lunedì 23 dicembre 2024

A proposito di “Versetti frammentari” di Luciano Nigro

Da divoratrice di libri (lo so è un brutto termine ma non ne trovo altri ugualmente esplicativi) posso dire che ci sono quelli che si leggono, quelli che si ascoltano, quelli che si vivono (per forza di cose evito di parlare di quelli che si chiudono dopo la prima pagina). 

Dunque dicevo a proposito dei libri per introdurre il lavoro di Luciano Nigro che in “Versetti frammentari” riesce a unire queste tre categorie che qualificano in primis il testo e poi chi lo legge. Ci troviamo di fronte (usare il mi, sembra riduttivo) ad una partitura esistenziale che dei frammenti fa materia unica, non disarticolata, ma capace di legarsi e di pulsare prendendo come spunto il ritmo della vita. Leggerlo è come entrare in una stanza piena di specchi che non riflettono solo il nostro volto, ma frammenti di un’umanità universale. Sin dalla prima pagina, ho avuto la sensazione di essere accolta da una voce intima e collettiva, in controcanto e, al tempo stesso, come se ogni verso fosse appena sussurrato da una persona che comprende l’essere umano e le sue molteplicità. Questo non è un libro di poesie, ma una mappa per navigare nelle acque incerte del tempo, dell’amore e della perdita. È come trovarsi davanti a un quadro di Rothko: semplice all’apparenza, ma in grado di far vibrare corde che non sapevamo di possedere. 

Con questa raccolta, Nigro non pretende di offrirci risposte né consolazioni ma ci invita, piuttosto a perderci, a lasciarci toccare dalla forza evocativa della parola e dalla (chiamiamola) musicalità che l’accompagna, ricordandoci, come diceva Rilke, che “la bellezza non è che il principio del tremendo.”

La lettura diventa così un atto di scoperta, un rituale di immersione nella complessità dell’essere. Nigro ci dà frammenti, e sta a noi lettori completare il disegno. In questo risiede la sua forza e la sua modernità: il libro non è una narrazione chiusa, ma un’esperienza viva, un campo aperto dove ognuno può ritrovare i propri viaggi, i propri amori, le proprie malinconie.

Iniziamo il viaggio

La prefazione di Silvana Pasanisi (curatrice della collana) introduce questa raccolta come un atto di circumnavigazione: un corpo poetico che, come una terra da scoprire, rivela i suoi contorni solo a chi si avventura nelle sue profondità. Qui la poesia non è solo parola, ma un modo di abitare il mondo, un luogo in cui emozione e pensiero si incontrano, come sosteneva Heidegger: “Il linguaggio è la casa dell’essere.” Nigro sceglie la strada della semplicità, che è tutt’altro che un rifugio: è una sfida. Ogni verso si presenta come un frammento di verità, una scheggia di luce che squarcia il velo delle apparenze. La parola poetica non si nasconde, non si compiace di artifici, ma si offre nuda, diretta, come una confessione. Ricorda le parole di Antoine de Saint-Exupéry: “La perfezione non si raggiunge quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più nulla da togliere.” È questa essenzialità che rende la poesia di Nigro un canto universale, capace di risuonare nel cuore di ogni lettore.

La silloge si articola in tre sezioni: un viaggio di parole, l’amore come forza vitale, e la malinconia delle miserie umane. Questi tre momenti non sono separati, ma interconnessi, come i movimenti di una sinfonia, ciascuno con il proprio tema, ma parte di un’unica esperienza.

Il viaggio è il motore primo di questa raccolta. È un andare che non conosce sosta, un impulso a decodificare il mondo e sé stessi. Nei versi si avverte l’eco di un cammino interiore, un pellegrinaggio che attraversa paesaggi fisici e mentali. C’è una tensione verso l’orizzonte, un desiderio di oltrepassare i confini del visibile: “Lo sguardo va oltre la luce forte all’orizzonte / planando tra ripidi pensieri e sinuose curve d’asfalto.” Qui riecheggiano le parole di Nietzsche: “Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante.” Il viaggio non è solo fuga, ma creazione.

La seconda sezione è un canto dedicato all’amore, non come certezza, ma come mistero inesauribile. L’amore è il motore dell’essere, la forza che trasforma e dà senso. È “sguardo verso l’oltre,” una tensione verso ciò che sfugge, ma che lascia tracce profonde. I versi di Nigro sanno cogliere la fragilità e l’intensità del sentimento: “E manca il vino se manca il sangue nelle vene / le armonie di quella canzone triste dentro me.” La poesia diventa così un luogo di risonanza, in cui il lettore ritrova le proprie esperienze. Come diceva Erich Fromm: “L’amore è l’unica risposta sana e soddisfacente al problema dell’esistenza umana.”

L’ultima sezione ci conduce nel territorio della malinconia, un sentimento che non si limita al dolore, ma diventa consapevolezza. È un’accettazione del limite, del cambiamento, della perdita. “Stai seduto e respira / tanto altro non puoi fare” scrive Nigro, esprimendo un invito alla contemplazione del tempo che scorre, alla capacità di sostare nella propria vulnerabilità. Qui sembra riecheggiare l’insegnamento di Kierkegaard: “La vita può essere compresa solo all'indietro, ma deve essere vissuta in avanti.” La poesia si fa allora meditazione, un modo per abitare il presente senza fuggire.

Versetti Frammentari è incipit di un viaggio che non offre mappe né destinazioni certe, mentre si sentono “evocanti” emozioni autentiche, senza mai scivolare nella retorica. C’è una bellezza essenziale, quasi scarna, che ricorda il minimalismo di certi componimenti giapponesi: ogni parola è necessaria, ogni silenzio è eloquente. La tonalità musicale che permea la silloge è un elemento che sembra danzare, creando un ritmo che è tanto emotivo quanto intellettuale. Mi è venuto in mente ciò che Kandinsky scrisse sulla sinestesia: “Il colore è il tasto. L'occhio, il martelletto. L'anima, il pianoforte con molte corde.”

Eppure non si presta ad una lettura da affrontare con superficialità. È un’opera che richiede lentezza, attenzione, presenza. Nigro ci consegna una poesia che apre spazi: di riflessione, di emozione, di risonanza interiore nella consapevolezza che sia un viaggio da intraprendere verso la composizione di un mosaico più grande, ogni parola densamente versificata aggiunge un tassello a quell’enigma che chiamiamo vita.

Se volessimo sperimentare la costruzione di un “poema” composito facendo una sorta di “cernita” o “spesa” tra le parole che compongono i versetti avremo la sintesi del viaggio:

Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo, 

non è che un sogno dentro un sogno. 

Dorsali scoscese affondano nel mare chiaro, 

rotaie arrese a terra verso un binario morto. 

Seduto al buio di un giorno qualunque sia, 

mezza Luna può bastare per far luce al mio andare. 

La linea leggera sottile tocca il foglio, 

lascia andare ogni pena, ogni gioia, ogni cosa. 

Sole giù per la discesa a mare, 

ho perso per un attimo la traiettoria. 

Un foglio mente, trasparente, non riflette emozioni. 

Quei tuoi passi leggeri accarezzano sassi, 

suoni lontani note classiche nel vento. 

Mentre ascolto il suono delle mie pulsazioni, 

bolle di respiri piene di sussurrate parole, 

il silenzio che risuona forte 

siamo cani fermi sul bordo della strada. 

Bruciavano quei tagli sotto i miei piedi scalzi, 

la luce sempre accesa la notte come il giorno. 

Lo stile dell’opera intreccia immagini potenti e simboliche, dove il sogno, la memoria e il tempo si sovrappongono alla realtà. Potremmo azzardare che si tratti di un collage lirico, che mescola suggestioni oniriche ("non è che un sogno dentro un sogno") con paesaggi terreni e ricordi intimi. Il ritmo alterna momenti di fluidità musicale a pause drammatiche, conferendo al testo una struttura oscillante, quasi ipnotica. Filosoficamente, se ci leghiamo ai primi versi, notiamo il tema predominante nel contrasto tra il senso effimero dell'esistenza e il desiderio di eternità. La vita viene descritta come un percorso, un viaggio attraverso limiti fisici e mentali, un continuo confrontarsi con illusioni e verità. La metafisica del sogno si intreccia al realismo del dolore, creando una tensione filosofica che riflette il senso di incertezza ontologica. 

