A proposito di "Momenti" - Stefano Acierno
Prima di iniziare il viaggio, immagina di trovarti in mezzo al mare, avvolto solo dal silenzio della notte, senti l'aria leggera come un sogno che, ovattato, ti abbraccia?
Intorno a te, il mondo sembra (quasi) trattenere il fiato, mentre la luna disegna sul profilo una sagoma che ti appartiene solo per metà, è quella la parte esposta, l’altra è al buio. In questo “momento” avviene la trasformazione: diventi un Argonauta.
L’argonauta simbolicamente evoca l’avventura, la ricerca e il desiderio di superare i limiti conosciuti per raggiungere l’ignoto. Nel mito greco è uno dei valorosi eroi che salpa con Giasone alla volta della Colchide, per ottenere il vello d'oro (il termine "argonauta" deriva infatti dalla nave "Argo", la leggendaria imbarcazione che trasportava questi eroi in un viaggio epico e pericoloso). Rimanendo nel contesto mitologico, sono personaggi che incarnano l'idea di intraprendere un cammino arduo e spesso incerto, con la speranza di conseguire una grande ricompensa, ma anche consapevoli del rischio e delle sfide che si presentano lungo il percorso. L’impresa è vista come una metafora della ricerca dell'ideale, della bellezza o della verità, a fronte della consapevolezza che l’obiettivo potrebbe rimanere sempre parzialmente irraggiungibile.
Se, invece, vogliamo espanderne il senso, l'argonauta diventa simbolo di chi affronta il viaggio della vita. L'eroe che solca mari tempestosi alla ricerca di qualcosa che sembra lontano o difficile da raggiungere. Il viaggio stesso, più che il traguardo, è ciò che definisce l'argonauta, un'esperienza trasformativa che plasma l'individuo e lo prepara ad affrontare le sfide che incontrerà lungo la strada.
Sei diventato, quindi, l'immagine di chi non si accontenta della sicurezza della terraferma, ma che ha il coraggio di salpare, spinto dalla curiosità e dalla necessità di scoprire, di comprendere, di dare un senso profondo alla propria esistenza. Come l'eroe mitologico che cerca il vello d'oro, puoi benissimo essere visto come un argonauta alla ricerca di qualcosa che non è mai completamente raggiungibile, ma che rende il cammino stesso significativo e prezioso.
Ed ecco, in quella ricerca, apparire la bellezza in forme invisibili, come un’ombra di nostalgia che si conficca (delicata) nel petto e si spinge fino a sollecitare il cuore. È un tenue lampo, luminoso, che rischiara la mente, un battito che scuote l’intimità senza fare rumore. Questo perché, quella vera (bellezza) non chiede di essere osservata, ma si offre, spontanea, a chi è pronto a vederla. Non è solo ciò che splende, ma anche ciò che si nasconde, nell'angolo più remoto del pensiero, nelle pieghe del ricordo, nei frammenti di ciò che è stato e non sarà mai più.
Deve esserci qualcosa d’infinito ed infinitesimo nel suo mistero, un'inquietudine dolce (e crudele al tempo stesso) che avvolge tutto, come il mare che non conosce confini, che abbraccia ogni cosa senza chiedere permesso. E, mentre si mescola al tempo, si fonde con i colori che il cielo regala all’alba, si nasconde nel riflesso dell’acqua, nella carezza d’assenzio di una brezza leggera. È un filo sottile che collega ogni attimo al successivo, un’increspatura che sfiora la superficie della vita, senza mai affondarci del tutto. Somiglia quasi al canto delle sirene che, senza emergere, senza mostrarsi, echeggiano, nel ventre della notte, un richiamo che non si può ignorare. È dolce, lontana, di miele fruttata, sembra provenire da un altro mondo, dove il tempo non esiste, dove ogni desiderio è un sogno che si tuffa per disintegrarsi in mille forme e riemergere in altrettante, sempre diverse, mai uguali. Ma è un richiamo che può perdere di senso, che può svanire nel mistero di ciò che non possiamo mai possedere completamente. Perché la bellezza, forse, non è mai davvero nostra. È solo un respiro che passa tra le narici, o che scivola come sabbia calda, tra le dita, insieme al ricordo dell’estate e della sua calura, lasciandoci la sensazione di aver vissuto qualcosa di immenso eppure inafferrabile.
