Poesie sghembe. Matilde Cesaro


Quasi impossibile da scrivere, forse ancora più complicato da pronunciare, il titolo conferito a questa raccolta di poesie, di Matilde Cesaro, è probabilmente un segno premonitore di quello che sarà il senso prodromico del testo rispetto a quanto emerge, graficamente, sin dalla copertina. 

Se il titolo ci da, da sempre, il significato o, perlomeno, un elevato dettaglio, un riferimento introduttivo e introspettivo, rispetto a quello che andremo a leggere, da questo incipit "fuori dagli schemi" e, per una parte, "capovolto" si comprende la piega che prenderanno, dalla seconda pagina in poi, le parole utilizzate ed unite al senso, o forse sarebbe più giusto dire non-senso, che l'autrice, di volta in volta, vorrà conferire alle stesse. 

Se vogliamo, solo per un attimo, riferirci al significato del termine "sghembo" diremo che letteralmente indica: non diritto, storto, tortuoso [Tra erto e piano era un sentiero sghembo - L'anima di Beatrice, con la mia scrittura sghemba e in discesa - Dante] o strambo, trasversale o, più comunemente, obliquo. In arte spesso si ritiene una donna sghemba una raffigurazione nello stile picassiano ed ancora, nello spazio tridimensionale, due rette sghembe sono rette per le quali non esiste alcun piano che le contiene. In modo equivalente, due rette sono sghembe se e solo se non sono né incidenti, né parallele distinte, né parallele coincidenti (come si può notare dalla figura sottostante).

Eppure non vi spaventi questo preambolo. Anzi, vi stuzzichi e vi solletichi la fantasia, così come è stato per me. La realtà che, evanescente appare e scompare, si sveste di astrusità e diventa momento di sintesi giocosa. La difficolta  scompare nel momento in cui la voce prende possesso della lettura. Da li fuoriesce un circolo di estro e fantasia dialettica che costruisce, di volta in volta, liriche, definite ed indefinite, pregne dell'essenza più autentica, e anche accattivante, con un linguaggio fatto di case, cose, dimensioni, luoghi, in una parola di "vita oggettiva" eppure "soggettivizzata" nella sua più eclettica e "divertente" estensione. 

Immaginatevi di essere ad uno spettacolo di prestigio dove l'escapolazione, ossia lo scampare da un pericolo imminente, la fuga da un luogo chiuso da lucchetti e da chiavistelli, (pensiamo a quello di Harry Houdinì) sia rappresentato dalle parole che fuggono dal senso "normale" e "statico" che gli diamo per essere collegate ad elementi impensabili e da quelli costruire magia e stupore.

Rifuggendo la "scontatezza" o "pesantezza" di visioni assolute, la poetessa rende partecipe il lettore mutuando, dalla brezza energizzante delle parole, l'essenza (spesso irriverente) dell'io, della donna, dell'uomo, degli oggetti ridipinti con il tatto di chi fa entrare, nell'imbuto uniforme del sentire, ritmi e cadenze ludiche, spaesanti a volte, dirette dal chiaroscuro delle azioni reali e verosimili. Un canale da cui entrare senza lasciarsi svuotare bensì uscirne rinvigoriti. La dimensione è quella della scoperta, la scoperta di una meta nuova della poesia. Non necessariamente introspettiva, non necessariamente "pedante" ma decisamente "leggera" e assolutamente "edificante". Emozioni che fanno della semplicità e della sorpresa un binomio indissolubilmente perfetto. 

Le poesie sghembe - come dice la stessa autrice - sono "brevi testi nati come divertissment - sono irriverenti, a tratti insolenti, giocano col finale e spingono il lettore a una contrazione di sguardo, a una rotazione su possibili mondi che si animano e si vestono di emozioni, di sentimenti, e dialogano e vogliono essere prese in considerazione, dire la loro, manifestare interesse, disinteresse, dispiacere, ansia".

Il plettro della lingua suona con decisione, con audacia, altre ancora con la delicatezza di una piuma tali da diventare quasi impercettibile nella trama. In ogni caso il balsamo della quotidianità scivola delizioso nelle pagine e si nutre, a sua volta, dell'attenzione del lettore che viene rapito da alcuni smarrimenti, quando il dubbio arriva a rendere complicate le cose, a ingarbugliarle nelle trame e nelle sfilate consistenze. Anche se poi, come spesso accade nel libro, si resta basiti rispetto alla fine di quello che sembrava e che non è più la stessa originaria "apparenza" al saldo delle operazioni e alla fine dei voli poetici, dotati di una "mirabolanza" straordinaria.  

