giovedì 7 aprile 2022

La solitudine della poesia. La memoria è un corpo rituale

di Luca Crastolla. 

Foto di Mariagrazia Francot 


la memoria è questo corpo rituale

mezzo pane sotto la calce, una mollica al caolino

Le reincarnazioni erano tutte nel fiato

poca cosa l'estensione: il capo tuo

d'accusa che qui bastasse vorticare il sangue

liberarlo per gironi, in ginniche occasioni

per vicoli e antri di malaffare, di lesa grazia

dozzinale ebbrezza. Si aggirava a rovescio

per un tenero sterno di terra sconfinata 

fra nidi di levante e nostre nenie di lento 

ponente, lenti segnalibri, un sale di scirocco

addormentato lungo funi tese fra campanule

si svestiva l'elicriso della croce sua di tufo, la ferita

le trafitture, il patrimonio. Aghi e ditali di premura

custodisco in timpani subacquei, merletti di pazienza

arance sfilate al ramo la domenica dopo la parola 

del Signore, le rotondità del gesto, l'odorosa 

familiarità che ricuciva i brefotrofi con la madre 

della madre che m'invitavo a immaginare 

morbida nella ruga sua sino a farsi solco


Luca Crastolla nasce in Puglia. I primi dieci anni li vive in un paesino del Varesotto al seguito dei genitori emigrati in Lombardia per lavoro. Torna nella terra delle sue origini nell’85. La Puglia, che sino ad allora era stata meta vacanziera e di affetti, manifesta così, all’improvviso, il suo volto piu' ferale e aspro di luogo incapace di emanciparsi dalla più vasta questione meridionale, e la questione meridionale diventa presto una questione personale. Le difficili manovre di avvicinamento a questa terra dalla ricca tradizione culturale e civile, ma incapace -o impossibilitata- a mantenere con la sua gente le promesse di un cambiamento che non la snaturi, durano tutt’oggi. Nel 2016, il Crastolla affronta un cammino in solitaria che dalla Puglia lo porterà in Irpinia lungo trecento chilometri di strade sterrate. Un cammino polveroso che, a testimonianza del tentativo mai arreso di appartenere al Sud, Crastolla condurrà senza soldi, con tenda, sacco a pelo e poesie da barattare per cibo semplice. La decisione di queste condizioni estreme, affonda – tra le altre cose -, nell’idea di mettersi in balia della vita per una pur piccola parentesi: una rivoluzione minima, intima, contro il mondo della pianificazione. Il mondo dato. Quello con la scrittura è un rapporto informale e complicato iniziato a sei anni. Si può dire che Crastolla scriva da sempre e da sempre lontano dai luoghi dell’accademia. Dal 2016 è membro di Versipelle, comunità poetica che attualmente conta autori virtualmente riuniti nel progetto Versipelleblog. Suoi testi sono stati ospitati in diversi luoghi della virtualità tra cui Word Social Forum e Nefele (qui, anche una sua intervista a cura enfant prodige della poesia Mattia Tarantino). Nel 2017 compare nell’antologia Paesaggi liberi, raccolta di poesie contro la violenza sulle donne. L’ignoranza della polvere* (2018), edito da Controluna con la prefazione di Giuseppe Cerbino, è la sua prima pubblicazione. 

Una recensione del libro*, a mia firma, è presente su questo blolg 👉Clicca qui per leggerla





sabato 2 aprile 2022

La solitudine della poesia. Punto di non ritorno

 di Federico Preziosi

Verrò alle tue macerie, ai calcinacci
franti ed ammansiti dalla tregua,
verrò quando farà silenzio il cielo 
e l'aridezza terrea non sarà
che ingombro dell'inferno nel richiamo
di cos'eri e sarai: sangue secco,
lingua increspata, luna di pallore
per chi vedrà e vorrà di nuovo l'uomo.




Federico Preziosi vive in Ungheria, insegna Lingua e Cultura italiana a Budapest. 
È fondatore del gruppo Poienauti, moderatore di Poeti Italiani del ‘900 e contemporanei 
e portavoce di👉 Versipelle
Collabora con exlibris20 e con Giuseppe Cerbino nella trasmissione web La parola da casa. 
Ha pubblicato Variazione Madre (Controluna-Lepisma floema). 
Per info/acquisto libro cliccare sul link👉Variazione Madre
Inoltre è autore presso 👉Readaction Magazine

lunedì 21 marzo 2022

La solitudine della poesia. "Fiore di primavera"

Di Maria Caputo

Con la dolce stagione, 
l'acqua, cede il posto al sole...
la natura, smorta, 
s'intinge di verde, 
sprizzato del colore dei fiori! 

E' tripudio sotto il manto 
prodigioso...
Festeggiano, con il cinguettar 
gli uccelli !
Iniziano le corti e 
gli amoreggiamenti!
Il regno animale si addolcisce...

Nel frattempo, un bimbo cresce e
diventa uomo...
Calato nell'armonia e 
nella pace dei sensi,
con il cuore, sempre più 
riscaldato!

E' anche lui pronto per amare...
in una stagione della vita,
dove la primavera,
ci sembra, davvero infinita! 



Maria Caputo. Poetessa, autrice di canzoni, nasce a Villamaina un paesino in provincia di Avellino, scrive poesie, e anche racconti da quando era ragazza. Ha pubblicato tre sillogi: SPRAZZI - TSUNAMI - NOTE DI POESIA 

Visita il sito dell'autrice: https://mariacaputoautore.altervista.org

lunedì 7 marzo 2022

La solitudine della poesia: "L' elefante nella stanza"

Tratta da "Poesie dell'indaco" di Andrea Sponticcia, Nulla die 2020


Ti ho mai parlato dell’elefante nella stanza?
Il nostro
all’inizio pareva soltanto un’altra cosa
gettata alla rinfusa
tra le tante.