In questa assenza di suono, senti la risacca delle singolari onde, che tranquille, smuovono un po' la staticità della barca, in cui ti trovi e, da quel leggero movimento, nasce “il momento” e la riscoperta della poesia. Non quella che ci insegnano sui banchi di scuola, non la poesia definita e codificata nelle parole che restano ferme sulla carta, ma quella che si svela nella spontaneità degli attimi e quindi “momenti”, nella vibrazione eclettica di un incontro, di uno scontro, nell’istante in cui il cuore batte, cavallerizzo, e la mente si libera, denudandosi, da ogni costrizione. La poesia che si fa spuma classica sul dorso del mare, come la divinità da che da questa viene al mondo, non è solo un'arte da contemplare, ma una forza che risveglia, che ci invita a vedere l'invisibile, a sentire l’impalpabile, a vivere l’attimo senza paura di perderlo.
E senti forte il ritorno a quella visione pura del mondo che spesso dimentichiamo, sommersi dalla frenesia del quotidiano. È un atto di liberazione per ritrovare il linguaggio segreto (naturale) che collega tutte le cose e, quando l’eco di quel canto svanisce, rimane una traccia nello spirito, una scintilla che brilla nel desiderio di cercare, senza sosta, ogni giorno, il “canto delle sirene”.
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Ora che sei in questo habitat soggettivo (ma capace di espandersi all’universale) andiamo a valutare, insieme, i testi che si muovono tra introspezione, memoria e osservazione del reale, incastonando emozioni profonde e riflessioni universali.
Attraverso immagini vivide e intime, il poeta interroga il rapporto con la storia, l'amore, il divino e il tempo. L'opera si divide in diversi temi principali: il legame con la terra e la tradizione, la sofferenza e il desiderio umano, il sacro e la memoria personale. Nel poemetto "Baiano", la terra natale è evocata come uno spazio vivo e sacro, permeato da luce e memoria. La collina d'argento, gli ulivi e il mare scintillante evocano un luogo di appartenenza ma anche di distanza, con una nostalgia che avvolge il lettore. Le descrizioni sono dense di immagini, come in "pietre vive a gradoni" o "boschi, da cui intravedere, digradante, la strada, la 'storia', le 'civiltà', il Vesuvio". Qui si coglie una dimensione esistenziale del paesaggio, che diventa un riflesso della vita e del tempo, mentre Heidegger potrebbe essere evocato nel concetto di Dasein (essere-nel-mondo), dove il legame con il luogo definisce l'identità dell'individuo.
Nel "Il tuo nome, Cristo", il poeta affronta la figura dell’Ecce Homo non solo come simbolo religioso ma anche come icona dell'umano, rappresentandolo nella sua sofferenza ("nudo, lacero, stremato") e nella sua forza rivoluzionaria, con "paradossi sociali, eresie del pensiero". La figura divina è quindi colta nella tensione tra umano e trascendente, simile alla poetica di autori del Novecento come Ungaretti o Mario Luzi, che indagano il divino come presenza viva e dolorosa nel quotidiano. Figure come Vladimir Majakovskij e Massimo Cacciari sottolineano come la fede e la figura del figlio di Dio siano oggetto d’interrogativi sia di artisti che di filosofi in chiave esistenziale e critica.
Nel ciclo poetico sull’amore ("Io ti amo"), il poeta esplora l'intensità e la contraddizione del sentimento amoroso. L'amore è totalizzante e impossibile, e il poeta si abbandona a esso anche quando riconosce che è non corrisposto: "Io ti amo. E tu non vuoi. Tu non puoi.". Questo tema, ricco di pathos, richiama la lirica amorosa novecentesca, per esempio le poesie di Montale o Quasimodo, che descrivono l'amore come anelito e mancanza. La ripetizione insistente e l’uso della paratassi esprimono la frammentazione del sentimento e della ragione: "Perché soffro, sempre, quando non rispondi". Il ritmo sincopato riflette un'emotività esasperata e autentica.