A livello psicologico, l’opera esplora emozioni profonde: il senso di perdita, il rimpianto, la ricerca di significato. Si evidenzia un costante movimento tra introspezione e desiderio di evasione. I "binari morti", la "nebbia" e la "luce sempre accesa" rappresentano metafore di stati mentali complessi, che spaziano dalla stagnazione alla speranza. La dualità tra immobilità e viaggio emerge come simbolo del conflitto interiore dell’uomo moderno. 

Ma se la poesia è una nascita, una creazione lenta (a volte immediata) della mente, come se fosse un germoglio che si apre in fiore, accade, talvolta che la essenza possa essere catturata in un solo petalo, in un singolo verso. Quando questo accade, la poesia si trasforma, diventando aforisma. In quel frammento, il tempo si comprime e il pensiero si concentra, lasciando dietro di sé l'eco di un'intera riflessione condensata in parole precise, essenziali.

L'aforisma è il punto d'incontro tra la fugacità dell'istante e l'eternità del pensiero. La poesia, che si nutre di immagini e sensazioni dilatate, si ritira nel silenzio di un'unica affermazione, tanto potente quanto definitiva. In quel momento, la parola diventa una scintilla che illumina l'oscurità con una chiarezza che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

Probabilmente l’aforisma diventa la forma più pura della poesia, quella che non si perde nella vastità dell'esperienza, ma che si erge come un monito, un pensiero che dura, che rimane, e che parla in un respiro breve ma potente…e, a mio avviso, in questo libro la poesia riesce a diventare (appunto) aforisma.

Per questo ho selezionato alcuni versi (solo a mo’ di esempio) che ben possono vantarsi di esserlo (ma ve ne sono diversi e vi invito a cercarli, a scovarli, sottolinearli):

"Le stelle fanno luce che nel buio tu non vuoi, ma loro sono accese oltre i desideri altrui"

L’autore dà corpo astrale ma concreto ad una visione delle stelle come simbolo di qualcosa che esiste indipendentemente dai desideri e dalle aspettative umane. La luce delle stelle è immutabile e distante, mentre il buio rappresenta l'ignoranza o l'incomprensione. C'è un contrasto tra il desiderio umano (di controllo o di cambiamento) e la realtà universale (la luce delle stelle), che si eleva al di sopra delle aspirazioni terrene.

"La vita è un cerchio che non si chiude mai, una linea infinita per il tempo che avrai"

Qui, invece, rappresenta il ciclo che non ha fine, una continua espansione senza un punto di arrivo. L'immagine del cerchio evoca l'idea di un perpetuo ritorno, ma è la "linea infinita" che suggerisce un'infinità di possibilità e un flusso continuo, senza conclusioni definitive. La riflessione sulla "linea infinita" può anche collegarsi al tema dell'esistenza umana e della sua ricerca di senso in un tempo che non sembra avere fine.

"Vola, vola via lontano e prima che cali il buio trova un riparo"

Lo slancio è all'evasione e alla ricerca di salvezza prima che arrivi l'oscurità, che potrebbe simboleggiare la morte, il fallimento o una difficoltà insormontabile. Il verbo "vola" suggerisce un desiderio di fuga dalla realtà, ma anche la necessità di trovare un rifugio prima che il buio prenda il sopravvento. C'è un conflitto tra il desiderio di libertà e la consapevolezza dei pericoli che l'oscurità può portare.

"Un respiro è tutto e niente, nella notte dei pensieri nessuna luce risplende"

Ecco il senso di impotenza e smarrimento. "Un respiro è tutto e niente" suggerisce che, nonostante la vita si riduca a qualcosa di così essenziale come un respiro, essa può sembrare insignificante di fronte alla vastità della notte e dei pensieri che non trovano mai chiarezza. La notte senza luce implica una solitudine profonda e una riflessione interiore che non porta a nulla di illuminante.

"Vivo sulle sponde di un fiume, vedo passare rami secchi e foglie cadute"

La presenza del fiume evoca l'idea del flusso della vita, ma il fatto che l'autore osservi "rami secchi e foglie cadute" suggerisce un senso di stagnazione, di morte o di tempo che scorre senza più rinnovamento. Il fiume potrebbe essere metafora di un cammino esistenziale che appare privo di futuro, segnato dalla decadenza e dalla fine di un ciclo naturale.

"Accarezzato dalla polvere nei riflessi, in ombra un profumo di fiori freschi"

Versi capaci di creare una tensione tra la polvere (simbolo di desolazione e del tempo che passa) e il "profumo di fiori freschi", che porta con sé una sensazione di bellezza e freschezza. La polvere nei riflessi suggerisce qualcosa di perduto, di non più vivo, ma il profumo dei fiori aggiunge una dimensione sensoriale che sembra contrastare con la tristezza dell'immagine, suggerendo una bellezza sfuggente, quasi nostalgica.

Ed ancora il libro di Nigro esplora temi come l'infinito, la ricerca di significato, la solitudine esistenziale e la tensione tra luce e oscurità con un carattere molto pregnante di introspezione psicologica e filosofica, collegati ad un forte senso di perdita e di evasione dalla realtà, ma anche di una bellezza malinconica che emerge dalle riflessioni sulla vita e sull'amore.

Grazie ad una scrittura, a tratti simbolica e surreale, si rivolge alla parte più profonda e vulnerabile dell'animo umano, esplorando il dolore, il desiderio e la ricerca di senso in un mondo che sembra sfuggire alle definizioni e alle risposte.

Ma l’amore dove sta?

Forse è condensato tutto nella poesia "L'amore è temporale" e suggerisce una concezione pessimistica, come qualcosa che non dura, legato al tempo, alla sua inevitabile transitorietà perché, proprio come la tempesta, è destinato a svanire, lasciando dietro di sé solo cicatrici, confusione e dolore.

Prendiamo spunto dalle immagini che da questa ne derivano: Fiamme libere e fiumi in piena, evocano la forza e la potenza incontrollabile delle emozioni. Le fiamme e le acque tumultuose sono simboli di passione e di emozioni travolgenti che non seguono una logica. La loro forza è capace di "spaccare la valle" e invadere ogni angolo dell'animo umano; cercando le parole senza pretesa nel vuoto, evidenziano la difficoltà di esprimere i propri sentimenti, l'assenza di certezze in un mondo vuoto di significato, dove le parole sembrano non bastare a comunicare l'essenza di ciò che si prova; scroscianti pensieri e lacrime, suggeriscono fragilità, vulnerabilità e la dolorosa consapevolezza della propria impotenza; volti senza occhi, è uno dei simboli più potenti della poesia e rappresentano persone che, pur essendo fisicamente presenti, sono incapaci di vedere o di comprendere veramente se stessi e gli altri. Sono esseri persi, senza visione interiore, incapaci di percepire la profondità dell'amore o del mondo che li circonda; fiori strappati in vasi di cristallo, qui c’è bellezza e purezza che si muovono nella fragilità dell'amore che, come il fiore reciso, è destinato a morire; il grido nel silenzio si fa spazio in un mondo incapace di ascoltare i dolori altrui e “potente" che riecheggia per dimostrare la sordità della società.

Ci troviamo, quindi, davanti all’amore come un "abisso", un luogo profondo e oscuro, dove l'emozione e la sofferenza si mescolano per rimandare alla inevitabilità della fine dell'amore, che si consuma, veloce e violento come un temporale. L'abisso, in questo contesto, non è solo un vuoto, ma anche un luogo di riflessione dove l'amore è un'energia che, seppur intensissima e potente, si scontra con la realtà della sua transitorietà. 

Per finire

I frammenti di Nigro riflettono una profondità emotiva e filosofica che si intreccia strettamente con la forma aforistica. Anche il titolo esprime la contestualità del mio pensiero, un concetto che sfida il tempo e la linearità della narrazione, come se ogni singolo passaggio racchiudesse un’intera riflessione esistenziale. Non so quanto volutamente ricercato ma la lirica diventa, non solo un'espressione emotiva, ma una sintesi di visioni che trascendono l’esperienza personale, arrivando a una dimensione universale.