Una similitudine senza corpo
a cui non dare peso
che col tempo però crebbe
e iniziò a occupare spazio.

Ci allontanava. Divideva ogni conversazione
in due silenzi.
Stava in mezzo, l’elefante, ed era
ora il punto zero, ora il fulcro vivo
di un bilico oscillante.

Noi sedevamo sulle sue estremità.
Tu salivi e io cadevo,
perduti nelle nostre metà
(la tua un amore vero, la mia un vuoto
sempre nero).

E l’elefante
così bello, così grande,
era l’unico male incolpevole
passato dalle nostre vite

ad aver tenuto unite
le nostre anime
quando tutto il mondo
se ne liberava

             pur di fare l’amore.

Per info sul libro visitare il sito internet:

*Andrea Sponticcia (Ancona, 9 febbraio 1992) è autore di cinque raccolte poetiche. Laureato in Scienze Umanistiche all’Università Carlo Bo di Urbino, nel 2017 ha vinto il 1° premio nella Sezione Epitaffi del Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del pensiero”, mentre nel 2021 si è classificato 2° nella sezione “Raccolta di poesie” della XXX edizione del Premio Letterario Città di Pomezia, con la silloge “Anime dive”. La pubblicazione di quest’ultima raccolta è prevista per la fine del 2022, per i tipi della Gangemi Editore. Dall’autunno 2021 collabora con l’associazione culturale “Poesia: femminile, singolare” in veste di recensore e articolista. Vive ad Apecchio, in provincia di Pesaro e Urbino.

venerdì 4 marzo 2022

La solitudine della poesia: "Da quando ti amo".

Tratta da "L'ira notturna di Penelope" di Antonella Sica - Prospero Editore                    


Da quando ti amo 
non so più cos'è 
l'amore. Lo sapevo prima
ancora quando 
solo desideravo 
eppure non c'era
in quell'elenco di cose
giuste per l'amore
che stringevo negli occhi
come spada.

Da quando ti amo
non esiste più l'amore
ma solo il tuo nome
e un posto dove siamo.



Antonella Sica, laureata in Lettere Moderne, è regista e manager culturale in ambito cinematografico. Ha fondato e diretto il Genova Film Festival e realizzato degli audiovisivi più volte premiati. Nel 2016 pubblica con Prospero Editore "Fragile al mondo", la sua prima raccolta. Nel 2017 vince il Premio Internazionale di Poesia "Città di Milano" con la silloge "La memoria nel corpo" (Rayuela Ed). Nel 2019 con "L'ira notturna di Penelope, ancora inedito, vince il Premio come Miglior Silloge al XX Premio di Scrittura Femminile "Il paese delle donne".

Per info sul libro visitare il sito internet:  www.prosperoeditore.com


*"La solitudine della poesia" è una nuova rubrica che va ad aggiungersi a: "Il canto delle muse. I libri del mio tempo" e "Senti la poesia"

venerdì 11 febbraio 2022

Magenta. Laura Serluca


Ho ricevuto "Magenta" dalla poetessa Laura Serluca che, quasi in punta di piedi, con una delicatezza soave ed estremo rispetto (doti decisamente "fuori tempo" in questo "tempo che si muove al contrario"), mi ha chiesto una "valutazione" della sua "opera prima in versi". Non tutti i libri che ricevo "valuto" (sia ben inteso li leggo tutti) perché ho deciso di dare attenzione (scrivendone appunto) a quelle autrici o a quegli autori che mi lasciano "qualcosa", ovviamente in positivo, a livello emozionale. Coloro che non superano questa preliminare scogliera non vengono "criticati", in fondo la poesia è soggettiva e non può anzi non deve piacere per forza, ma semplicemente non commentati. Non so fino a quando manterrò questa linea chiamiamola "personal editoriale" o di intendimenti...ma per ora è così. Che poi, la mia non è una vera e propria analisi critica ma più un viaggio introspettivo "dentro l'anima della poesia" per capire, con i limiti del caso, anche soltanto un po', la psiche, il pensiero, lo spirito, la coscienza di chi scrive. Ora comprenderete, da questo preambolo, che "Magenta" mi è piaciuto e per questo mi accingo a parlarne, scrivendone qui, sul mio blog, nella rubrica #IlcantodelleMuse. Partirei dal richiamare alcuni estratti della "Prefazione" scritta in collaborazione con il compianto poeta Domenico Carrara che così la presenta: "...una raccolta di poesie che gareggia - attraverso la parola- con il vuoto che affiora. Una burrasca d’immagini pronta ad attraversare la realtà e spostarla. È un precipitoso saccheggio di visioni. La poetessa sembra voler impugnare le strade irrazionali del sogno e congiungerle- attraverso la ricerca e la sofisticazione - all’abbondanza del ritmo e della musicalità (...)Laura Serluca in questa raccolta ha lacerato le sue paure, le ha guarite scortata dall’Arte, le ha vinte con le mani e l’argento. Le sue poesie sono radicate in una sensibilità bambina. Considero quest’opera un alfabeto fertile e gestante da leggere inchinandosi allo scompiglio che suscita per poi ritrovarsi in una vita immaginata e finalmente respirata".

Orbene, già questo stralcio basterebbe a chiarire la portata della poetica che Laura ha inserito in questo libro che, a mio modesto avviso, scandaglia nelle profondità dell'animo umano, con la passione e la tenacia di un "essere", che è donna e bambina al tempo stesso, che riesce a fare metempsicosi completa delle sue emozioni con il resto del mondo, con le sue storture e le sue bellezze che questo quotidianamente ci impone, come peso sul cuore e sul nostro senso di vivere, o ci regala come afflato di necessaria sopravvivenza. 