In "Senza tempo" e "Mia madre", il poeta esplora il ricordo dei legami familiari come ancore emotive che sopravvivono al trascorrere del tempo. La madre è descritta come figura vivida e trascendente: "Bella, esprimeva luce. Aperta, trasudava vita, inondava il cuore.". Questo componimento incarna una riflessione universale sull'amore filiale e sulla perdita, temi cari anche a Cesare Pavese, che vedeva nelle radici familiari un punto di partenza per comprendere il mondo. Qui lo scorrere delle lancette è visto come un flusso senza misura, che tuttavia viene fissato nella memoria. L'eco leopardiano è evidente nel senso di ineluttabilità della perdita.
Le immagini di viaggio e salita (come in "Baiano") rappresentano l’anelito umano verso qualcosa di più grande: il mito, il mondo, la comprensione. In queste poesie, la natura è al contempo rifugio e sfida, un luogo dove l'individuo si confronta con i propri limiti: "Uno sguardo e un mito fuggente sulla bocca di qualcuno.". Qui Montale suggerisce la natura come metafora dell’esistenza e del desiderio.
In Stefano Acierno si concentra sull'armoniosa fusione tra introspezione personale e senso del collettivo, intrecciati a un afflato filosofico e spirituale che riecheggia la sensibilità di poeti del Novecento, come Montale e Neruda. In ogni verso esonda l’anima e quel dialogo costante con l'individuo in cui lo spazio interiore, è ben radicato nei temi universali della natura, dell'amore, della comunità e della trascendenza.
Così "Ex Arce" esplora il legame tra l'essere umano e il genius loci, evidenziando la sacralità della natura come un ponte tra passato e presente: "Fra Greci e Romani si ritenne / che i boschi fossero casa di divinità." La narrazione del rituale comunitario dell’albero totemico evoca una nostalgia per i riti arcaici, dove l’armonia con il sacro si rifletteva nel senso di identità collettiva. L’approccio richiama la sensibilità di poeti come Seamus Heaney, che intrecciavano paesaggio, storia e spiritualità.
L’amore è, invece, rappresentato come un’esperienza struggente e totalizzante. Nelle poesie "Io ti amo" e "Disperante", Acierno scava nel dolore della distanza e nell’inadeguatezza dell’amato, raggiungendo una tensione lirica che riecheggia Neruda e il suo senso di malinconica ineluttabilità: "Perché soffro, sempre, quando non rispondi." "Sempre intercettando l’anima, / prostrandola." Sembra di essere catapultati di peso nelle vene di un amore tormentato che riflette, e lo trascende, il dissidio moderno tra passione e razionalità.
In "Speranza" (che ben può legarsi anche a "Il tuo nome, Cristo") emerge la riflessione religiosa e metafisica, dove Cristo incarna il riscatto dell’umano dalle piaghe asfittiche del dolore, sublimato in speranza, come in Paul Celan o Ungaretti: "Che si risani, che si riscatti, / si sublimi." La spiritualità si intreccia con l’indagine filosofica, evocando anche pensatori come Simone Weil.
"Degenza" e "Adesso" analizzano il tempo e la vita nella loro fragilità quotidiana. L’immobilità dell’ospedale, così come la quiete contemplativa del presente, risuonano con le riflessioni leopardiane o montaliane sull’accettazione dell’attimo: "Mi basta adesso che il sole / carezzi lo sguardo." Il distacco verso il passato diventa accettazione del presente, esprimendo una maturità esistenziale.
In "Copiando Neruda", il poeta si rifà esplicitamente alla poetica sensuale e naturale del maestro cileno: "Il tuo profilo ha il segno / di un panorama struggente." L’arte appare come veicolo per sublimare il desiderio e affrontare le emozioni.
In un dialogo costante con il Novecento, Acierno sviluppa ed intreccia temi vicini ai grandi poeti del secolo in particolare: a Montale è legata l’indagine dell’interiorità attraverso paesaggi e oggetti (genius loci, mare, vento) e rammenta le "occasioni" montaliane; a Pablo Neruda è legato l’uso sensuale del linguaggio per evocare amore e natura; a Pier Paolo Pasolini è legata la celebrazione della comunità e delle tradizioni popolari, vista attraverso una lente nostalgica e critica; a Majakovskij, citato esplicitamente, è legata la tensione tra il sacro e il profano, il grido di redenzione sociale. Ed ancora, potenti sono le riflessioni sul tempo (soprattutto in "Adesso") e sulla spes cristiana. Esse richiamano, per molti versi, le meditazioni di Heidegger sul Dasein e quelle di Gabriel Marcel sull’essere e la fede.