E', probabilmente, il gioco o "divertimento" o forse "esercizio ma non stilistico" che riesce meglio alla poetessa: indicare un sentiero, annodare i fili delle parole, talmente bene da rendere la trama concreta, comprensibile e poi, improvvisamente, decidere di disperderci nel bosco del sussulto, dell'indefinito finale o direi della sarcastica conclusione che rende quel principio la balaustra da cui spiccare il volo dell'indecifrabile. Quasi una sfinge che, scientemente, indica soluzioni non conformi al senso del testo o che aprono porte da cui non ci si aspetta di trovare una tazzina di caffè (Effluvi) o addirittura la lavastoviglie dei propri sogni (Mi manchi). 

Potrebbe essere paragonabile all'esercizio delle ombre cinesi? Mostrare qualcosa nella "non-dimensione" e poi notare che quel coniglio altro non è se non una mano stretta in un pugno con due dita sovrastanti? Svuotare la concretezza della materia, di cui sono sovrabbondanti le nostre case, ed alleggerirla dell'arte poetica, come è capitato addirittura ad un "rubinetto" (Schizzi) può sembrare cosa da poco, in realtà significa percepire, andare oltre quella consistenza, elaborare un concetto "alto", renderlo fluido nell'ars poetica, farlo diventare fruibile al lettore come se, esso stesso, ne diventasse parte integrante. Si riesce a "sentire" l'oggetto o la cosa, quale focus attrattivo dell'intuizione del poeta, quasi avesse un'anima, autonoma, distinta, nuova, rispetto all'immobilismo di occhi inconsapevoli e disattenti.

Quello che riesce a Matilde è qualcosa di unico e raro. Dare dignità ad elementi apparentemente non degni di avere attenzione elevandoli in uno spazio di percezione molto profondo eppure leggero, disincantato alla fine, carico di un mordace "significato" - in alcuni passaggi - e vettore di movimenti che determinano un viaggio dal centro di un luogo  in ogni sua direzione possibile, anche quella più impensabile. Come se il nostro habitat fosse un enorme parco di giocattoli a cui dare vita con la nostra fantasia e le nostre percezioni. Matilde, dunque, è sicuramente dotata di grandi occhi, focalizzanti, capaci di radiografare le cose, di dargli vita, costruirci intorno un paesaggio, lasciarle muoverle tirandone i fili, come pupi, da "spettacolarizzare" all'attenzione dei terzi, appunto spettatori spiazzati ma sorridenti e sicuramente più gioiosi alla fine della lettura. 

Quel dare "coscienza" a quelle cose che "coscienza" non hanno, come un aspirapolvere (Sono stremato) o finanche una bottiglia di latte (Manutenzione di un amore) o rinvigorire consapevoli eppur caduche riflessioni slabbrate d'intendimenti, spesso concretizzati, altre volte disattesi. Il movimento è quello dell'andirivieni, partendo da una parola, che il nostro vissuto "categorizza" con un certo significato perché poi, fateci caso, ognuno di noi darà un senso diverso alle prime parole di ciascuna poesia per poi smarrirsi "inequivocabilmente" nel finale, in una partita degli specchi, riflettenti e non, equivoci o illusori, ricercata, analitica, come la lista esatta dell'intruglio di uno speziale. Un sortilegio, appunto, carica le parole prima di un elemento narrativo, poi le denuda, infine le riveste di altri abiti, che nessuno gli avrebbe mai messo addosso. Parole a cui, Matilde, toglie il "peso specifico" della "normalità" e gliene da un altro, forse quello più proprio...dal suo "point of view". 

Un libro da leggere nelle sere di Natale, e non solo, da osservare (questo potrete farlo solo voi) nelle raffigurazioni iconiche delle foto di Paolo Menduni, che danno il successivo senso al primo significato che è del tutto fuorviante, non preciso, appunto "sghembo" forse potrei dire "funambolico". E forse è tutto qui il senso del libro: leggere poesie sghembe significa indossare degli occhiali che animano cose prima inanimate, che smuovono leggerezze così pure e, infine, immediate, da farci rimanere "senza parole" o "spaesati" eppur alleggeriti dalla pesantezza del mondo con le sue parole perfette e precise, ma severe, purtroppo senza fraintesi che ci salvino dalla "scura" realtà. 

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https://www.oedipus.it/libri/cesaro-poesiesghembe.html 

"Ci si scopre coinvolti da questa raccolta di Matilde, si legge con curiosità crescente la sequenza di brevi storie ammiccanti per scoprire quale sarà il soggetto del prossimo testo, perché ci troviamo di tutto in questa apparentemente tranquilla casa di Barbie: dal mouse all'aspirapolvere, dal caffè alla protesi dentaria e, addirittura ma in sintonia con l'impianto, possiamo leggere anche un "Monologo alla pagina bianca" (...). [Costanzo Ioni]"


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