Ma se vogliamo, insieme a voi, proseguire nell'analisi, seguendo lo schema del testo, quindi passando per un'altra valutazione dell'opera fatta da Vanna Carlucci, si dovrà aggiungere: "...leggere questa raccolta di versi di Laura Serluca significa compiere un attraversamento. Certo, la Poesia rappresenta una dimensione di soglia, quel varco oltre il quale la realtà ci appare nella sua nuda verità, spogliata di tutto. Così Laura Serluca sembra rievocare tutta questa cosmogonia dell’attraversamento («di soglia in soglia», direbbe Celan) attraverso lo sforzo della ripetizione: - Perle / Da luogo a luogo /Perle / Da luogo a luogo – / - Perle.

Ed ancora, la stessa poetessa, nell'introduzione così si esprime: "La Poesia è testimone dell’incontro con la meraviglia del “sentire”. È un’armatura scucita riflessa in uno specchio. La si sente respirare piano, sorvegliandosi. È un altrove sospeso che fluisce impetuoso. Lo si sente screpolarsi flessuoso in una fortunata rinascita".

Allora mi sono chiesta, dopo tutte queste "valutazioni" a cosa sarebbe servita la mia? Cosa avrebbe potuto aggiungere a quello che, già così bene e così autenticamente, era stato detto di quest'opera? Non lo so, probabilmente la mia analisi andrà ad arricchire il bagaglio emozionale della poetessa perché si sa che ogni elemento nuovo, e aggiungo decisamente in positivo, che accompagna l'opera è qualcosa fortifica la necessità di continuare a scrivere, di non fermarsi per un eventuale inciampo di questa o quella critica poetica. Spesso mi rendo conto che chi fa poesia non ha bisogno soltanto di sentirsi letta ma anche e soprattutto capita nel suo modus operandi e quasi scoperta, ovviamente in minima parte e per quello che è possibile, nell'anima pulsante che si riversa, a cascata, nelle parole da dire, in quelle da non dire e che, per questo, creano la variopinta architettura della poesia stessa.  



Per questo lasciatemi partire dal titolo "Magenta" e dal significa che, a mio avviso, lo pervade. Il "magenta" è un colore che non fa parte dello spettro ottico: la sua tonalità non può essere generata con la luce di una singola lunghezza d'onda; può essere ottenuto mischiando quantità uguali di luce rossa e blu, e pertanto è il colore complementare del verde: il pigmento magenta assorbe cioè la luce verde. Con il giallo e il ciano, costituisce i tre colori sottrattivi primari. Dal punto di vista simbolico questo colore rappresenta: trascendenza, trasformazione, trasmutazione, cambiamento, passare in una nuova fase, alchimia, esperienza mistica e salto quantico. Elementi questi che a livello spirituale evidenziano il "chakra magenta" ossia una sfera di quel colore situata nella "radiosità" del 7° chakra, a circa 40/50 cm sopra la testa. Alcuni evidenziano in questo il punto dell'iniziazione, l'essenza del salto quantico. Ossia ogni volta che accediamo a un cambiamento di coscienza della nostra vita, quando accettiamo il mutamento di paradigma, questo avviene nella risonanza della frequenza magenta che si rispecchia anche a livello del chakra "profondo" del cuore. 

La consapevolezza di questo, di un evidente assioma di morfologico cambiamento, aspirante al dialogo serrato tra conscio e l'inconscio è insito, a mio avviso, sin dalla prima poesia "Il tuo volto sotterrato da segni/Diretti alla lampada del Cristo/Da giorni è ricoperto/ Di occhi ovunque/ Di occhi ovunque./Dal principio/ Incastrato e congiunto/Da una serpe/ In cornici grossolane e fiorite" (...) "Torno a sbucciarmi le ginocchia salate/E mi ricordo viola ovunque/ Con la Luna tra le gambe/ E animali apparecchiati nel petto./ Nelle loro bocche/ Galleggiano colleriche foreste."

La lirica che si dipana nel libro è emotiva, introspettiva e si allaccia alla percezione di un'entità che superiore avvolge le fasi vitali dell'esistenza: "Traffico negli occhi/ Furbi e caldi/ Dell’angelo allacciato a me/ Da spesse corde/ Costruite sullo slancio/ Di una radiosa promessa/ Dalla gloria compagna/ E dal fervore dei fiori tutt’intorno."

E il cosmo. nella sua immensa evoluzione e peccaminosa involuzione, insieme all'ego, al perspicace intimo abitante di ogni essere umano, a quell'inquilino a volte preponderante e potente, altre volte soggiogato dai casi della vita, si strappano e si sfilano reciprocamente per poi ricucirsi nell'agonia e nel singulto della "...potenza del sangue frenetico/ Trattenuto nell’ultima visione/ Tra iride e pietra/ Per proseguire/ Taciturno/ Sopra tutte le foglie./ Lo ritrovo poi sulle mani/ E sotto gli occhi/ Nel mio ventre sporcato/ E fasciato. "

La scia delle "visioni oniriche" che accompagnano le singole poesie sono collegate all'iper-surrealismo emozionale e sintattico della parola che scrive e dipinge mondi trascendenti, scale senza direzione o voragini che assorbono o cieli che appagano nella ludica e, a volte, empirica concezione dell'esistenza. 

Un punto di commistione e fusione di esperienze catartiche e di paralleli ambienti emotivi che si muovono a creare nella poetessa la grande dinamicità della parola e la sua tendenza a smuovere fanghi d'immobili presenti.  