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A proposito della prefazione…
Potrei definirla un testo a parte, un racconto con acuti richiami epistolari, non scisso dalle liriche ma decisamente intimo, quasi ancestrale. Qui l’autore si svela pudicamente, senza liberarsi completamente dei
segreti che mantiene a mezz’altezza tra detto e non detto, e racconta il suo viaggio personale nel mondo della scrittura. Non è difficile percepire un senso di umiltà e di rispetto verso l’arte poetica: l’autore non pensava di trasformare i suoi versi in un libro, eppure, spinto dalla passione e dall’incoraggiamento dei suoi familiari, ha deciso di raccogliere i suoi pensieri e condividerli. La scrittura, descritta come un’attività quasi casuale e spontanea, assume però un peso crescente. All'inizio, le poesie erano solo "ghiribizzi", esercizi senza pretese, ma con il tempo diventano qualcosa di più profondo e questo lo porta a riflettere sul valore della semplicità, ispirandosi a maestri come Ungaretti, e sull’importanza di esprimere emozioni autentiche, capaci di toccare chi legge. La poesia non deve essere per forza perfetta nella forma, ma deve trasmettere verità e creare un legame tra scrittore e lettore. Tema centrale resta comunque il conflitto tra il desiderio di esprimersi e la paura di svelarsi troppo. L’autore ammette di essersi frenato più volte, temendo di portare alla luce parti troppo intime di sé, ma riconosce anche che l’autenticità è quello che maggiormente conferisce valore alla scrittura. Questa tensione tra il bisogno di comunicare e la ritrosia personale rende il libro un atto di coraggio, un tentativo di "riscattare i propri sentimenti", come scrive.
Le tracce tematiche, spesso legate all’amore, gli offrivano uno spunto per esplorare emozioni universali, talvolta mescolando esperienze personali e fantasia. Questo processo di immedesimazione è interessante, perché dimostra come la poesia possa nascere sia dall’interiorità sia dall’osservazione di ciò che ci circonda. Non è necessario parlare direttamente di sé per essere autentici: l’empatia e la capacità di toccare temi condivisi rendono i versi credibili. Un altro aspetto che considero importante, da sottoporre all’attenzione di chi legge, è il riconoscimento della poesia come specchio della psiche. Anche quando si cerca di mascherare i propri sentimenti, la scrittura tradisce inevitabilmente qualcosa di noi. L’autore richiama la psicologia per sottolineare che ogni narrazione, anche di fantasia, contiene frammenti della nostra identità. Questa riflessione trasforma la raccolta in una mappa dell’anima.
Un elemento commovente è l’omaggio alla zia Tina, le cui poesie sono state inserite alla fine del libro. L’autore parte dalla forza e modernità di questa donna, che ha vissuto in tempi difficili, segnati dalla guerra e dalle privazioni. Tina genera versi carichi di nostalgia (mai pesante) e ricordi di gioventù che aggiungono una dimensione storica e familiare al libro, rendendolo non solo un’opera personale, ma anche un ponte tra generazioni.
Di questa mi piace evidenziare la poesia "Ritornerà la neve" un’Odissea interiore ed un incontro simbolico tra l'essere umano e l'animale, e, in un senso più ampio, con il tempo e l’esistenza. Anche se la poesia si presenta con una forma libera, non rigidamente metrica, alla lettura assume una certa musicalità creata dall’uso di ripetizioni e parallelismi. La ripetizione del verbo "tornerà" sottolinea la ciclicità e il ritorno di ciò che è familiare, mentre la ripetizione del concetto di "volpe" crea un focus emotivo sul suo significato simbolico. "Tornerà per dirmi che nulla è cambiato, ma è solamente tempo d'aspettare" ha una forte sonorità e afflato ritmico che enfatizza, quasi esasperando, la sensazione d’attesa e speranza. Il verso è costruito in modo da avere un andamento alternante con immagini concrete e momenti di riflessione più introspettiva.
