PENSIAMO ALL'AMORE...


Alla fine dei conti, se è vero che il sentimento nasce da un’emozione è altrettanto vero che quel sentimento ha bisogno dell’emozione stessa per vivere. Da questa prende nutrimento, linfa, per crescere, evolversi, o mantenersi stabile nel tempo. Pensiamo all’amore, il sentimento per eccellenza. Anche qui la caratteristica preponderante è un forte investimento di affetti, sensazioni, emozioni, nei confronti di una persona, una cosa, un’idea o più filosoficamente di un ideale. Il fertilizzante che, emotivamente, genera l’amore è la gioia.
A livello corporeo e cerebrale ci sentiamo coinvolti, carichi e mai saturi di euforia. Gioia che esponenzialmente è portata ad aumentare producendo un complesso quanto semplice meccanismo di attrazione, attrazione che poi sfocia nel desiderio. Per quella persona scatta il desiderio di rivederla. Per quella cosa scatta il desiderio di possederla. E’ un investimento di emozioni che, se corrisposte, fa nascere un legame. Da questo nasce il piacere e da questo prolifica il desiderio. Quello che si trova al centro, nel fulcro, nel baricentro di questa dinamica, diventa l’oggetto amato. La settimana scorsa abbiamo detto che le emozioni sono energia. Bene se sono energia possiamo dire che l’amore è un’energia magnetica che attira, che avvicina, mentre l’odio è un’energia che allontana, respinge.
Quello che accade alla nostra mente ed al nostro corpo quando siamo innamorati è una sensazione simile alla follia. Si dice che l’amore rende pazzi, fa perdere la testa, ed in un certo senso è così. Innamorarsi fa perdere stabilità. Iniziamo a smarrirci per interessarci ad un altro essere umano. Un essere umano che, potremmo azzardare, esercita su di noi un possesso, che ci possiede. Abita nella nostra mente, nel nostro cuore, nella nostra vita. A volte si può diventare un po’ ossessionati dell’amore, euforici, incantati, ansiosi. Tratti questi che spesso ricordano alcuni disturbi mentali. Eppure l'amore, nel senso pieno del termine, non è una malattia. Piuttosto è quello che genera l’amore, oltre alla gioia come incipit, che può portare anche ad una forma di sofferenza. Sofferenza che smuove il cervello e che, in alcuni casi, crea un disturbo. La chimica ci ha spiegato che serotonina, ossitocina e dopamina, i neurotrasmettitori rilasciati nel cervello, sono in grado di spiegare i sentimenti. Si è scoperto che nelle persone innamorate come negli ossessivi si riducono, similmente, i livelli di serotonina. Nel caso di amore corrisposto, invece, aumenta la dopamina che ci rende eccitati, esuberanti, euforici.
Crescono noradrenalina e feniletilamina determinando una miscela chimica capace di indurre uno stato di eccitazione simile a quello provocato da una dose di anfetamine ma anche da una certa quantità di cioccolata (Nutella, dico io). Seguono poi ossitocina e oppioidi endogeni che riportano lo stato di eccitazione nei ranghi della calma, dell’intimità. Neurotrasmettitori che sono in grado di creare il legame ma, allo stesso modo, inducono una certa dipendenza da quel legame. Si dice l’amore è una droga, una fantastica e meravigliosa dipendenza quando viene ricambiato. Per contro diventa un tormento se non lo è.
Si è visto che amore e tossicodipendenza condividono parecchio. Pensiamo all’insonnia, all’inappetenza, alla difficoltà di concentrarsi, alla perdita del senso del tempo, alla disponibilità ad assumersi rischi pur di averla, al bisogno crescente di consumarla e farsi consumare da essa, all’astinenza quando non si riesce ad averla.
Studi antropologici hanno dimostrato cosa succede nel nostro cervello quando ci innamoriamo. Sono in gioco gli stessi mediatori chimici, si attivano gli stessi percorsi neuronali e strutture cerebrali di quando siamo sotto effetto di cocaina. Si prova lo stesso effetto stimolante e lo stato di coscienza positivo. Ed allora perché drogarci quando possiamo semplicemente innamorarci? L’amore infonde una straordinaria euforia senza trasgredire alcuna legge, dura un po’ più a lungo (anche se non per sempre) rispetto all’effetto (decisamente passeggero) di una droga. Con l’amore troviamo parti di noi altrimenti inaccessibili. L’amore ci fa sentire intensamente vivi. Un antidoto per la depressione. L’amore è follia, follia positiva, quella che stimola le nostre parti creative. È un sentimento che ci fa il controllo, le inibizioni…e meno male.
E’ una spinta emotiva di grande portata che parla molto di noi e non può essere controllata, ridotta e spiegata sulla base di valori chimici, molecole e cellule perché, fortunatamente, siamo esseri ben più complessi con qualcosa che ci rende unici e diversi da ogni altro essere. Qualcosa che non è stata mai analizzata a microscopio: l’Anima.
Per questo emozioni e sentimenti sono, a mio avviso, questioni non biologiche ma dell’anima...
(continua)

