LA MIMOSA DI CENERE E MACERIE


Ci sono donne che si piegano al ritmo della vita, che lasciano uno spazio incompreso nel cuore del mondo, che si soffermano a guardare il cielo mentre la morte le divora come un lupo, che si inchinano davanti al padrone che le usa come schiave, che non si pentono di aver amato chi le sta uccidendo, che bevono in un sorso la violenza del loro aguzzino, che si muovono costantemente controcorrente, che si spogliano della dignità per sopravvivere al giorno, che si lasciano comprare per poche euro, che si lasciano soggiogare dal maschio dominante, che offrono la loro vita per dare al mondo una vita…e ce ne sono tante altre che sarebbe difficile raccontarle tutte. Due storie, tra tutte, evocano un ricordo quasi indentico: una mimosa fatta di cenere e macerie. Le mani che hanno colto quel fiore appartengono ad una donna, a tante donne. Fiore che sembra identico a quello che appare nelle vetrine, eppure emana  un’essenza che non inebria le narici: è un pugno che affonda e si ferma, preme senza mai diminuire la sua violenza. In quel cammino senza ritorno, si lasciano prendere dal destino che le ha messe dove dovevano stare. Le storie sono sempre uguali quando il regista non cambia i ruoli. Essere donna è un privilegio che compriamo ogni giorno a caro prezzo e chi ha già pagato per noi ...lo sa bene. 

New York, 25 marzo 1911. “Chiudete tutte le uscite!”, fu l’ordine secco dei proprietari della fabbrica. Seduta stante ogni porta venne chiusa. Lo scatto rumoroso dei chiavistelli risuonò nelle stanze affollate come il suono di una campana mesta annuncia l’inizio di un funerale. La decisione fu presa senza esitazione per bloccare lo sciopero. Max Blanck e Isaac Harris, i proprietari, si scambiarono uno sguardo compiaciuto e si strinsero la mano. Con una spocchia di orgoglio si affacciarono alla finestra del loro ufficio al decimo piano dell’Asch Building. In strada, finalmente, non c’era nessuno. Niente cartelli, niente frastuono, solo vita di tutti i giorni. A guardarli bene, quei due, avevano i lineamenti apparentemente gentili, eppure in quella carne i vermi brulicavano senza alcuna resa, erano demoni travestiti da due gentiluomini di città. La Triangle Shirtwaist Company produceva le camicette alla moda di quel tempo, le “shirtwaist”. Circa cinquecento lavoratori erano occupati nella compagnia. Moltissime, più della maggioranza, giovani donne immigrate. Facevano turni di 14 ore. Il loro salario medio era tra i 6 e 7 dollari alla settimana. Le condizioni di lavoro erano spaventose. Gli ambienti sovraffollati. Scarti di tessuto infiammabili erano immagazzinati e sparsi per tutta la fabbrica, anche sul pavimento. I locali di lavoro erano illuminati con luci a gas, senza vetro protettivo. La produttività doveva essere ristabilita a qualunque costo e impedire le uscite era l’unico modo per far riprendere i lavori. La mattina si era dileguata velocemente, nel pomeriggio il rumore delle cucitrici era l’unico suono che si poteva udire in strada. Così, quando il fumo entrò nelle stanze, come una spia, passando dalle crepe delle porte; quando dai piani sottostanti si alzò la voce: “al fuoco”, nessuno se ne rese conto. Con voracità sovrumana, risalendo dall’ottavo piano, un incendio bruciò le vite e le speranze di 146 schiavi. Le centoventinove schiave che bruciarono insieme ai diciassette collegi maschi, un secolo fa, nel rogo della camiceria Triangle, avevano fra i sedici e i ventitré anni. In maggioranza erano giovani donne italiane ed ebree dell’Europa dell’Est. Quella fu: “la fonderia umana” nella quale si fusero povertà, corpi, nazionalità. Dove si fuse tutto tranne la sregolatezza del potere economico.  

Barletta, 3 ottobre 2011. Il rumore delle cucitrici era quasi assordante, copriva ogni altro suono e nessuno si accorse che Maria era entrata nella stanza. Passò per il sottoscala, diede uno sguardo disattento alla crepa più grossa del muro, posò lo zaino a terra. Il tempo di voltarsi e il pavimento si mosse, come spinto da un’accelerazione sotterranea. Un tremore improvviso fece vibrare le sedie. D'istinto, uno sguardo di paura si materializzò nella stanza. Gli occhi persi in altri occhi. Cos'è stato? Una domanda silenziosa nata senza risposta. Fuggire? Una delle ragazze provò ad alzarsi. La crepa sul muro si contorse nella pittura umida come un serpente nel fuoco. "Siediti, continua a lavorare!" sentenziò una voce. Tutte le altre abbassarono velocemente lo sguardo, senza accennare alcuna contestazione. Un groppo alla gola, mani che si rimettono in moto. Abbracciando il coraggio, le filatrici strapparono il manto di silenzio ovattato che era calato nella stanza. Di nuovo rumore, fatica, lavoro. Per tre euro non si fiata, la paura si lascia a casa, si piange sangue nero e si ingoia solo rabbia. Ancora pochi secondi e tutto sarebbe finito. Da quella prigione di lavoro disumano sarebbero evase morendo sotto le macerie. Sotto cumuli di polvere, cemento, mattoni e omissioni. Ogni flebile lamento sarebbe stato coperto da quell’ammasso di coscienze incoscienti dove nessuno sa, nessuno parla, nessuno indaga, nessuno governa, nessuno verifica, nessuno ordina, nessuno sgombera, nessuno tutela e forse nessuno renderà giustizia. Triste e cruda realtà: siamo tutti nessuno. Siamo tutti: “non era compito mio, è colpa di quell’altro”.La morte ha comprato al discount del lavoro nero la vita di cinque persone che si erano messe in saldo per sopravvivere. Ma non importa a nessuno. Domani ce ne saremo già dimenticati, perché nessuno di noi è sotto quelle macerie, perché chi muore è sempre un’altra persona.

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