La neve, che ritorna ciclicamente, può simboleggiare il passaggio del tempo, la quiete, ma anche un nuovo inizio, come una pagina bianca che attende di essere scritta. Il gesto di "picchierare sul ghiaccio coi badile" richiama un atto di lavoro e di preparazione, ma anche di sottomissione alla natura, come se l’autrice cercasse di fare i conti, senza tuttavia riuscirci per le destinalità del tempo, con un aspetto immutabile della realtà.
Le "briciole" gettate agli uccelli suggeriscono, invece, un atto romantico di cura, un gesto (piccolissimo) di generosità e connessione con questi esseri viventi, simboli di libertà, testimoni di un mondo che migra, torna, e si ripete in una routine che non muta.
La figura della volpe è, invece, l’animus pulsante della poesia e rappresenta sia la natura selvaggia sia la consapevolezza profonda della condizione umana. Un animale (declinato al femminile) "ostinata" e "triste", simbolo di resistenza e di (profondissima però) malinconia. La volpe non ha bisogno di parole per comunicare la sua essenza, il suo messaggio è nel suo comportamento, nella sua presenza.
Il ritorno della volpe "ostinata" rappresenta una costante nel ciclo della vita, che si ripete senza un cambiamento sostanziale. La volpe che non è la stessa dell’anno prima suggerisce che, pur nella ripetizione, c’è una mutazione, seppur impercettibile. Ogni ritorno è in qualche modo diverso, ma in fondo l’essenza della vita rimane la stessa: un continuo alternarsi di attese e ritorni.
Il "tempo della volpe sarà il mio" è una riflessione sulla battaglia incessante da tenere con il coraggio e sulla speranza. La volpe è coraggiosa nel non temere né il buio né i cani, e l'autrice s’identifica con questa forza, desiderando acquisire la sua stessa serenità. L’attesa non è però un’attesa passiva: è una speranza che, pur consapevole della realtà del cambiamento, guarda al futuro con determinazione.
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Qualche rilievo e aderenza al passaggio critico del Dott. Colucci sul testo di Acierno
Concordo con il declinare il libro tenendo (ben) presente una “lettura unitaria” delle poesie e focalizzando l’attenzione sulla tematica della nostalgia, sentimento legato al ricordo, che si radica nel cuore e suscita il dolore della perdita.
Sicuramente le sue molteplici sfaccettature emergono senza possibilità di segretezza: 1. Nostalgia della natura e dell’infanzia, luogo di rifugio e di riflessione, ma anche un simbolo di ciò che è senza confini e di ciò che appartiene a tutti. 2. Nostalgia come funzione catartica, "anagogica", che eleva l’individuo e lo guida attraverso le difficoltà della vita (vista come un filo di Arianna che aiuta a orientarsi nel labirinto dell'esistenza, rendendo possibile il recupero delle esperienze e dei luoghi perduti). 3. Nostalgia che genera la poesia come strumento di recupero emotivo, per riconnettersi con il passato, con il "canto delle sirene" che tocca l’anima e risveglia la memoria delle esperienze vissute. Eppure il ricordo che non è solo memoria mentale, ma un richiamo emotivo che coinvolge la radice del cuore. Il termine greco nostos-algos esprime il dolore del ritorno, e la poesia di Acierno esplora questo tema come una riflessione sulla perdita e sul desiderio di ritorno a luoghi e momenti passati.
Il rilievo, poi, dell’aspetto politico e comunitario, tra cui il "genius loci", i luoghi dell'infanzia, e la connessione con le origini e la comunità, diventa una risposta essenziale alla divisione e alla frammentazione sociale, ponendo la nostalgia come quarto concetto: unione e riflessione collettiva.
Degna di nota la citazione di Platone unita al concetto della conoscenza come rimembranza, insieme al mito di Ulisse come paradigma di tutte le nostalgie, che può essere interpretato sia come rimpianto del passato, sia come desiderio di ritorno alle origini (nel contempo Acierno esplora anche il concetto dell’"amor fati" (l’amore per il destino) che abbraccia la nostalgia come un atto (conclusivo) di accettazione