Quindi cosa rappresenta il Magenta del titolo? Probabilmente essendo un colore in grado di stimolare desideri ed emozioni intense a questo l'autrice si rapporta nella colleganza l'originale e nella derivazione di quel rosso che richiama immagini legati al sangue e all'istinto di sopravvivenza nonché ad aspetti connessi alla sfera sessuale. Ma anche il verde, da cui trae complementarità, ci dice di una simbiosi essenziale con la natura, con quella dea Madre Gea che, appunto "genera" ogni cosa, sempre gravida di vita e sempre sottoposta alle cattiverie dell'umanità, che "germoglia" senza sosta pur se continuamente violentata dall'inquinamento derivante dalle umani attività, non solo materiali ma per lo più immateriali come l'odio, il rancore, la cattiva sensibilità o la completa assenza di questa.  

La poetica di Serluca appare come la "metamorfosi" della crisalide, perfetta simbologia del cambiamento positivo della naturale evoluzione alla luce anche di quelle vite che partono dal buio, stretto e asfissiante, originale. Un parto o una rinascita che evidenzia la nutrita anima vagante dell'autrice in viaggio costante come un'Odissea tutta al femminile sulle vie, di mare e terra, del mondo moderno, per alcuni versi ancorata al passato e poco (o in minima parte) rivolta al futuro. 

Si muove, senza restare nel suo mondo di tela, non solo "Penelope" ma anche il ricercato "Ulisse", nella battaglia più intima dell'autrice, comunque proiettata alla dimensione del bello, della crescita, della nuova fioritura, nonostante le agonie dei momenti, le rivoluzioni sofferenti dell'attimo o del tempo che si scaglia, rapace, contro i giorni a venire. "In ginocchio ti affronto fino a/ Fiorirmi/ Sentirmi imprecisa per l’intera metà/ Sono spettacolo e candela/ Nell’ombra ricucita/ Della stanza in preghiera/ Per costringere le vene/ Alla natura/ E tornare all’albero bianco."  

In questo pugnare, quasi senza sosta e senza una ragione apparente, la nostra poetica guerriera aspira al "re Birth" con le peculiarità di un Dio o una Divinità: "Io rinasco invulnerabile/  E avventurosa/ Nell’alfabeto svettante placo/ Gli allarmi della voce mendace/ Sorveglio i suoi corridoi disadorni/ E le sue scale di vetro e pioggia/ Calpestate/ Dallo schema e dall’ uovo."

E' proprio qui il simbolismo del "Magenta", non so quanto voluto o quanto automaticamente sentito come afflato di evoluzione, di rinnovamento, che viene maggiormente in evidenza, che si ramifica anche nelle possibili sopravvivenze dopo un'apparente sconfitta che tale non è se la vita è ancora legata al respiro quotidiano: "Sono sopravvissuta/ Su uno spicchio/ Di Luna - madre/ Ho abitato/ Il cesto e tutto l’ incendio/ Ho ascoltato/ L’Angelo e la Primavera/ E spoglia e splendore/ Sono stata condotta/ Nel bacio – tutto vivo/ Come corpo nuovo."

Nel bagaglio lirico dell'autrice "madre, luna, angelo, primavera" sembrano le quattro fasi delle stagioni più intime, alla cui esistenza appartengono, seppur marginalmente legate al ciclo di quelle terrene, che aspirano ad essere nido, sogno, fede, rinascita (nell'esatto e predetto ordine). Nell'entropia dell'humanitas la ricerca è a rimescolare le carte del disordine dei tempi per sistemare le aspirazioni, le speranze, i desideri di quiete, di pace, come in un lasciarsi andare nella corrente limpida di un "per sempre". 

Per questo la poetica di Serluca è, a mio avviso, anche "magia" svincolata dal tempo e dallo spazio. Un incantesimo naturale che accompagna il seme nella crepa della morte e lo fa risalire, dopo la distruzione naturale, a nuova vita, albero e frutto insieme. Un sortilegio che spinge la fine a diventare principio, miracolosamente, muovendosi dalla terra al mare in un viaggio bidimensionale e senza necessità di ancore di salvezza perché la salvezza è il principio stesso di quel "fruttuoso" peregrinare: "La crepa/ Scompare nello scomparire/ E nel ri-nascere ora/ Io sono miracolo – miniera./ Ho un cuore turchese – innamorato/ E sono tutta sparsa/ Fuori da questo frutto/ Che ritorna a mescolarsi/ Con la testa – conchiglia/ Dell’eroe – corteccia/ Che ha visto il mare/ Nella mia testa".

Ci sarebbero tanti altri mondi da analizzare, altre lune da visitare. altre entità da eviscerare così come infinite sono le porte che la poesia di Serluca apre in ogni singola creazione. Il lavoro di comprensione di un testo, di questo testo, dei suoi motti esistenziali, delle sue battaglie sentimentali, delle vite e delle inesistenze o parti mancati, ci parlano di una donna che comprende il dolore, lo fa proprio, lo rinnova e lo porta alla semina della speranza per farne frumento nuovo e utile a nutrire l'essere umano. 

Sicuramente la maggiore consapevolezza di questi mondi paralleli, nelle visioni astrali di chi scrive, delineano una sensibilità sovrumana, capace di stanare le paure più recondite, ripulirle, farle diventare cosa buona da utilizzare per imparare da queste a non cadere nei tranelli del quotidiano andare. La capacità di bonificare il male è un miracolo dei sensi, qualcosa che non facilmente si realizza ma quando viene portata a dimora nell'animo umano ha risultati spettacolari. La difficoltà sta nello scandagliare a fondo gli antri più nascosti ed oscuri, prendere quell'ombra che è in ognuno di noi e portarla in superficie, metterla sotto la luce del sole e delle nostre emozioni, l'iride attenta potrà rimanere sconvolta ma sicuramente riuscirà nell'impresa di fortificarci. Di costruire quelle difese utili a trattenere gli assalti del tormento. E la fede nelle potenzialità dell'essere umano, visto come: "...bambino inesploso/ Una locomotiva nutriente e prodigiosa/" ci restituisce la visione della centralità essenziale dell'uomo nella capacità di autorigenerarsi, di vincere le ingiurie delle patologie, di scardinare il concetto di medicina innaturale, agganciandosi alla capacità di autorigenerazione e di riemersione dal dolore.

