martedì 17 giugno 2025

Encantada - Un racconto di Elisabetta Bo


Menzione d'onore al Premio Internazionale per la poesia "Rodolfo Valentino - Sogni ad occhi aperti" - Organizzato dall'Associazione "Il mondo delle Idee" - Tema L'Infanzia -

Anastasia era una bambina “particolare”, a cominciare dal nome, che le aveva appioppato il padre, stimato funzionario dell’Italgas e uomo di antico stampo, con nostalgie monarchiche e sinceramente anticomunista. Aveva avuto la meglio dopo qualche litigio sulla moglie Cristina, che voleva chiamarla Chiara.”Perché vuoi impormi questo nome così altisonante e anacronistico? Mi vuoi forse punire, avendo dato alla luce di nuovo una femmina?” chiedeva Cristina. “Ma stai scherzando? - ribatteva Filippo - per chi mi prendi? Anastasia è colei che rompe le catene, è la resurrezione… In questi anni di grande fermento, ma anche a rischio di pericolose derive, il nome Anastasia sarà un segnale di rinascita, nel rispetto della tradizione”.

In effetti, A. di “Chiara” aveva ben poco: capelli corvini e folti, che le incorniciavano il volto paffuto fin dalla nascita, e due occhioni neri che fissavano i presenti e soprattutto gli interlocutori con intensità imbarazzante, quasi volessero penetrare nella profondità della coscienza altrui. Era la seconda arrivata dopo Barbara, una ragazzina di 10 anni docile, amabile e perfetta in tutto, che ovviamente pativa un po' la sorellina, colpevole di averle scalfito lo scettro della primogenitura.

Il primo paesaggio su cui aveva posato gli occhi e che l’aveva cullata con la sua bellezza struggente era quello del Canavese: la sua famiglia si era stabilita a R. alla fine degli anni ’50 e abitava in una grande casa di proprietà di una famiglia numerosa, dotata di giardino, pergolato, pollaio, stalle per le mucche, gabbia dei conigli e di un vasto prato, dove gli uomini di casa, compreso Filippo, si divertivano a sparare al tiro a segno. La casa, solida ed essenziale nella struttura, si trovava quasi al limitare del paese, ed era prossima ad una vegetazione lussureggiante, che si inerpicava sulla collina, sovrastata dal cimitero.

Per A. il paese era un mondo tutto da scoprire, fonte di emozioni e sorprese sempre nuove: la bambina era una spugna, le percezioni in lei si dilatavano, si moltiplicavano e si arricchivano, generando emozioni cangianti, che ritornavano a distanza, soprattutto nei sogni. A. adorava dormire – il sonno per lei era come una seconda vita, in cui disfaceva e rifaceva tutto quanto aveva vissuto nella giornata. “A., sei di nuovo incantata? Forza, ritorna tra di noi…questa bimba è proprio venuta dalla luna” diceva spesso  mamma Cristina, una bella signora super efficiente ed organizzata, dallo sguardo con un che di severo e triste, che nascondeva un mare di emozioni. Ad A. capitava infatti abbastanza spesso di estraniarsi dall’ambiente circostante – lei stessa diceva “mi sono incantata”. Non erano assenze epilettiche, la bambina era vigile e presente, ma viveva per pochi istanti in un mondo parallelo, o forse superiore, da cui ritornava rinvigorita e più lucida. Forse era una sua forma di meditazione inconsapevole.

A. giocava per la maggior parte del tempo: il gioco per lei era la dimensione più importante e più seria della vita, in cui esprimeva tutte le sue emozioni e anche la sua parte oscura e inconfessata. Era una sorta di continua rappresentazione teatrale, in cui A. giocava mille ruoli, e, tirannella, si arrabbiava se i suoi piccoli amici “uscivano dal gioco”, ossia dalla parte. In questa frenetica attività ludica era fondamentale il rapporto con la natura: coinvolgeva le piante, che abbracciava e a cui parlava come se fossero suoi amici, gli animali tutti, dalle formiche che osservava interessatissima mentre correvano portando pesi enormi, alle galline ovaiole delle cui potenzialità non si capacitava, alle mucche con i grandi occhi dallo sguardo profondo e talora interrogativo, che la imbarazzavano perché non sapeva come rispondere loro. Questa era una delle sue prime sofferenze: non poter comunicare con le piante e gli animali, non poter decifrare i codici della loro comunicazione, perché A. era certa di questa loro potenzialità.

