergogna sorvolata 
dagli amministratori del parco acquatico, dai poeti 
neomelodici, dai portaborse. L'assedio
di polveri, le dicono sottili (se proprio si vuol vedere)

In Crastolla si sentono gli echi di Rocco Scotellaro, anche se in forme decisamente decisamente diverse, si avverte il disincanto del dolore dell’uomo lasciato, indifeso, davanti alle "assenze" ingiustificate della natura che non "disseta" come dovrebbe terre e bocche di figli lasciati a morire dei sete: "qui non piove/ qui, sui nostri ombrelloni colorati/ di ludopatiche scenografie agostane/ Qui, dove l’amara terra divorzia/ dall’indolenza della pietra e fa scasso/ nella litania/ sitibonda/ dell’arsura imprecata dalla millenaria corteccia./ E le sabbie/ frivole/ vanno su come cattedrali consacrate/ allo spaccio della battigia./ Qui/ non piove./ E l’acquasantiera del cielo/ degrada/ a lamiera/ di rugginosa asciuttezza."

Eppure sembra esserci, anche nei versi indirizzati alla resa, una sorta di accorata, quanto criptica, fondente ed ermetica, supplica alla salvezza, come se l'autore avesse, comunque, l'aspirazioni di liberarsi da quella parte d'inferno che racconta con la consapevolezza, cruda e tranciante, che la "polvere ha un solo destino": "forse immagini/ le mie fornaci alimentate da un vento/ che ride della sua scellerata giovinezza./ Non conosci il mio farmi di pietra/ lungo mille insolubili anni./ Il mondo non mi appartiene:/ al mondo consegno l’assedio/ irrisolto/ dei miei larghi fianchi di cattedrale pagana./ I miei agnelli non attendono oro/ e al rame preferiscono il verde dell’ossido/ al lungo sonno del metallo/ la transumanza dell’eresia incolta./ Portami le tue ginocchia/ trafugate dai confessionali dell’offerta penitente/ Portami le vene del peccato/ gonfie del sangue che bruceremo./ La polvere ha un solo destino"

Per queste, ed altre ragioni che lascio alla percezione lettore, capire e comprendere pienamente la poesia di Luca resta comunque un "delicato mistero" che ci avvolge e stravolge, ogni volta, nelle dimensioni più intime, sottili, quasi straniere del nostro essere. La poesia è tenace e accattivante, è vibrante ed emozionante, è livida, rossastra ma anche pallida, smunta, carnale, insomma è tesi ed antitesti fuse in un solo canto. Del resto la vita, o quello che gli somiglia, non è lineare, non può esserlo, sarebbe piatta, apatica, inconsistente. Ed è forse nella contraddizione della vita che è insita la chiave per svelare questo enigma, ma noi (forse) non siamo Edipo... e Luca non pretende di essere la Sfinge. 

non occorre uno spintone del cielo
perché io cada sulle ginocchia
e innalzi una preghiera di polvere

Mi dicevi, ed io capivo
le vene del cardo e dell’elicriso.
Capivo il senso dei miei cammini avventurati
presso i sentieri dell’anima sterrata
il genuflettermi in levare, presso i santuari della rupe.

Straniero al ghermire delle guglie
preteso dai gironi dei tarantolati che non svettano
alla destra del padre di alcuno. Io, questuante
sul dorso di sagrati di sterpi
intendo chiaramente il verso del dio pecora
e accolgo il suo bivacco.

Qui la materia si scaraffa indivisa, alla mia tavola
E posso rendere all’utile quel che è dell’utile
per il setaccio esatto dell’essenziale.


...e allora sarà forse nel "tarlo" - in quell'essere, infinitamente piccolo, che tuttavia riesce a corrodere e, radicalmente, distruggere e digerire elementi duri, pesanti, immangiabili per qualsiasi altro essere vivente - che troveremo la "retta via" per interpretare alcuni degli "enigmi" interpretativi della poetica di Luca Crastolla? 

Lo scopriremo presto...


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