Ci sono momenti in cui cadiamo in un abisso profondo, ci troviamo in un vicolo cieco e non sappiamo cosa fare. Sebbene in quel momento arriviamo a pensare che tutto sia perduto, alla fine abbiamo l’opportunità di abbracciare il nostro dolore e avviarci verso una rinascita emotiva. Non è un percorso semplice né veloce. Avremo bisogno di un piccolo esercizio di fede e sforzo: i risultati arriveranno dopo che avremo preso decisioni importanti e iniziato a impegnarci. Del resto "Come potresti rinascere senza essere prima ridotto in cenere?" lo diceva Nietzsche. Ebbene Magenta, come la fenice, prende il volo dopo un evento che le ha causato grande dolore e sofferenza guardando in faccia la propria angoscia e, con coraggio, decide di seguire altre direzioni. La prima di questa è "partorire" una poetica capace di  comprende l'incomprensibile, che si lega al Dio superiore ma che non disdegna di indagare sulle potenzialità interiori di ogni singola entità terrena, materiale, ossia fatta di sangue, carne ed ossa. Questo perché in ognuno di noi esiste una "divinità" in grado di mutare il corso degli eventi e di combattere col destino sempre in attesa di farci cadere in fallo. Nulla è banale o scontato. Nulla è davvero compreso sino in fondo. Permane un mistero che aleggia sulla sintassi, sulle parole, sui punti mancanti, sulle ripetizioni volute, sugli spazi e sulle paure, sulle mirabolanti creazioni dell'incoscienza e sulle realistiche immagini della coscienza. Un andirivieni di pause, slanci, corse, passi, senza fine e senza un percorso netto a cui aspirare. 

Leggere Magenta è come bere una pozione salvifica che, per alcuni istanti, ci annebbia la mente per poi catapultarci nella ricomposizione di tutti i pezzi del puzzle permettendoci di avere una visione nitida del tempo e del suo mutamento. E' energia che si origina da noi stessi, da quella fonte vitale che tira ed aspira dal terreno linfa utile alla crescita. Il centro del mondo è l'Io pensante, mutante, mai statico, complementare e dinamico, libero e primordiale, unico e raro, solitario e solstizio di plenilunio insieme. 

Concludo con la "visione prodigiosa" della poesia che sottoscrivo quasi come fosse un manifesto a cui aderire, principi sacri di cui non si può fare a meno per non essere considerato, ciò che si scrive, scontatamente "pensiero poetico" che, per sua natura, non è "poesia".

La Poesia è un guasto.
È un residuo.
È rinascere indietro.
È voce su altre voci.
È sangue recitato.
È ritmo che si sporge in avanti.
È tutto il corpo.
È bellezza sacrificata.
È segno di altri segni.
È il doppio sparso.
È silenzio che s’ingrossa.
È cucitura.
È radice che dice che si deve.
È pensiero che s’irrigidisce.
È Primavera che pulsa nella bocca.
È un Amore con le api intorno.
È prodigi

Dimenticavo un'ulteriore nota di merito a questo libro: l'accortezza e l'attenzione rivolta al lettore a cui l'autrice regala un pezzetto di quelle pagine per creare una sorta di commistione necessaria e ricercata per riscoprire, comprendere, espandere e veicolare qualcosa di magico: "A te che hai letto questo libro, lascio fogli bianchi per poter postillare i versi che ti hanno colpito, i tuoi stati d’animo, le emozioni o sensazioni che queste poesie hanno suscitato in te. Ti auguro di avvertirne la magia e di usare questo soffio di parole come tempio e respiro..." 

lunedì 24 gennaio 2022

Quello che non so di me. Antonietta Gnerre

Per spiegare la poesia di Antonietta Gnerre basterebbe fare una semplice analogia: le sue parole fluiscono meravigliose e vitali nello stesso modo in cui l'aria, attraverso il respiro, entra nelle nostre narici, discende nei polmoni e ci da nutrimento prezioso per altri momenti d'esistenza. 

E tutto avviene naturalmente, senza costrizione alcuna, spontaneamente, è necessità "unica" non mutuabile, che non può essere altrimenti. Dalla "normalità fisica" di questo atto, così essenziale alla nostra vita, trae spunto la conseguenza, immediata, di buttare fuori quello che è di troppo. Parimenti, come avviene nello scambio ossigeno-anidride carbonica, buono e cattivo, fuoriesce l'interiorità che ha bisogno di essere portata alla luce, data in pegno all'aria, alla leggerezza, per lasciare il dolore veicolare all'eterno e, magari, liberarsi di quei pesi, anche solo in parte, sino ad allora opprimenti. 