"Quello che resta", ad esempio, è un inno alla transitorietà e alla condizione umana, espressa con versi che, pur nella loro linearità, si caricano di una forza che richiama la concisione di un aforisma. La riflessione su ciò che resta – su come “ho raccolto quello che resta del mio vuoto” – apre alla filosofia del nulla, del vuoto esistenziale che permea ogni individuo, come se ogni esperienza fosse destinata a svanire. “A perdere sono sempre il vincitore” introduce un paradosso che mette in discussione il concetto di successo e fallimento, suggerendo che la vittoria è un’illusione. Inoltre, l’addio che appare “un taglio netto spietato” sembra evocare l'idea di una separazione definitiva e ineluttabile, un tema che ritroviamo nella filosofia esistenzialista, dove la morte e la solitudine sono riconosciute come condizione permanente dell’esistenza umana. Qui la poesia si concentra nell’immediatezza del dolore e della perdita, senza offrire un’illusione di speranza o riscatto, ma piuttosto accettando la realtà così com’è.

Lo stesso ragionamento si può fare per "Gli sguardi nel vuoto". Qui si materializza una riflessione autentica sull’incomunicabilità e sull’incapacità di trovare senso nel flusso incessante della vita. I versi, come “un muro nel mezzo della promessa eternità” e “oltre i ricordi non ti concede di proseguire”, si allontanano dalla linearità narrativa per arrivare a un pensiero condensato che riflette sulla perdita del significato e sull’impossibilità di trovare un rifugio nel passato. Il concetto di tempo come sfuggente e ineluttabile è ulteriormente enfatizzato da “la vita sfugge veloce” e dalla metafora della “clessidra mai più capovolta”, che suggerisce un destino irrevocabile, che nessuna azione può invertire. Questo verso, in particolare, riecheggia il concetto di fatalismo tipico della filosofia esistenzialista, dove il tempo è visto come una forza che sfugge al controllo umano, senza possibilità di salvezza.

"Sbagliato" racchiude la contraddizione in un aforisma che si ripete come un mantra. Il paradosso di “come la neve d’estate” e di “freddo al sole” evoca l’impossibilità di conciliare opposti, simboleggiando una condizione esistenziale dissonante. Le immagini del cuore rotto e delle strade “a senso unico deserte” rinforzano l’idea di un cammino solitario e senza ritorno, mentre l’incongruenza di “romantiche speranze” nelle “tasche piene” suggerisce un fallimento continuo e inevitabile. La contraddizione di “sbagliato” diventa il simbolo dell’esistenza stessa, che si sfalda sotto il peso delle proprie ambiguità.

Potremmo terminare questa indagine (parziale) dicendo che Nigro è attento a indagare profondamente e, aggiungo, crudelmente sulla condizione umana, una riflessione sulla solitudine esistenziale e sull'effimero della vita. Questi temi, che sono anche al centro delle opere di poeti e pensatori come Franz Kafka, Michel Houellebecq, Emil Cioran e Charles Baudelaire, emergono con forza attraverso un linguaggio simbolico e aforistico che scava nelle pieghe più oscure della realtà. Nigro esplora il vuoto e l'assenza, tracciando una linea di continuità con i filosofi del nichilismo e dell'esistenzialismo, che hanno reso il senso di impotenza e di sofferenza una condizione fondamentale dell'esperienza umana.

Nei suoi versi, come in quelli di Kafka, la realtà appare frammentata e incomprensibile, dove l'individuo è costantemente in lotta con le proprie interiorità e con un mondo che sembra disinteressato o ostile alla sua esistenza. L'immagine del "vuoto" che attraversa molte delle sue poesie richiama l'idea di un'inquietante assenza di senso, simile a quella che troviamo nelle opere di Cioran, dove il pensiero si confronta con la vacuità dell'essere e la natura provvisoria di ogni certezza. La sua riflessione sul dolore, sull'incomunicabilità e sull'illusione di una perfezione irraggiungibile è, inoltre, evocativa di Baudelaire, nella tensione tra il desiderio di sublimazione e la consapevolezza della caducità e della corruzione del corpo e dell'anima.

Nigro si distingue però anche per un aspetto che richiama l'ironia e il cinismo di Houellebecq: in alcuni versi, infatti, sembra suggerire un atteggiamento quasi distaccato e rassegnato di fronte alla sofferenza, come se la riflessione sul dolore fosse un'inevitabile parte della sua condizione (tuttavia si tratta di un distacco mai privo d’introspezione, capace di farsi strada tra i contrasti emotivi e tra il desiderio di rifiutare il mondo e la necessità di confrontarsi con esso).

La capacità dell’autore di condensare pensieri complessi in immagini potenti ed aforistiche richiama una delle caratteristiche più rilevanti della sua scrittura: la sintesi, che si fa veicolo di una riflessione filosofica tanto intensa quanto immediata. Ogni verso invita il lettore ad un confronto diretto (face to face) con tematiche di respiro universale quali la finitezza dell'essere, la transitorietà del tempo e la lotta contro un destino che appare ineluttabile…

martedì 17 dicembre 2024

A proposito di "Errata Complice" - Stefania Giammillaro


Partiamo dal “viola” dalla scelta della copertina: un colore di ciò che sfugge alla logica del visibile, il respiro sospeso tra l’alba e il crepuscolo, quando il mondo trattiene il fiato e tutto sembra possibile. Una vibrazione antica, un’eco di magia primordiale che si aggira silenziosa e che porta con sé il segreto di un abbraccio del rosso febbrile insieme al sussurro gelido del blu siderale, mescolati in alchimia per dare vita non solo ad un colore, ma una soglia — il sipario che separa il reale dall’ineffabile, un filo sottile che danza tra gli astri e le radici profonde della terra.

Viola che vibra come una lanterna a guidare i viandanti perduti nei labirinti dell’anima. È il mormorio delle sibille, il riflesso che increspa l’acqua nei pozzi che custodiscono i sogni dimenticati, nella sua essenza vive un arcano che risuona con le corde più profonde dello spirito, come se contenesse il canto di mondi che non abbiamo mai visto, ma che riconosciamo. In copertina, diventa un talismano: un richiamo per chi ha il coraggio di attraversare la soglia, di farsi complice dell’errore, di abbandonare la strada sicura per immergersi in un mare di parole ribelli, sature di bellezza selvaggia. È la stoffa delle visioni nascoste nelle pieghe della realtà, un colore che non smette di sussurrare, anche quando tutto il resto tace, è un invito, un portale che si apre su un mondo dove gli errori sono ferite che illuminano e dove la poesia si aggira, ora carnale, ora eterea, errando e cospirando con chi ha il coraggio di ascoltarla.

Ed ancora: Viola come livido, testimone silenzioso di mani che non conoscono il perdono. È un'eco strozzata che risuona nel ventre, quando le parole si sgretolano e lasciano il posto al vuoto. "il viola è l'ultimo colore della luce, un confine tra la vita e il mistero" ed aggiungo un avviso di transito, un confine che non si attraversa indenni; memoria di un urto, un segno che non si cancella, ma che si aggrappa alla pelle come una cicatrice invisibile, un promemoria dell’assenza. È la ferita della dignità, narrata da Chagall quando diceva: "Il viola mi ricorda che l'anima si tinge del dolore più profondo, e tuttavia non muore". Quando il corpo diventa complice della violenza: non si spezza, ma si piega, si arrende, tracciando mappe di dolore lungo le vene, ecco una cartografia d’inferni che l’anima attraversa senza mai trovare una fine. Eppure, anche nel viola c’è una promessa: il colore del tramonto, di una luce che penetra le pieghe del giorno, che brucia senza chiedere perdono, senza arretrare davanti alla colpa. 

Qualcuno diceva: "Nel viola c’è sempre una ferita che si trasforma in forza", così in questo libro  "il viola spinge verso l’infinito con l’umiltà del dolore"*, per dirla con Kandinsky. 