E soprattutto, il protagonista dei suoi giochi era Rebel, il cane nato qualche mese prima di lei nel lontano Messico ed arrivato via mare con il mitico marito di una dei proprietari, commerciante e grande viaggiatore. Un incrocio tra un San Bernardo e un Collie, bianco candido pezzato di nero, un San Bernardo ingentilito ed elegante nell’incedere, con cui aveva instaurato da subito un legame fortissimo. Passionale, senza paura e senza macchia, Rebel si gettava a capo fitto nelle imprese più disparate, e non raramente ingaggiava lotte con i cani prepotenti del circondario. Con i bambini, e in particolare con lei, era dolcissimo, e qualche volta le permetteva di cavalcarlo. Ma solo per brevi tratti.

A completamento e coronamento del gioco c’erano le fiabe. Anche queste erano un’occasione per estraniarsi dalla banalità del mondo reale, soprattutto se raccontate da personaggi carismatici, come certi anziani o la “tata” Onorina. A. aveva una sorta di venerazione rispettosa nei loro confronti: inconsciamente, sentiva la saggezza e la sofferta esperienza di queste biblioteche viventi.

E poi, c’era Onorina, la più brava a raccontare fiabe. Era comparsa quando la bimba aveva tre anni, assunta da papà Filippo intenerito dalla sua storia: aveva da poco perso il  marito sposato un anno prima, stroncato da un infarto mentre lavorava nei campi, lasciandola vedova senza figli. La sua vita precedente non era stata meno difficile: un padre alcolista e violento, una madre dolcissima e grande lavoratrice, miseria, stenti, vite di familiari a lei tanto cari stroncate precocemente. Ma Onorina aveva in sé una forza straordinaria, nutrita da una fede in Dio incrollabile. E quando vide A. per la prima volta, pensò che quella bimba le era stata mandata dal Signore. Certe volte non riusciva a trattenere le lacrime. Un giorno A., turbata da queste oscillazioni dell’umore e da questi improvvisi pianti, le disse: “Onorina, non piangere più. Vedrai, dirò due “L’eterno riposo”, uno per te e uno per tuo marito”. Onorina scoppiò a ridere di gusto e abbracciò forte la bambina: era come se un venticello primaverile frizzante e impertinente avesse spazzato tutte le nubi. A. ascoltava incantata le fiabe di Onorina, incomparabili rispetto alle fiabe della tradizione, e si chiedeva da dove la donna attingesse questa creatività prorompente. Situazioni incredibili, colpi di scena, amori e passioni travolgenti, magia, e anche qualche situazione perturbante, che alimentava la fantasia della bambina, che già da sé andava a briglia sciolta.

Onorina e Rebel rimasero indissolubilmente legati agli occhi di A. da quando sopraggiunsero i primi autunno e  inverno dopo l’assunzione della tata. Onorina abitava in un paese distante da R. più o meno cinque chilometri. La strada era sterrata e piena di buche, correva in mezzo alla vegetazione, ai tempi non era illuminata e in vari punti molto solitaria. Quando Onorina tornava a casa col suo motorino incominciavano ad allungarsi le ombre della sera. La donna aveva paura. E fu così che Rebel si lanciò al seguito del motorino immancabilmente ogni sera, con ogni tempo atmosferico, a maggior ragione con la neve e con il ghiaccio, a proteggere quell’essere fortissimo e fragile. Andata e ritorno fino alla primavera successiva.

Un giorno Rebel scomparve. Qualche sera prima si era scontrato con vari cani proprio vicino alla casa. La lotta era durata a lungo, con abbaiamenti furiosi e ululati, che avevano svegliato tutto il quartiere. Filippo aveva lanciato mele dalla finestra per sedare i bollenti spiriti della cagnara. Rebel ne era emerso con i suoi amici un po' malconcio, ma vittorioso. Dopo la scomparsa del cane A. era agitatissima,  e con lei la famiglia dei proprietari, gli inquilini e Onorina. Gli uomini di casa setacciarono il circondario, ma niente. Finché, dopo 3 giorni, Filippo soccorse il cane, distrutto, che si trascinava a un centinaio di metri dalla casa. Morì poco dopo, probabilmente avvelenato da un vicino. A., che aveva rivisto solo per pochi istanti Rebel quasi cadavere, perché allontanata immediatamente da Onorina, rimase impietrita. Per giorni e giorni fu come assente. Non una lacrima. Non parlava e rifiutava il cibo. Finché una sera si levò un vento fortissimo. Tutti gli animali della casa, mucche, gallo, galline e conigli incominciarono a lamentarsi insistentemente. Proprietari e inquilini si precipitarono in giardino e nelle stalle, comprese mamma Cristina, A. e Onorina. Nella confusione generale A. uscì non vista nella radura del tiro a segno e vide sbucare tra gli alberi e lanciarsi di gran corsa verso di lei Rebel vitale e in gran forma, gagliardo come nei giorni migliori. Allora corse verso di lui con le braccia spalancate e svenne. Si risvegliò tra le braccia della mamma e proruppe in un pianto inarrestabile e inconsolabile, ma liberatorio.