Pur tuttavia, nell'approntarmi alla scoperta della silloge di Gnerre, una domanda mi è sorta spontanea ed è stata, repentinamente, collegata titolo. Per quale ragione l'autrice ha scelto di dare questo incipit narrante alle sue poesie? Conoscendo la grande cultura di Antonietta la risposta mi è stata, sin da subito, chiara, prima ancora di addentrarmi nella successiva lettura. Parto col dire che "So di non sapere" è il paradosso socratico [attribuito a Socrate e pervenutoci attraverso il racconto di Platone] basato su un'ignoranza intesa come la consapevolezza di non conoscere definitivamente e a tal punto le cose che diventa il movente fondamentale del desiderio di conoscere. Furono proprio queste poche parole che, Socrate, pronunciò dinanzi alla giuria che lo condannò successivamente a morte e che rappresentarono un'aspra critica rivolta contro i sofisti, colore che “presumevano” di sapere, anzi, ne erano convinti. Se volessimo fare un parallelismo potremmo evidenziare che i sofisti erano come i tuttologi di oggi, persone che, su qualsiasi argomento dello scibile, presumono di sapere tutto ed hanno sempre qualcosa da dire. Un fenomeno, questo, che con i social sta raggiungendo dimensioni pericolosamente impressionanti. Ho voluto fare questo collegamento perché il “non sapere” è, anche in questo caso, un punto di partenza, e non un fine come molti suppongono, per ammettere la propria ignoranza. Come Socrate anche Antonietta sa bene da dove vuole partire: "la consapevolezza di non sapere è un invito a conoscere, ad indagare, per imparare, per andare oltre quel mondo ordinario del conosciuto. Chi crede di sapere ogni cosa segue uno schema prestabilito, in altre parole, non indaga, non sperimenta, non scopre, non conosce, non si pone domande e perciò rimane fermo, immobile, statico, attinge esclusivamente dalla propria memoria." Per questa ragione il non sapere è la "la forma più alta di pensiero" perché ben lungi da porsi come insegnamento apre un varco per scoprire un regno che non conosciamo davvero. Una volta liberati dai condizionamenti - dai serbatoi del nostro sapere o dalla memoria di ciò che immaginiamo di sapere e che non saranno mai abbastanza - riusciremo ad avere quel pensiero nuovo, aperto, anche fluido, che si discosta totalmente dal marmo delle più ottuse convinzioni.

Da questa chiara ammissione, da questo "svincolarsi dal sapere abbastanza" e che non è "mai abbastanza", c'è una dichiarazione d'indipendenza e di libertà di rivoluzionaria reminiscenza. Dalla consapevolezza della caducità della mente umana, troppo spessa vittima di saturi condizionamenti mnemonici, ecco che si apre l'originale dimensione della nostra poetessa, calata completamente nella Natura, da cui trae origine il suo mondo imponderabile e, allo stesso tempo, concreto, senza maschere di sorta, che ci permette di respirare con lei creando una sorta di simbiosi con il testo tale che termini e sintassi, legati dal filo rosso di quelle emozioni più intime, minuziosamente analizzate, ci svelano sentieri inesplorati eppure conosciuti ma che non sapevamo chiarire nei significati più reconditi. 

La Gnerre crea una "energia nuova" che riusciamo a fare nostra solo se ci impegniamo ad ascoltare ma anche, soprattutto, a interrogarci. Il focus è quindi tutto posto sulla domanda che ci sta di fronte; perché l’attenzione non sarà totale se cerchiamo una risposta. Per tale ragione, nel momento in cui riconosciamo, con ogni singola cellula di noi stessi, l'ignoranza davanti al mondo che ci circonda, non dovremo più fare affidamento alla memoria (ai nostri presunti bagagli di sapere) per trovare una risposta e, liberi dal condizionamento, da quella prigione, riusciremo ad avere l'esatta percezione, quella più immediata e diretta di tutto quello che sta oltre...ed è pronto per essere scoperto. Cosa che vale finanche per gli spazi che l'autrice dona alle parole. Una sorta di distaccamento dal noto, da quello che ci si aspetta essere il conseguente atto eppure è un rigo bianco in cui lasciar soffermare il pensiero, trarre ispirazione per quello che verrà dopo, liberare l'intuizione, la percezione immediata del quel che sarà. 

Quello che non so di me
è superiore alla pioggia.

Si rifiuta di cadere.

È una bellezza che resiste
al buio dei temporali.

È una piccola follia
che si ferma sopra le curve
della massa informe delle strade.

Quello che non so di me
conta gli anni dei fiumi,

tutte le mani che hanno lavato
le lenzuola. E le cose ferme a terra

tra gli abbracci delle piante.

C’è remissione nel naufragio dei miei occhi.

C’è supplica nel prestare attenzione
alle cose che mi mancheranno.

Tornando al lavoro poetico di Antonietta Gnerre dirò che si divide in cinque capitoli rubricati: 1. La misura dei nomi; 2. Mi dichiaro colpevole; 3. Futuro semplice; 4. Muscovite; 5. Era innocente. In ognuno di questi le poesie seguono la linea direttrice dell'incipit, creano uno schermo che proietta immagini e realismi, inquietudini, essenzialità liriche, tutte tratte dal microcosmo dell'autrice che si espandono all'esterno per radicare, immediatamente, la pianta al terreno, influendo sulla capacità delle radici stesse, di chi scrive, di dare ancora linfa alle parole, alle creazioni della poesia che deve saper parlare la lingua universale, con delicata magia, eclettica grazia, con il periodare snello, non sovraccarico, pulito, trasparente. 

E' un fuoco sacro quello che brucia nell'animo della poetessa e quella magnifica sacralità la percepiamo tutta così come avviene in quel dialogo che l'autrice ha con se stessa e riesce diventare, magicamente, come se si trattasse di un sortilegio che ci rapisce nel più inusuale dei modi, anche il dialogo che abbiamo col nostro Io che si muove, se non simile, allo stesso modo in cui si sposta e prende posto nell'anima della poetessa, della donna che raccoglie preziosi elementi di immaterialità per farne grano da distribuire agli affamati del tempo. Se il prezioso sotterraneo che viene disvelato può far propendere per il monologo la realtà del risultato svicola da questo e rifugge concretamente dal leziosismo in cui, molto spesso, i poeti inciampano quando credono di evidenziare realtà o verità universali che vadano bene per ognuno. In questo caso la Gnerre si discosta totalmente da tali egoismi stilistici, esercizi che poco le appartengono, anzi è completamente all'antitesi di questi. 