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Ed ecco, nella poesia di Stefania Giammillaro, l’incipit s’innesta nel solco di carmi che mettono a nudo la ferocia dell’esistenza, il dolore della memoria mentre l’autrice non si limita a descrivere l’atmosfera, ma diventa cifra stilistica, strumento di indagine, lente d’ingradimento di microcosmi privati che diventano macro ed universali. La struttura della parola si accompagna ad immagini drammatiche tali da generare un lessico carico di corporalità ricucita di trame violente – coltelli, spine, stimmate, grumi di sangue. Ci troviamo di fronte ad un “teatro mentale” che riecheggia (probabilmente) una dolente esperienza autobiografica. Parole che dicono e contraddicono, si muovono tra ricordi viscerali e frammenti di una realtà trasfigurata, rendendo il non-detto e il simbolico centrali nel dialogo col lettore.

La silloge si articola in tre sezioni, tracciando un percorso di caduta e risalita. “Il peccato” e “La colpa”, che riecheggiano la struttura morale della tragedia greca, culminano in una liberazione che trova eco nella figura di Antigone, simbolo della superiorità della legge morale e della ribellione al patriarcato. Parallelamente, il richiamo ai grandi russi Tolstoj e Dostoevskij evidenzia una tensione etica che riflette il rigore del cattolicesimo di fronte al male. Il cuore pulsante è un’analisi del rapporto amoroso insano, dove la violenza – verbale e fisica – diventa lo specchio di una dinamica di dominio. L’amante, oggettivato e disumanizzato, si muove in un intreccio di dipendenza e sofferenza. Qui la poetessa sembra incidere le sue parole su una memoria ancora sanguinante, restituendo al lettore una litania di tormento e supplica, che si risolve infine nel perdono e nell’auto-perdono.

La chiusa della silloge, un epilogo in dialetto siciliano, recupera la purezza dell’infanzia e la forza emancipativa della tradizione. Il dialetto diventa allora il linguaggio della redenzione e della libertà, in contrapposizione alle gabbie sociali che condannano e disprezzano chi si ribella. È qui che il “pesce rosso”, metafora della donna costretta a guardare il mondo da un “vetro di roccia”, trova la forza di riscrivere il proprio destino: “Solo la rosa/ può combattere le sue spine”.

Una poetica confessionale e universale

La scrittura di Giammillaro si colloca nell’ambito della poesia confessionale, vicina a voci come Sylvia Plath e Anne Sexton, da cui eredita la tensione formale e il coraggio di esplorare il dolore. Tuttavia, mentre la Sexton sfida la tradizione religiosa, la poetessa siciliana la utilizza come ancora e punto di ripartenza. La preghiera canonica dell’“Atto di dolore” diventa allora la chiave per comprendere una religiosità che non nega la fragilità umana, ma la sublima.

Errata Complice, titolo della silloge, sottolinea la consapevolezza di una responsabilità condivisa e il desiderio di redenzione, riconoscendo di essere stata complice della propria prigionia, troppo a lungo tollerante, per trasformare, quest’ammissione in un manifesto di libertà, con un alto valore testimoniale capace di offrire a chi vive situazioni simili uno specchio e una via di fuga.

Proviamo a fare un esperimento che spesso porta frutti particolarmente preziosi, ad estrapolare dalle sue parole un “poema o canto composito” che rappresenta, quasi, una sorta di sintesi “complice” delle principali tematiche presenti

Lo facciamo usando i primi versi di alcune liriche…

I
Questa lugubre mania di vivere,

questo recondito scherzo del respiro,

ti trascina, anima fragile, nel vuoto.

 

II

Viaggiano le perplessità dei giorni,

lungo crepe che odorano di pianto,

mentre il tempo si strappa tra i denti.

 

III

Ai sensi di una legge non scritta,

si proibisce alla pioggia di nascere,

mentre il mare ulula fame ancestrale.

 

IV

Nascondimi al volo dei gabbiani,

inginocchiami alla colpa muta

del tuo abituale mentire.

 

V

Provo a indovinare il tuo amore

nel gioco di scatole cinesi,

un mistero che non si slega mai.

 

VI

Madri, accogliete i grumi di sangue

strappati dal ventre della colpa,

mentre si tace il sospiro della vita.

 

VII

Ascolta, sulla soglia dell'ombra,

il grido che s'infrange in cenere:

si consuma il tempo, si spegne l'eco.

 

VIII

Dell’amore non ricevuto,

hai pagato il prezzo con la carne,

e i tuoi occhi brillano di perdono.

 

IX

La geografia del corpo

non redime il peccato,

ma il dolore accarezza come bruma.

 

X

Ti parlo, Vuoto,

nella domenica spenta d'autunno:

brindo al tuo silenzio che mi ascolta.

 

XI

Lasciatemi qui,

tra il punto e virgola della ferita,

a mordere il sangue del coraggio.

 

Da qui si apre la percezione assoluta e inequivocabile di “dolore, colpa, perdono e vuoto” che si allungano sulla linea di confine capace di separare l’anima dal corpo e creare un collante che non permette all’una di evaporare per abbandono. In questi “undici comandamenti della donna” viene fuori la percezione esplorativa del sé, del suo modus agendi, l’imprinting poetico del "vivere" diventa "mania lugubre" e "facezia recondita", una lotta tra la fragilità umana e l'irraggiungibilità di un senso.

L’uso dell’enjambement, dei versi spezzati e delle metafore intense ("le crepe degli affanni", "la geografia del corpo") crea un ritmo che alterna l’urgenza del dire al silenzio del sentire. L'assenza di rime scrolla la poesia da ogni orpello e la spinge, cruda e diretta, nell’immaginazione del lettore, mentre scenografie violente e dolci coesistono, suggerendo un contrasto dualistico e per questo tipico della condizione umana.

Le parole, in Giammillaro, emergono come fondamenta da cui redimere il disincanto e la percezione dell’errore. Di fianco all’esperimento poetico proposto si delinea, netta, la capacità di scavare e scavare nella profonda dimensione intima ed umana dell’essere che si agita dentro il suo humus personale oltre ad esplorare con toni intensi e viscerali le perplessità, il dolore, l’amore e la disillusione che si riflettono nell’universale.

I perplessi giorni e la vanità del tempo introducono un motivo ricorrente: la fragilità delle lancette e il peso delle angosce quotidiane. Il tempo, simbolizzato dalla vanità che muore, è immagine pascaliana di un infinito che scorre inesorabile, mentre l’uomo resta inchiodato alla sua condizione finita. La crepa è una ferita aperta, uno spiraglio verso una verità nascosta. Qui si può intravedere la riflessione di Albert Camus: il vivere è un atto di resistenza nell’assurdità del mondo.

Il coltello come mantra devoto e i cèri spenti di un baccanale introducono una scena quasi rituale: un atto di fede rovesciata, dove il sacro si dissolve nel profano. Il corpo, oggetto di sofferenza e desiderio, è il fulcro del dramma: la poesia diventa un canto quasi orfico, un richiamo alle origini ancestrali della materia umana, fragile e martoriata. Il tema della colpa è qui centrale, sospeso tra la dimensione religiosa e quella laica (inginocchia la colpa al tuo abituale mentire).

Nelle poesie dedicate alla figura della madre il femminile è sacralizzato e, insieme, violato. La madre diventa simbolo arcaico e universale, una presenza salvifica e dolorosa, un grembo che genera e un ventre che resta vuoto. Si evocano qui figure come la Magna Mater dei culti antichi e la Pietà cristiana, dove il dolore di Eva si fa voce di una condizione umana universale richiamando Simone de Beauvoir, dove il corpo di donna è terreno di scontro tra libertà e imposizione, tra desiderio e annullamento. I versi, con linguaggio potente e visivo, gridano l’ingiustizia della privazione e l’urlo della vita mancata.

Poi l’amore, croce e delizia, diventa un paradosso: benedizione e condanna, un atto di fede e una menzogna. Tutte le eredi del primo ventre peccaminoso, di Eva, si specchiano nella bellezza maledetta (Maliritta biddizza) riconoscendo il peso di un’identità che è, insieme, una croce da portare. Qui si percepisce l’eco delle riflessioni di Roland Barthes, dove l’amore si intreccia con il linguaggio e il silenzio, diventando una prigione di parole non dette e verità sospese. Versi attraversati da immagini di viaggio (ponti, vele, porto alla deriva) si trasformano in simboli di un'esistenza che fugge da sé stessa. Non c’è approdo sicuro, non c’è pace nello sguardo: il viaggio diventa metafora dell’alienazione e della ricerca infinita di un senso. Qui risuona Nietzsche: la vita come un cammino senza meta, dove l’uomo è chiamato a danzare sul baratro dell’ignoto.

