La spada e la bilancia



Devo andare. Qualcuno mi perdoni per questo sacrilegio che sono portata a compiere non per mia volontà. Sono bendata. Dovrei essere cieca alle sembianze del mondo esterno, eppure ho la visione del distacco, della separazione dal giusto, dell’assurdo che prevarica il raziocinio. Ogni passo, ogni movimento di abbandono, è una ferita che si apre e si consuma nel dolore di chi sa  di essere inerme davanti alla voracità di una malattia. 
Così si compie il cammino dell’addio, lungo le strade storte di questi verdi luoghi. La natura che mi circonda crea immagini meravigliose, essenze di quiete, architetture sovrabbondanti di storia, eppure ha un’anima agonizzante. Avverto un ostacolo. Una mano fuoriesce dal sottosuolo. Cerca di aggrapparsi alle mie vesti. Mi blocca, prova, tira, non si arrende, vuole che resti. Di contraccolpo la spada del Leviatano, che tenevo stretta nella mano, cade sul terreno e crea una frattura che sembra aprirsi a vista d’occhio. Una piccola crepa, poi una voragine, da questa un sussulto. Un terremoto prende corpo, forse più potente di quello che rigurgitò la natura nel 1980. Un terremoto che non distrugge le case  ma colpisce l’uomo nella sua dignità, nei suoi diritti. Un danno che non si potrà sistemare con una legge sulla ricostruzione. E’ qualcosa che violenta l’immagine del giusto e lo fa sembrare sempre più un’utopia. 
Cado. A stento riesco a sorreggere la bilancia che portavo nell’altra mano. Il peso non è più proporzionato, inizia a pendere da un lato. Sento il braccio che si affatica, la gravità del momento. È una sensazione che non avevo mai provato prima. Dovrei fermarmi, desistere, ma sono legata da un laccio che nessuno riesce a vedere. Un decreto mi impone il percorso e, ad ogni singolo tentennamento, stringe sempre di più, mi lascia senza fiato.  È un lento stillicidio. Prudenza, Fortezza, Temperanza si erano, un tempo, fuse in una sola parola che oggi muore per volontà Governativa. Stato Ostativo alla mia sopravvivenza. “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi.” Cosi qualcuno citava il mio nome nella veste sacrale del latino. Eppure ciò che sono appartiene all’uomo, all’umanità, per genìa e non per volontà. 
Io sono la Giustizia, non solo l'ordine virtuoso dei rapporti umani che vengono assoggettati ad un’azione prevista per legge. Io sono la sua connotazione naturale, non soltanto  un’imposizione, sono la sua virtù morale, ciò che è innato. Non unicamente la codificazione, non semplicemente l’istituzione, ma l’assiologia. Non solo un dovere, non solo un diritto, ma un sentire unico espansivo dell’individuo, di una comunità. Platone mi considerava armonia tra le facoltà dell’anima. I Pitagorici mi intesero come il riflesso nella morale e nella politica dell'armonia del cosmo. Cicerone mi definì “habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem”. Sono uno stato morale, osservata per l'utilità comune, per dare ad ognuno la propria dignità. Sono l'habitus animi che si trasforma nella constans et perpetua voluta, sono la  dignitas che trasmigra nello ius. Sono la virtù attiva che impedisce la disgregazione sociale, l’arte della regola che abbellisce il comportamento, la ratio che perseguita l’irrazionale, la riappacificazione del giusto, la nemica acerrima del sopruso. Non è solo nella volontà di Dio, come diceva S. Agostino, “ipsa iustitia est” ma è, in generale, nell’uguaglianza di ogni cittadino nei rapporti sociali. Sono quello che non dovrebbe mai mancare in uno Stato di Diritto, lo dice la parola stessa. E per l’esistenza della legge deve esistere il luogo dove venga dettata la regola per la salvaguardia, non solo dell’interesse del singolo, dell’intera comunità. E quanto più mi allontanano da questi luoghi tanto più la legge diventa illegalità. 
Chi ha deciso questo scempio sta distruggendo il senso, l’etica e la grazia di questa mia figura. Lo Stato sta martellando, non solo una macchia geografica sulla cartina, ma sta distruggendo i suoi pilastri, le sue stesse fondamenta. È una evoluzione legislativa che crea l’involuzione e poi l’implosione. 
Ed io, monca e sempre più affaticata,  forse arriverò nel luogo dove la mia presenza sarà assunta come una vittoria economica, come una spesa in meno, spuntata con uno schizzo di matita ma, dietro di me, lascerò devastazioni senza eguali. 
Eppure, per naturale inclinazione, continuo a confidare nell’uomo, nella sua intelligenza, nella sua tenacia, nello sforzo di chi non accetta di essere calcificato in un sopruso legalizzato e forse verrà il giorno in cui la bilancia smetterà di pendere da un lato e potrò tenere, ben salda, la spada in mano.



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