La Gnerre canta carmi di stupefacenti radicalità, prende ampie manciate di sofferenza, trova il modo di essere se stessa nella terra e nella vita che ha deciso di vivere con l'apprensione di chi non solo interiorizza il mondo che la circonda ma, da quell'universo di cose, case, persone, condizioni, percezioni, sentimenti, emozioni, drammi, dubbi, cerca il modo di ottimizzare riflessioni che servano alle generazioni per non fare una poesia fine a se stessa ma dedicarla, in larga parte, all'amore e, altresì, all'impegno civile, di chi resta costantemente attenta a ciò che si muove dentro e smuove l'umanità.  

Come riesce nell'intento, difficile, di giungere al frutto per discendere al primordiale germoglio e, addirittura al seme, da cui tutto parte e si sviluppa? Lo fa con una innata capacità letteraria che la contraddistingue, nelle stesse parole utilizzate, nelle metafore definite, nell'ellissi che si sfidano nella musicalità dei testi, ogni elemento nasce per la ragione classica che sovrintende ad ogni venuta al mondo: generare vita e bellezza, sia essa materiale, corporale, sia essa metafisica, anima, spirito immateriale che pesa più del corpo stesso che l'avvolge per non mostrarsi a chiunque. 

Ed ancora nella crasi di un bacio, punto e sorgente di vita e luce, di "fioriture" emotive e sentimentali, si comprende la grandezza di chi sa diventare atto e patto d'eternità, da cui prendere gioia, in cui rifugiarsi, in cui lasciarsi andare alla resa dell'amore, di quella universale dimensione dell'atto che può essere sia fine a se stesso sia rivoluzione e creazione, mare e vento, terra e pietre dove gli esseri umani s'involvono e s'evolvono sino a perdere fiato. 

Se ti bacio è perché fiorisce,
da un ramo a un altro,
questo tempo di baciarti.

Baciandoti sfioro il rifugio della radice,

la luce che risale dalla muscovite
dei vulcani. L’albero che ti separa dal cielo,

la stella che ora stai fissando.

Bacio te come il vento bacia l’erba
come la terra le pietre.
Come il mare le barche che veleggiano.

Baciandoti, bacio ciò che non cambia in me.

In questo disvelamento della vita che pulsa dentro chi scrive e che cola nelle parole, nella costruzione emozionale dei versi, ogni elemento si incastra perfettamente senza sbavature, senza inutili orpelli, ogni cosa prende ispirazione dalla penna della poetessa e ne da altrettanta a chi legge, in una variopinta definizione quanto mai indefinita di quel magma interiore che appartiene ad ogni singolo vissuto. Così identicamente la ricerca dell'amore, di quel rincorrersi delle anime legate da affinità elettive ed empatiche, di quel sentimento che supera ogni distanza, anche quelle obbligate o, addirittura, destinali, diventa il motivo, la necessità, l'aspirazione a viverlo senza pretese, con la naturalezza del corpo che si lascia andare al sonno.

                                              Sono la foglia del ramo che ti parla.

Quella che cerca di stare con te
quando fuggono le radici.

Ho imparato ad ascoltarti
quando tutto si rivolta dentro i pensieri.

E ora vorrei raccogliermi sul tuo sonno.

Amarti di più, null’altro.

Entrare con la mia follia
nel futuro che stai guardando

Le visioni di Antonietta creano nuovi percorsi anche nelle difficili fratture della sua terra, l'Irpinia a cui va la dedica più viscerale, carnale, sanguigna, spazio carico di karma e di essenzialità purissime che si innestano nella dimensione più cosmica e verde, particolarità ponderali ma che sfuggono agli sguardi disattenti. In questo peregrinare, tuttavia preciso, nella linea di confine e negli spazi che si aprono alla scenografia della vita, sento la voce, il richiamo, la costanza e la tragedia di chi permea il fuori per disvelare il dentro che bussa e pretende ascolto e dal proprio margine emozionale vuole trarre medicamento per la guarigione: "Se ho pianto è perché sono stata al buio/ con un peso/ capovolto di assenze./ La nave inclinata nella sua rotta/i sogni non infilati/più tra le stelle./Se ho pianto è perché le preghiere/ rientravano e uscivano/ da una linea/ sottile di menzogne."

Ed anche quando cammina su altre strade, il più delle volte buie e retrospettive di aliti rapaci, la meraviglia crea nuove scenografie di sguardi, di prospettive, un tutt'uno che si forma dai tanti pezzi sparsi, ricondotti all'essenzialità dell'essere. Nel solco di Antonia Pozzi mi sovviene, l'elegia della terra, del locus che si catapulta a diventare genesi di ogni percezione e afflato vorace di trasparenza che la poetessa crea nella calligrafia del paesaggio con simboli e metafore che si accompagnano dalla soffice nuvola sino alle braccia materne, costrutto di emozioni senza tempo e spazio. 

Altresì la "mancanza" è comunque una percezione preponderante che smuove l'animus della poetessa che non riesce a comprendere come parlare a quell'assenza, come fare a trattenere i dubbi, come direzionare i desideri per farli realizzare. Nella consapevolezza, genetica, di non riuscire in quell'impresa c'è il riuscire ad essere vera, autentica. 

Le foglie qui si spostano in ciò che manca.
Nessuno ha imparato a trattenerle.

Ciò che non so dire alle foglie
non lo so dire a me stessa.
Eppure sono contenta di averle viste anche oggi.
Sono grata al vento, al secchiello che sta in ascolto.

Il mare riporta indietro,
poco sopra all’orizzonte, un nuovo colore.
Devo rifare tutti i pensieri daccapo, ora
calcolare la distanza della mia terra,
una distanza che prego lentamente.