Il buio, presente nelle immagini poetiche, è simbolo della mancanza di risposta, dell’assenza di luce interiore. La soglia che attende è il limine tra vita e morte, tra speranza e disperazione. Si percepisce un senso di abbandono, un’angoscia esistenziale che riecheggia nella letteratura di Franz Kafka: l’attesa come condizione perenne dell’uomo contemporaneo, sospeso in un limbo senza redenzione.

L’amore non ricevuto diventa oro filtrato dalle lacrime, una ricchezza dolorosa che si dona ai poveri di spirito. Il perdono, chiesto per peccati mai commessi, è un atto di purificazione: un richiamo alla dimensione cristiana del sacrificio, ma anche un riscatto tutto umano nella sofferenza.

“Sei al punto più alto della luce / il centro della croce / che non perdona” e si apre il simbolo più alto di conoscenza e rivelazione, si unisce alla croce, metafora della sofferenza redentrice e della colpa inevitabile. La luce, qui, non è consolazione ma limite e sembra di rileggere Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”: abitare l’essenza stessa della sofferenza, il luogo della scelta e dell’irrevocabilità. L’autrice concepisce l’interrogazione suprema sulla vita che non perdona l’incertezza e la debolezza come l’ultima costola: origine mutilata, separazione ancestrale. Il brivido dei sensi si scioglie nel riconoscimento amaro di ciò che manca: la conoscenza reciproca, il desiderio inappagato che resta “agrodolce”, intraducibile nella logica comune. Qui si percepisce una visione tendenzialmente Schopenhauriana che definisce il desiderio come tensione infinita verso qualcosa che, una volta raggiunto, si dissolve nell’insoddisfazione.

Ed ancora, lo specchio, diventa simbolo di identità e illusione, introduce un paradosso esistenziale: conoscerci meglio significherebbe rinunciare alle proiezioni e confrontarsi con la cecità dei sentimenti. Come nel “Narciso” di Ovidio, lo specchio può essere ingannevole, una superficie che restituisce solo il riflesso di ciò che desideriamo vedere. La poesia qui suggerisce l’urgenza di uno sguardo più profondo, sganciato dalla superficie.

Il navigare, non come viaggio e transitorietà, ma figura romantica che “disegna vele” al tramonto: evoca la volontà umana di lasciare tracce, di dare forma all’indefinito, mentre il vento e il tramonto suggeriscono precarietà, un moto perpetuo verso l’ignoto. Come avvenne per “Ulisse”, c’è un desiderio di oltrepassare i limiti, pur consapevoli che non esiste “porto alla deriva del viaggio”. Non c’è approdo definitivo, solo il perpetuarsi dell’erranza esistenziale. Qui la pace è irraggiungibile perché lo sguardo – simbolo della coscienza – è inquieto, insoddisfatto come per Heidegger per cui l’essere umano è un “essere-per-la-morte”, sempre in tensione verso la propria finitudine.

La colpa riprende l’inquietudine di un’identità spezzata, quella della donna amante e abbandonata, che cerca di mascherare il dolore dietro la finzione e la negazione. Si intreccia poi con la vergogna, come nelle tragedie greche dove la figura della donna è sempre in bilico tra destino e responsabilità personale. Questa donna, vittima e artefice, ricalca l’immagine di Medea, prigioniera del suo amore assoluto e della distruzione che ne consegue. La voce del testo denuncia l’ipocrisia di chi osserva il dolore altrui con distacco, trasformando l’intimità della sofferenza in spettacolo.

Le scarpe diventano, invece, metafora del cammino esistenziale, delle generazioni che si succedono tra sacrifici e capricci. Quelle del padre portano il peso del silenzio, quella del figlio il rifiuto di un passato contadino. Ma al bambino – simbolo del futuro – viene data una possibilità: “Prova queste scarpe”, un invito a camminare libero da destini ereditati.

La cura, come in Heidegger: ogni generazione è chiamata a farsi carico della propria esistenza, senza cedere alla fuga o alla rassegnazione e la poesia diventa monito: il passo, la scarpa, il cammino sono ciò che definisce la dignità di un individuo.

La memoria della sofferenza è nel disegnare a “matita l’incombenza di una minaccia” L’urgenza etica: il dolore della terra bruciata e il freddo che invade i sensi sono l’immagine concreta di una tragedia collettiva, come un grido che si arresta nel silenzio. Disegnare come volontà di testimonianza, come se la poesia stessa fosse chiamata a fissare il dolore nella memoria del mondo, per riscattarne la dignità.

Poi il vuoto che diventa presenza tangibile e assume una dimensione quasi corporea. Non è più assenza, ma un’entità con cui dialogare, un compagno scomodo che s’insinua nella quotidianità, nei silenzi delle domeniche, nella banalità degli oggetti come l’agenda o il bicchiere di vino, sino a diventa simbolo del mancato appagamento esistenziale, della ricerca di un senso che sempre sfugge come fu per Sartre (vuoto e il nulla si manifestano come costitutivi dell’essere umano, che si trova condannato alla libertà di dare senso a ciò che appare insensato).

Il corpo diventa muscolatura e pelle di dolore, ferito, marchiato da rughe e addii, ma anche luogo di rinascita e resistenza.

La carne, spesso associata al dolore, viene riscattata attraverso un processo di conoscenza e accettazione: il corpo è un "ponte" tra l’individuo e il mondo, lo strumento attraverso cui facciamo esperienza dell’esistenza.

Nel tempo, poi, come forza che consuma, che ricorda e ricostruisce, nella tensione tra il vero e l’illusorio, tra il tempo lineare e quello interiore, riecheggia il pensiero di un’esistenza autentica si realizza solo nell’accettazione della nostra finitezza, mentre l’io lacerato è alla continua ricerca di una verità o di un perdono. La figura del doppio, l’ombra, il riflesso, sono elementi ricorrenti che segnalano l’incertezza identitaria: "Chissà se traduci o interpreti / Chissà se ti accorgi mentre mi perdi".

Qui emerge un’angoscia contemporanea legata alla perdita di stabilità e all’alienazione, tanto cara a filosofi come Bauman, che descrive la modernità liquida come uno spazio di identità in continuo mutamento

Il rapporto con il divino è un altro tema centrale. Dio è sfidato, vinto, cercato e, infine, perdonato. Nella poesia "Ho vinto Dio", la fede si confronta con il dubbio e la fragilità dell’umano, ma trova, paradossalmente, proprio nel dolore e nella resa un momento di redenzione: eppure il percorso verso il perdono non è lineare; richiede il coraggio di guardarsi dentro e di abbandonare le illusioni. In questo contesto, il perdono non è solo spirituale, ma anche un atto di riconciliazione con se stessi.

L’Epilogo come Incipit di una Vita Capovolta è un denso frammento poetico che intreccia immagini ancestrali, risonanze intime e toni di denuncia con una forte matrice simbolica. La narrazione poetica si sviluppa su vari livelli: il tema del silenzio, della solitudine, e della rinascita, e si mescola con riferimenti religiosi e familiari, creando un'atmosfera sospesa tra il sacro e il terreno, il reale e il metaforico.

“Muta sono / come pesce senza sangue / che trema a schiena piegata"

Cosa si sviluppa, qui, se non impotenza e un senso di sofferenza, uno stato di vulnerabilità estrema, inerte, quasi priva di vita? La schiena piegata suggerisce fatica, sottomissione o un peso interiore difficile da sopportare, con un simbolismo che si concentra sull'incapacità di comunicare (lettera strappata) e sulle ferite persistenti (la lisca). La lisca può rappresentare un residuo doloroso, una parola non detta che soffoca nella dimensione di un'immagine liturgica, un simbolo di ritualità familiare, ma anche un vuoto relazionale: sedersi da sola davanti a ciò che è "sacro" sottolinea un senso di esclusione e isolamento.