18 SETTEMBRE




"Furono le mosche", con un ronzio assordante, un richiamo alle armi, a far capire quello che stava succedendo.
Una ricerca di alleanza che si muoveva sulle note di un odore nauseante. Mosche enormi e nere, si spostavano, come in preda a movimenti isterici, in ogni direzione. Per alcuni versi sembrava quasi una danza per attirare l’attenzione di quelle che non erano ancora accorse al banchetto. Per altri veri era tipo un codice morse. A prestare un minimo di attenzione sembrava quasi di sentire le parole: “accorrete oggi si mangia in abbondanza”.
Eppure l’attenzione era ipnoticamente diretta su altre cose. Cose frammentate, in pezzi grandi e piccoli, sparse come stracci sul terreno arso dal sole e pressato dai carichi dei cingolati.
Il ronzio delle mosche era un sottofondo pieno di agonia, un suono pestilenziale che si mischiava al silenzio reso cieco dall’odore pungente della polvere da sparo. Quel 18 settembre 1982, sciami di mosche, grandi quando lembi di terra, si muovevano come pattuglie armate pronte a finire quello che avevano iniziato i miliziani. Si erano conquistate il primato sui vivi (ancora per pochi secondi) e sui morti (sul colpo). La maggioranza di loro era così inebriata dall’odore accattivante, della carne appena intaccata dai primi grumi di sangue, che non riusciva a fare differenza tra vivi e morti. Le mosche, assuefatte dall’estasi di quel pranzo luculliano inaspettato, sbattevano e picchiettavano le loro zampette, fradice di sangue maleodorante, anche sulle facce dei giornalisti.
Quelli che, per primi, erano entrati nel villaggio dopo la mattanza. Gli unici vivi che vagavano, increduli, in uno scenario tanto suggestivo e macabro da sembrare finto, quasi si trattasse di un colossal Hollywoodiano. Invece era tutto vero, e si trattava di vero dolore, vera morte, vero sterminio. Le strade erano ricoperte da cumuli di detriti e corpi senza vita. Brandelli di pelle e filamenti di sangue si muovevano nei vortici di polvere che, ancora alta, si staccava da terra, spinta da piccole folate di vento, come un fantasma pronto a risorgere.
Camminavano, filmavano, appuntavano sui taccuini e si fermavano giusto il tempo di vomitare, poi riprendevano il loro reportage di terrore coprendosi la bocca con dei fazzoletti, per evitare di ingoiare le miriadi di mosche che li assillavano. Nelle case si erano trovati di fronte a scenari terrificanti. Donne stese per terra con le gonne sollevate fino alla vita, le gambe spalancate, in molti casi spezzate per la violenza subita. Bambini con la gola squarciata. File di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. Neonati anneriti, uccisi ventiquattro ore prima, già in stato di decomposizione. Corpi gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell'esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane, alle bottiglie di liquore vuote. In altri angoli della strada, cumuli di cadaveri riversi. Giovani con gli occhi aperti, braccia e gambe aggrovigliate nell'agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia. Dall'altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, corpi di donne (di mezza età) e parecchi bambini. Tra tutte una era distesa sulla schiena. Sotto il vestito strappato faceva capolino la testa di una bambina che pareva imbronciata, dai capelli corti e ricci, nero ebano. Sembrava fissarli con nervoso stupore ma era morta. Più avanti, un'altra bambina, non più di tre anni, con il vestitino bianco macchiato di sangue e polvere, sembrava una bambola di pezza gettata tra le macerie. La parte posteriore della testa era saltata. Le avevano sparato al cervello. Un’altra delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola conficcata nel petto aveva ucciso anche il bambino. Le avevano squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Negli occhi spalancati aveva il terrore. Occhi pietrificati da quella morte orribile. Poi come sacchi, davanti a un basso muro di pietra, tutti allineati, vi erano giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro. Avevano tutti la stessa cicatrice sul lato sinistro del collo: marchiati. Un taglio sulla gola significava che erano terroristi da giustiziare immediatamente. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati su pentole vecchie e bucate. Molte donne denudate, violentate, ed i corpi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, tutti trucidati. Ed ancora tante e tante immagini come queste, scene raccapriccianti, oltre ogni logica ed immaginazione.
Eppure oggi, a distanza di trentatre anni, sembra che siano solo le mosche a tramandare la memoria di questo crimine contro l’umanità.



(Liberamente ispirato a “Ce lo dissero le mosche” di Robert Fisk - uno dei primi giornalisti che raccontò il massacro di Sabra e Shatila - 18 settembre 1982).


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