Ed ecco che la foglia ritorna, come già apparsa in diverse poesie, tale che può essere considerata come il sintomo di un distacco da cui si rifugge o la leggerezza a cui si aspira, oppure, a mio modesto parere, il simbolo di crescita, di fertilità e anche rinnovamento: "Ora è il tuo tempo./Devi riemergere./ Abbraccio dopo abbraccio,/ indumento dopo indumento./ In alto ci sono i frammenti del tuo presente./ La resistenza della tua memoria./È ora di cercarti nel futuro." O, ancora, il capitolo "Futuro semplice" si apre con questa citazione di Cynthia Zarin: "Le stelle sono spillate tra le foglie degli alberi". 
Soffermiamoci un attimo a pensare, in primavera gli alberi srotolano le foglioline verdi, in estate si mostrano grandi e forti e, invece, in autunno si richiudono su se stesse seccandosi per poi cadere. Questo ciclo vitale direi che assomiglia molto alle fasi della vita di un essere umano, nasce piccolo e delicato, cresce forte e robusto, invecchia riempiendosi di rughe e poi muore. Tale simbolismo assume, in Cina, rilievo nell'Albero Cosmico, dove ogni foglia di questo albero rappresenta ogni essere dell’Universo. La foglia è altresì simbolo di felicità, spesso riversata nei tatuaggi. Ed ancora, i grandi imperatori, i grandi letterati oltreché rilevanti esponenti  della società hanno sempre indossato corone di foglie per simboleggiare la vicinanza alla divinità e la vittoria. Nelle varie culture vediamo, ad esempio, come foglia di alloro rappresenta significati differenti: nella cultura amerinda simboleggia la madre Terra; nella cultura celtica simboleggia il punto di intersezione tra il mondo celeste e quello terreno; nella cultura cinese simboleggia la forza bruta maschile che non si piega ma si spezza, in antitesi con la forza che si trae dal salice che sa piegarsi e non spezzarsi; nella cultura cristiana simboleggia la forza di contrastare le avversità, la fede e la virtù; nella cultura dei druidi simboleggia il maschio; nella cultura romana simboleggia la salvezza della vita, infatti veniva donata una corona di queste foglie a chi salvava la vita di qualcuno; nella cultura greca simboleggia devozione e felicità coniugale; nella cultura scandinava simboleggia la vita.
Ovviamente, qualunque significato vogliamo dare, resta salda la multi-focalità della visione che ci offre in dono la Gnerre, Molteplici e differenti sono gli occhi che guardano e si soffermano sulle cose della vita dando sempre risposte non univoche. Ed è proprio in questa eterogeneità che la poetessa trova dimensione per inserire anche la sua idea, percezione, concetto, senza pretendere di sovrastare le altre o essere linea direttrice o addirittura imperativo categorico. Come ho detto nell'incipit la poesia di Gnerre si respira ed è così che se ne comprende l'originalità e lo splendore. 

Credo nel pane della vita e in quello della rinascita.
Nella forma che si abbraccia di nascosto all’alba,
come una preghiera che sa attendere.
Credo negli esseri felici, quelli che insegnano a sorridere,
a guardare con ammirazione un animale nel bosco.
A piangere di gioia per il salto dei pesci nel mare.
Io amo tutto il pane che è stato impastato
dalle donne della mia famiglia.

Concludo con questa dichiarazione di fede della poetessa che basterebbe, da sola, a sintetizzare tutto quanto sin qui detto e, soprattutto, quello che non è stato detto. La fiducia nella vita, nella rinascita, nella genesi della felicità e dei sorrisi che si liberano nella semplicità della vita naturale e animale il tutto in simbiosi con la figura del pane, di quel lievito che fa crescere, sviluppare, generare, nutrimento, famiglia, coraggio, cibi del corpo e della mente da cui non si può, perché non si riesce, ne moriremmo, prescindere. 

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Dalla prefazione di Alessandro Zaccuri: “Di solito una poesia chiede tempo per svelare il suo segreto. Non soltanto in termini di lettura ripetuta e meditata, ma anche al primo incontro, quasi a colpo d’occhio. La frase decisiva si manifesta spesso sul finale, lungo una progressione che fa della pointe (l’immagine esatta, l’acutezza illuminante) la clausola stessa della composizione. Le poesie di Antonietta Gnerre seguono il percorso inverso. Si aprono con versi che già annunciano quanto verrà dopo, come in una mise en abyme anticipata ma non precipitosa. Viene in mente lo specchio che nei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck riassume e nello stesso tempo capovolge l’intera scena. La contiene e, contenendola, la interpreta. «Quello che non so di me / è superiore alla pioggia», recita il distico dal quale proviene il titolo di questo libro, con il quale la scrittura di Gnerre ritorna sui temi che più le sono caratteristici, rielaborandoli però in una prospettiva di ulteriore complessità. Quelli appena citati sono i versi iniziali di una poesia che, con studiata consapevolezza, si incontra ben oltre la metà della raccolta, in una sezione posta sotto l’emblema arcano e affascinante del muscovite, il cristallo dall’aspetto tagliente che ben simboleggia l’affilato desiderio di precisione senza il quale nessuna avventura poetica potrebbe essere intrapresa. L’equivalente minerale della ginestra leopardiana, in un certo senso, se è vero che una stessa sostanza tellurica presiede all’ostinato fiorire dell’arbusto sulle pendici del Vesuvio e alla «luce che risale dalla muscovite / dei vulcani» celebrata da Gnerre in un canto d’amore nel quale, non casualmente, a manifestarsi per primo è il profilo di un albero: «Se ti bacio è perché fiorisce, / da un ramo a un altro, / questo tempo di baciarti».

Titolo: Quello che non so di me
Autore: Antonietta Gnerre
Prefazione: Alessandro Zaccuri
Collana: Interno Libri
ISBN: 978-88-85583-57-3
Data di pubblicazione: 23 marzo 2021
Pagine: 92
Formato: 11×17 cm

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