Nell’innesto del dualismo tra madre e figlia la poetessa esplora il tema della rinascita ciclica della discendenza, radicato in un legame profondo ma allo stesso tempo problematico. È come se l'identità personale si duplicasse e si frammentasse in un eterno ritorno dove la morte sostituisce il parto come simbolo del dolore estremo, trasformando l'autrice in una figura già stanca e consumata, che sopravvive a una sorte crudele. Il richiamo, poi, alla figura delle tre scimmie ("non vedo, non parlo, non sento") ribalta il significato tradizionale del silenzio virtuoso: qui diventa un rifiuto, un peso ereditato e lasciato come condanna. 

Ma su tutto cala una "Una ninna nanna d’amore / che come scirocco” (elemento naturale) porta con sé una memoria collettiva e arcaica di amore materno trasformato in un monito duro, definitivo. Il testo si chiude con un messaggio amaro e rivelatore: lo sguardo diventa attivo solo quando il cuore è ormai vuoto. È una critica al ritardo con cui si arriva alla consapevolezza o al valore di ciò che si perde.

Errata Complice è una mappa Antropologica della Donna (peccatrice e redenta). Una complessa cartina geografica, storica, esistenziale, ed anche dialettale*, in cui silenzio e solitudine, identità e ruoli familiari, memoria e condanna (come lascito pesante ed ineluttabile), ciclo della vita e della morte (continuamente rielaborati con toni lirici, simboli, ed un linguaggio denso di metafore e simboli, nella struttura di un ritmo volutamente spezzato, come gli errori che riflettono l'urgenza e il peso emotivo delle parole, insieme alla sacralità di immagini ancestrali), croci e delizie dell’amore, s’ intrecciano, si spezzano, si riannodano, in un tempo senza tempo della realtà scarnificata della finzione, ridotta all’osso, vera.

*

A proposito del dialetto, in Errata Complice, si configura come lingua primordiale, “la lingua di Eva” l’unica capace di tornare all'origine della parola come atto fondativo e autentico, il linguaggio della prima umanità, quello che conserva ancora il calore della terra, il suono della carne e la forza del gesto, restituendo una dimensione arcaica, ma profondamente intima, del comunicare.

Qui, come innesto poetico, non è semplicemente un codice linguistico, ma diviene una fonte di verità: uno strumento che, nella sua semplicità e immediatezza, si sottrae alla corruzione e all'artificio del linguaggio contemporaneo. La "lingua di Eva" è quella che pronuncia il mondo per la prima volta e, conseguenzialmente, una donna, Gea, la terra. Una lingua che non nasconde, ma rivela la realtà nella sua essenza più pura e non mediata. Questo perché il dialetto possiede un legame profondo con le radici, con il vissuto individuale e collettivo. Ogni termine porta con sé una storia, un suono, una vibrazione che parla di vita, di terra, di dolore e di speranza. È una lingua che sa di corpo e anima, e che diviene strumento di evocazione e memoria.

Per l’autrice la parola dialettale è il nucleo attorno a cui ruota la ricerca poetica, non solo un mezzo espressivo, ma un atto sacro, capace di costruire e rivelare. La parola non è mai vuota o convenzionale: è densa, intrisa di significati, di echi, di rimandi e diviene un terreno fertile per immagini potenti, stringenti ed evocative. Parla a quella genealogia del cuore prima ancora che alla mente, si rivolge ai cinque sensi, e si fa corpo, vista, udito, respiro e permette di superare i confini del tempo e dello spazio, toccando corde universali.

Dialetto che non è nostalgia, ma lingua vivente, taumaturgica, capace di contenere l'intero spettro delle emozioni umane e di curarle, per quel poco che si riesce. 

mercoledì 4 dicembre 2024

A proposito di "Momenti" - Stefano Acierno


Tracce da cui partire per un'analisi della sua poetica. 

Prima di iniziare il viaggio, immagina di trovarti in mezzo al mare, avvolto solo dal silenzio della notte, senti l'aria leggera come un sogno che, ovattato, ti abbraccia? 

Intorno a te, il mondo sembra (quasi) trattenere il fiato, mentre la luna disegna sul profilo una sagoma che ti appartiene solo per metà, è quella la parte esposta, l’altra è al buio. In questo “momento” avviene la trasformazione: diventi un Argonauta.

L’argonauta simbolicamente evoca l’avventura, la ricerca e il desiderio di superare i limiti conosciuti per raggiungere l’ignoto. Nel mito greco è uno dei valorosi eroi che salpa con Giasone alla volta della Colchide, per ottenere il vello d'oro (il termine "argonauta" deriva infatti dalla nave "Argo", la leggendaria imbarcazione che trasportava questi eroi in un viaggio epico e pericoloso). Rimanendo nel contesto mitologico, sono personaggi che incarnano l'idea di intraprendere un cammino arduo e spesso incerto, con la speranza di conseguire una grande ricompensa, ma anche consapevoli del rischio e delle sfide che si presentano lungo il percorso. L’impresa è vista come una metafora della ricerca dell'ideale, della bellezza o della verità, a fronte della consapevolezza che l’obiettivo potrebbe rimanere sempre parzialmente irraggiungibile.

Se, invece, vogliamo espanderne il senso, l'argonauta diventa simbolo di chi affronta il viaggio della vita. L'eroe che solca mari tempestosi alla ricerca di qualcosa che sembra lontano o difficile da raggiungere. Il viaggio stesso, più che il traguardo, è ciò che definisce l'argonauta, un'esperienza trasformativa che plasma l'individuo e lo prepara ad affrontare le sfide che incontrerà lungo la strada.

Sei diventato, quindi, l'immagine di chi non si accontenta della sicurezza della terraferma, ma che ha il coraggio di salpare, spinto dalla curiosità e dalla necessità di scoprire, di comprendere, di dare un senso profondo alla propria esistenza. Come l'eroe mitologico che cerca il vello d'oro, puoi benissimo essere visto come un argonauta alla ricerca di qualcosa che non è mai completamente raggiungibile, ma che rende il cammino stesso significativo e prezioso.

Ed ecco, in quella ricerca, apparire la bellezza in forme invisibili, come un’ombra di nostalgia che si conficca (delicata) nel petto e si spinge fino a sollecitare il cuore. È un tenue lampo, luminoso, che rischiara la mente, un battito che scuote l’intimità senza fare rumore. Questo perché, quella vera (bellezza) non chiede di essere osservata, ma si offre, spontanea, a chi è pronto a vederla. Non è solo ciò che splende, ma anche ciò che si nasconde, nell'angolo più remoto del pensiero, nelle pieghe del ricordo, nei frammenti di ciò che è stato e non sarà mai più.

Deve esserci qualcosa d’infinito ed infinitesimo nel suo mistero, un'inquietudine dolce (e crudele al tempo stesso) che avvolge tutto, come il mare che non conosce confini, che abbraccia ogni cosa senza chiedere permesso. E, mentre si mescola al tempo, si fonde con i colori che il cielo regala all’alba, si nasconde nel riflesso dell’acqua, nella carezza d’assenzio di una brezza leggera. È un filo sottile che collega ogni attimo al successivo, un’increspatura che sfiora la superficie della vita, senza mai affondarci del tutto. Somiglia quasi al canto delle sirene che, senza emergere, senza mostrarsi, echeggiano, nel ventre della notte, un richiamo che non si può ignorare. È dolce, lontana, di miele fruttata, sembra provenire da un altro mondo, dove il tempo non esiste, dove ogni desiderio è un sogno che si tuffa per disintegrarsi in mille forme e riemergere in altrettante, sempre diverse, mai uguali. Ma è un richiamo che può perdere di senso, che può svanire nel mistero di ciò che non possiamo mai possedere completamente. Perché la bellezza, forse, non è mai davvero nostra. È solo un respiro che passa tra le narici, o che scivola come sabbia calda, tra le dita, insieme al ricordo dell’estate e della sua calura, lasciandoci la sensazione di aver vissuto qualcosa di immenso eppure inafferrabile.

In questa assenza di suono, senti la risacca delle singolari onde, che tranquille, smuovono un po' la staticità della barca, in cui ti trovi e, da quel leggero movimento, nasce “il momento” e la riscoperta della poesia. Non quella che ci insegnano sui banchi di scuola, non la poesia definita e codificata nelle parole che restano ferme sulla carta, ma quella che si svela nella spontaneità degli attimi e quindi “momenti”, nella vibrazione eclettica di un incontro, di uno scontro, nell’istante in cui il cuore batte, cavallerizzo, e la mente si libera, denudandosi, da ogni costrizione. La poesia che si fa spuma classica sul dorso del mare, come la divinità da che da questa viene al mondo, non è solo un'arte da contemplare, ma una forza che risveglia, che ci invita a vedere l'invisibile, a sentire l’impalpabile, a vivere l’attimo senza paura di perderlo.

E senti forte il ritorno a quella visione pura del mondo che spesso dimentichiamo, sommersi dalla frenesia del quotidiano. È un atto di liberazione per ritrovare il linguaggio segreto (naturale) che collega tutte le cose e, quando l’eco di quel canto svanisce, rimane una traccia nello spirito, una scintilla che brilla nel desiderio di cercare, senza sosta, ogni giorno, il “canto delle sirene”.

*

Ora che sei in questo habitat soggettivo (ma capace di espandersi all’universale) andiamo a valutare, insieme, i testi che si muovono tra introspezione, memoria e osservazione del reale, incastonando emozioni profonde e riflessioni universali.

Attraverso immagini vivide e intime, il poeta interroga il rapporto con la storia, l'amore, il divino e il tempo. L'opera si divide in diversi temi principali: il legame con la terra e la tradizione, la sofferenza e il desiderio umano, il sacro e la memoria personale. Nel poemetto "Baiano", la terra natale è evocata come uno spazio vivo e sacro, permeato da luce e memoria. La collina d'argento, gli ulivi e il mare scintillante evocano un luogo di appartenenza ma anche di distanza, con una nostalgia che avvolge il lettore. Le descrizioni sono dense di immagini, come in "pietre vive a gradoni" o "boschi, da cui intravedere, digradante, la strada, la 'storia', le 'civiltà', il Vesuvio". Qui si coglie una dimensione esistenziale del paesaggio, che diventa un riflesso della vita e del tempo, mentre Heidegger potrebbe essere evocato nel concetto di Dasein (essere-nel-mondo), dove il legame con il luogo definisce l'identità dell'individuo.

Nel "Il tuo nome, Cristo", il poeta affronta la figura dell’Ecce Homo non solo come simbolo religioso ma anche come icona dell'umano, rappresentandolo nella sua sofferenza ("nudo, lacero, stremato") e nella sua forza rivoluzionaria, con "paradossi sociali, eresie del pensiero". La figura divina è quindi colta nella tensione tra umano e trascendente, simile alla poetica di autori del Novecento come Ungaretti o Mario Luzi, che indagano il divino come presenza viva e dolorosa nel quotidiano. Figure come Vladimir Majakovskij e Massimo Cacciari sottolineano come la fede e la figura del figlio di Dio siano oggetto d’interrogativi sia di artisti che di filosofi in chiave esistenziale e critica.

Nel ciclo poetico sull’amore ("Io ti amo"), il poeta esplora l'intensità e la contraddizione del sentimento amoroso. L'amore è totalizzante e impossibile, e il poeta si abbandona a esso anche quando riconosce che è non corrisposto: "Io ti amo. E tu non vuoi. Tu non puoi.". Questo tema, ricco di pathos, richiama la lirica amorosa novecentesca, per esempio le poesie di Montale o Quasimodo, che descrivono l'amore come anelito e mancanza. La ripetizione insistente e l’uso della paratassi esprimono la frammentazione del sentimento e della ragione: "Perché soffro, sempre, quando non rispondi". Il ritmo sincopato riflette un'emotività esasperata e autentica.

In "Senza tempo" e "Mia madre", il poeta esplora il ricordo dei legami familiari come ancore emotive che sopravvivono al trascorrere del tempo. La madre è descritta come figura vivida e trascendente: "Bella, esprimeva luce. Aperta, trasudava vita, inondava il cuore.". Questo componimento incarna una riflessione universale sull'amore filiale e sulla perdita, temi cari anche a Cesare Pavese, che vedeva nelle radici familiari un punto di partenza per comprendere il mondo. Qui lo scorrere delle lancette è visto come un flusso senza misura, che tuttavia viene fissato nella memoria. L'eco leopardiano è evidente nel senso di ineluttabilità della perdita.

Le immagini di viaggio e salita (come in "Baiano") rappresentano l’anelito umano verso qualcosa di più grande: il mito, il mondo, la comprensione. In queste poesie, la natura è al contempo rifugio e sfida, un luogo dove l'individuo si confronta con i propri limiti: "Uno sguardo e un mito fuggente sulla bocca di qualcuno.". Qui Montale suggerisce la natura come metafora dell’esistenza e del desiderio.

In Stefano Acierno si concentra sull'armoniosa fusione tra introspezione personale e senso del collettivo, intrecciati a un afflato filosofico e spirituale che riecheggia la sensibilità di poeti del Novecento, come Montale e Neruda. In ogni verso esonda l’anima e quel dialogo costante con l'individuo in cui lo spazio interiore, è ben radicato nei temi universali della natura, dell'amore, della comunità e della trascendenza.

Così "Ex Arce" esplora il legame tra l'essere umano e il genius loci, evidenziando la sacralità della natura come un ponte tra passato e presente: "Fra Greci e Romani si ritenne / che i boschi fossero casa di divinità." La narrazione del rituale comunitario dell’albero totemico evoca una nostalgia per i riti arcaici, dove l’armonia con il sacro si rifletteva nel senso di identità collettiva. L’approccio richiama la sensibilità di poeti come Seamus Heaney, che intrecciavano paesaggio, storia e spiritualità.

L’amore è, invece, rappresentato come un’esperienza struggente e totalizzante. Nelle poesie "Io ti amo" e "Disperante", Acierno scava nel dolore della distanza e nell’inadeguatezza dell’amato, raggiungendo una tensione lirica che riecheggia Neruda e il suo senso di malinconica ineluttabilità: "Perché soffro, sempre, quando non rispondi." "Sempre intercettando l’anima, / prostrandola." Sembra di essere catapultati di peso nelle vene di un amore tormentato che riflette, e lo trascende, il dissidio moderno tra passione e razionalità.

In "Speranza" (che ben può legarsi anche a "Il tuo nome, Cristo") emerge la riflessione religiosa e metafisica, dove Cristo incarna il riscatto dell’umano dalle piaghe asfittiche del dolore, sublimato in speranza, come in Paul Celan o Ungaretti: "Che si risani, che si riscatti, / si sublimi." La spiritualità si intreccia con l’indagine filosofica, evocando anche pensatori come Simone Weil.

"Degenza" e "Adesso" analizzano il tempo e la vita nella loro fragilità quotidiana. L’immobilità dell’ospedale, così come la quiete contemplativa del presente, risuonano con le riflessioni leopardiane o montaliane sull’accettazione dell’attimo: "Mi basta adesso che il sole / carezzi lo sguardo." Il distacco verso il passato diventa accettazione del presente, esprimendo una maturità esistenziale.

In "Copiando Neruda", il poeta si rifà esplicitamente alla poetica sensuale e naturale del maestro cileno: "Il tuo profilo ha il segno / di un panorama struggente." L’arte appare come veicolo per sublimare il desiderio e affrontare le emozioni.

In un dialogo costante con il Novecento, Acierno sviluppa ed intreccia temi vicini ai grandi poeti del secolo in particolare: a Montale è legata l’indagine dell’interiorità attraverso paesaggi e oggetti (genius loci, mare, vento) e rammenta le "occasioni" montaliane; a Pablo Neruda è legato l’uso sensuale del linguaggio per evocare amore e natura; a Pier Paolo Pasolini è legata la celebrazione della comunità e delle tradizioni popolari, vista attraverso una lente nostalgica e critica; a Majakovskij, citato esplicitamente, è legata la tensione tra il sacro e il profano, il grido di redenzione sociale. Ed ancora, potenti sono le riflessioni sul tempo (soprattutto in "Adesso") e sulla spes cristiana. Esse richiamano, per molti versi, le meditazioni di Heidegger sul Dasein e quelle di Gabriel Marcel sull’essere e la fede.

*

A proposito della prefazione…

Potrei definirla un testo a parte, un racconto con acuti richiami epistolari, non scisso dalle liriche ma decisamente intimo, quasi ancestrale. Qui l’autore si svela pudicamente, senza liberarsi completamente dei

segreti che mantiene a mezz’altezza tra detto e non detto, e racconta il suo viaggio personale nel mondo della scrittura. Non è difficile percepire un senso di umiltà e di rispetto verso l’arte poetica: l’autore non pensava di trasformare i suoi versi in un libro, eppure, spinto dalla passione e dall’incoraggiamento dei suoi familiari, ha deciso di raccogliere i suoi pensieri e condividerli. La scrittura, descritta come un’attività quasi casuale e spontanea, assume però un peso crescente. All'inizio, le poesie erano solo "ghiribizzi", esercizi senza pretese, ma con il tempo diventano qualcosa di più profondo e questo lo porta a riflettere sul valore della semplicità, ispirandosi a maestri come Ungaretti, e sull’importanza di esprimere emozioni autentiche, capaci di toccare chi legge. La poesia non deve essere per forza perfetta nella forma, ma deve trasmettere verità e creare un legame tra scrittore e lettore. Tema centrale resta comunque il conflitto tra il desiderio di esprimersi e la paura di svelarsi troppo. L’autore ammette di essersi frenato più volte, temendo di portare alla luce parti troppo intime di sé, ma riconosce anche che l’autenticità è quello che maggiormente conferisce valore alla scrittura. Questa tensione tra il bisogno di comunicare e la ritrosia personale rende il libro un atto di coraggio, un tentativo di "riscattare i propri sentimenti", come scrive.

Le tracce tematiche, spesso legate all’amore, gli offrivano uno spunto per esplorare emozioni universali, talvolta mescolando esperienze personali e fantasia. Questo processo di immedesimazione è interessante, perché dimostra come la poesia possa nascere sia dall’interiorità sia dall’osservazione di ciò che ci circonda. Non è necessario parlare direttamente di sé per essere autentici: l’empatia e la capacità di toccare temi condivisi rendono i versi credibili. Un altro aspetto che considero importante, da sottoporre all’attenzione di chi legge, è il riconoscimento della poesia come specchio della psiche. Anche quando si cerca di mascherare i propri sentimenti, la scrittura tradisce inevitabilmente qualcosa di noi. L’autore richiama la psicologia per sottolineare che ogni narrazione, anche di fantasia, contiene frammenti della nostra identità. Questa riflessione trasforma la raccolta in una mappa dell’anima.

Un elemento commovente è l’omaggio alla zia Tina, le cui poesie sono state inserite alla fine del libro. L’autore parte dalla forza e modernità di questa donna, che ha vissuto in tempi difficili, segnati dalla guerra e dalle privazioni. Tina genera versi carichi di nostalgia (mai pesante) e ricordi di gioventù che aggiungono una dimensione storica e familiare al libro, rendendolo non solo un’opera personale, ma anche un ponte tra generazioni.

Di questa mi piace evidenziare la poesia "Ritornerà la neve" un’Odissea interiore ed un incontro simbolico tra l'essere umano e l'animale, e, in un senso più ampio, con il tempo e l’esistenza. Anche se la poesia si presenta con una forma libera, non rigidamente metrica, alla lettura assume una certa musicalità creata dall’uso di ripetizioni e parallelismi. La ripetizione del verbo "tornerà" sottolinea la ciclicità e il ritorno di ciò che è familiare, mentre la ripetizione del concetto di "volpe" crea un focus emotivo sul suo significato simbolico. "Tornerà per dirmi che nulla è cambiato, ma è solamente tempo d'aspettare" ha una forte sonorità e afflato ritmico che enfatizza, quasi esasperando, la sensazione d’attesa e speranza. Il verso è costruito in modo da avere un andamento alternante con immagini concrete e momenti di riflessione più introspettiva.

La neve, che ritorna ciclicamente, può simboleggiare il passaggio del tempo, la quiete, ma anche un nuovo inizio, come una pagina bianca che attende di essere scritta. Il gesto di "picchierare sul ghiaccio coi badile" richiama un atto di lavoro e di preparazione, ma anche di sottomissione alla natura, come se l’autrice cercasse di fare i conti, senza tuttavia riuscirci per le destinalità del tempo, con un aspetto immutabile della realtà.

Le "briciole" gettate agli uccelli suggeriscono, invece, un atto romantico di cura, un gesto (piccolissimo) di generosità e connessione con questi esseri viventi, simboli di libertà, testimoni di un mondo che migra, torna, e si ripete in una routine che non muta.

La figura della volpe è, invece, l’animus pulsante della poesia e rappresenta sia la natura selvaggia sia la consapevolezza profonda della condizione umana. Un animale (declinato al femminile) "ostinata" e "triste", simbolo di resistenza e di (profondissima però) malinconia. La volpe non ha bisogno di parole per comunicare la sua essenza, il suo messaggio è nel suo comportamento, nella sua presenza.

Il ritorno della volpe "ostinata" rappresenta una costante nel ciclo della vita, che si ripete senza un cambiamento sostanziale. La volpe che non è la stessa dell’anno prima suggerisce che, pur nella ripetizione, c’è una mutazione, seppur impercettibile. Ogni ritorno è in qualche modo diverso, ma in fondo l’essenza della vita rimane la stessa: un continuo alternarsi di attese e ritorni.

Il "tempo della volpe sarà il mio" è una riflessione sulla battaglia incessante da tenere con il coraggio e sulla speranza. La volpe è coraggiosa nel non temere né il buio né i cani, e l'autrice s’identifica con questa forza, desiderando acquisire la sua stessa serenità. L’attesa non è però un’attesa passiva: è una speranza che, pur consapevole della realtà del cambiamento, guarda al futuro con determinazione.

*

Qualche rilievo e aderenza al passaggio critico del Dott. Colucci sul testo di Acierno

Concordo con il declinare il libro tenendo (ben) presente una “lettura unitaria” delle poesie e focalizzando l’attenzione sulla tematica della nostalgia, sentimento legato al ricordo, che si radica nel cuore e suscita il dolore della perdita.

Sicuramente le sue molteplici sfaccettature emergono senza possibilità di segretezza: 1. Nostalgia della natura e dell’infanzia, luogo di rifugio e di riflessione, ma anche un simbolo di ciò che è senza confini e di ciò che appartiene a tutti. 2. Nostalgia come funzione catartica, "anagogica", che eleva l’individuo e lo guida attraverso le difficoltà della vita (vista come un filo di Arianna che aiuta a orientarsi nel labirinto dell'esistenza, rendendo possibile il recupero delle esperienze e dei luoghi perduti). 3. Nostalgia che genera la poesia come strumento di recupero emotivo, per riconnettersi con il passato, con il "canto delle sirene" che tocca l’anima e risveglia la memoria delle esperienze vissute. Eppure il ricordo che non è solo memoria mentale, ma un richiamo emotivo che coinvolge la radice del cuore. Il termine greco nostos-algos esprime il dolore del ritorno, e la poesia di Acierno esplora questo tema come una riflessione sulla perdita e sul desiderio di ritorno a luoghi e momenti passati.

Il rilievo, poi, dell’aspetto politico e comunitario, tra cui il "genius loci", i luoghi dell'infanzia, e la connessione con le origini e la comunità, diventa una risposta essenziale alla divisione e alla frammentazione sociale, ponendo la nostalgia come quarto concetto: unione e riflessione collettiva.

Degna di nota la citazione di Platone unita al concetto della conoscenza come rimembranza, insieme al mito di Ulisse come paradigma di tutte le nostalgie, che può essere interpretato sia come rimpianto del passato, sia come desiderio di ritorno alle origini (nel contempo Acierno esplora anche il concetto dell’"amor fati" (l’amore per il destino) che abbraccia la nostalgia come un atto (conclusivo) di accettazione