giovedì 19 giugno 2025

BiblioIlde - "Nostalgia" di Ermanno Rea



Il tema del ritorno, con le sue incertezze, le sue paure, il senso di estraneità e al contempo di familiarità che lega indissolubilmente il protagonista Felice Lasco a Napoli, alla sua città e soprattutto al Rione Sanità, la più derelitta tra le sue aree urbane aleggia tra le pagine di questo intenso romanzo. 

Tra i vicoli di Napoli si avverte una sorta di carnale aggressività, ma anche il ricordo dei morti come ossessione collettiva e una profonda sensazione di “grembo materno”:  in essi vi sono le radici del nostro male di vivere, di un percorso interiore in cui “tu non puoi fare altro che sparare, perché te lo dice la vita”, ma ciò ti condanna irrimediabilmente alla solitudine, come Oreste Spasiano, il cui soprannome “Malommo” lo ha accompagnato sin dall’infanzia, condannandolo in un certo senso a un destino già scritto.

Il rapporto tra Felice e Oreste era esclusivo, ma anche morboso e dipendente, sembravano una cosa sola, anche se avevano alle spalle famiglie completamente diverse: i genitori di Oreste erano orgogliosi della propria rozzezza, mentre la madre di Felice era dotata di un’eleganza naturale, faceva la guantaia e vi era un grande assortimento di pelli accanto alla sua macchina da cucire Singer, che per lei rappresentava il mezzo per distinguersi, attraverso il suo lavoro, in quell’ambiente degradato che la circondava e le sue parole “Tu non sei come lui” rivolte a suo figlio le parole affermavano il suo desiderio di affrancarlo da quel mondo di violenza in cui si muoveva Oreste. A sedici anni Felice, sostenuto da sua madre, aveva scelto la fuga dopo il terribile fatto di sangue che l’aveva sconvolto ed era andato in Africa a lavorare presso uno zio per la costruzione di un lago artificiale. Il contatto con persone diverse e lo stupore davanti a realtà per lui sconosciute - i neri sorridevano sempre – aveva creato un muro che l’aveva allontanato dalla sua città, di cui non voleva parlare, un oblio completo del passato che esprimeva tuttavia il disagio profondo della sua anima. Era come se avesse dimenticato tutto, era diventato ”l’uomo che non ritorna”.

Solo dopo la morte dello zio, aveva ricominciato a scrivere lettere alla madre, ma non ottenendo risposta, aveva deciso di tornare a Napoli. L’incontro con la sua città, dopo quarantacinque anni di assenza, lo turba profondamente : ”ero una cosa poi sono diventato un’altra”. Felice avvertiva la presenza di una forza oscura dentro di sé, un animo tormentato, alla ricerca della propria smarrita identità, si sentiva uno straniero e cominciava a pensare che forse “i fili che si spezzano non si riannodano più”. Camminando per i vicoli, per cercare la casa di sua madre, si rende conto che forse aveva odiato quella strada e quell’odore che apparteneva alla sua infanzia. All’amara scoperta che lei vive in un tugurio, dopo aver venduto l’appartamento a Oreste, avverte un profondo senso di colpa perché lei, ormai molto vecchia, si era lasciata andare: si prende cura di lei, di quel ”residuo della madre”, la lava e quell’ immagine forte sarà per lui indimenticabile.

Circondata dai vicoli, si erge un simbolo di questo luogo: la basilica di Santa Maria della Sanità, che per gli abitanti della zona non era solo un luogo fisico, ma un’emozione, l’accoglienza e il prendersi cura dei turbamenti e del disagio profondo soprattutto di coloro che vivono in situazioni difficili, facile preda della malavita. E’ proprio lì che don Luigi Rega, un prete assolutamente  “fuori dagli schemi” è sempre in prima linea per combattere i soprusi, attraverso un’incredibile capacità di ascolto nei confronti dei giovani, che non si ferma davanti a nessuna pressione o minaccia, perché crede nella necessità di una cultura nuova che dia speranza e nuove possibilità a chi vede solo l’oscurità dentro e fuori di sé.

Dopo la morte della madre, Felice sente dentro di sé che il passato non si dimentica e restava ancora aperta la sua partita con Oreste: ricorda le loro corse su per la salita di Capodimonte dove Felice era solito sfrecciare con la sua moto Gilera 125, le loro bravate giovanili e gli scatti di improvvisa violenza di Oreste. Si confida con padre Rega che gli consiglia di fuggire, ma egli ormai ha preso una decisione, che sa già che sarà irreparabile:  vuole incontrare Oreste. Quando si guardano negli occhi, Felice avverte nell’altro le tracce di un odio potente e Spasiano gli intima di andarsene. Felice è determinato a rimanere e cammina per i vicoli in un cerimoniale nevrotico e in un certo senso di sfida, perché è consapevole di quello che sarà il suo destino.


martedì 17 giugno 2025

Encantada - Un racconto di Elisabetta Bo


Menzione d'onore al Premio Internazionale per la poesia "Rodolfo Valentino - Sogni ad occhi aperti" - Organizzato dall'Associazione "Il mondo delle Idee" - Tema L'Infanzia -

Anastasia era una bambina “particolare”, a cominciare dal nome, che le aveva appioppato il padre, stimato funzionario dell’Italgas e uomo di antico stampo, con nostalgie monarchiche e sinceramente anticomunista. Aveva avuto la meglio dopo qualche litigio sulla moglie Cristina, che voleva chiamarla Chiara.”Perché vuoi impormi questo nome così altisonante e anacronistico? Mi vuoi forse punire, avendo dato alla luce di nuovo una femmina?” chiedeva Cristina. “Ma stai scherzando? - ribatteva Filippo - per chi mi prendi? Anastasia è colei che rompe le catene, è la resurrezione… In questi anni di grande fermento, ma anche a rischio di pericolose derive, il nome Anastasia sarà un segnale di rinascita, nel rispetto della tradizione”.

In effetti, A. di “Chiara” aveva ben poco: capelli corvini e folti, che le incorniciavano il volto paffuto fin dalla nascita, e due occhioni neri che fissavano i presenti e soprattutto gli interlocutori con intensità imbarazzante, quasi volessero penetrare nella profondità della coscienza altrui. Era la seconda arrivata dopo Barbara, una ragazzina di 10 anni docile, amabile e perfetta in tutto, che ovviamente pativa un po' la sorellina, colpevole di averle scalfito lo scettro della primogenitura.

Il primo paesaggio su cui aveva posato gli occhi e che l’aveva cullata con la sua bellezza struggente era quello del Canavese: la sua famiglia si era stabilita a R. alla fine degli anni ’50 e abitava in una grande casa di proprietà di una famiglia numerosa, dotata di giardino, pergolato, pollaio, stalle per le mucche, gabbia dei conigli e di un vasto prato, dove gli uomini di casa, compreso Filippo, si divertivano a sparare al tiro a segno. La casa, solida ed essenziale nella struttura, si trovava quasi al limitare del paese, ed era prossima ad una vegetazione lussureggiante, che si inerpicava sulla collina, sovrastata dal cimitero.

Per A. il paese era un mondo tutto da scoprire, fonte di emozioni e sorprese sempre nuove: la bambina era una spugna, le percezioni in lei si dilatavano, si moltiplicavano e si arricchivano, generando emozioni cangianti, che ritornavano a distanza, soprattutto nei sogni. A. adorava dormire – il sonno per lei era come una seconda vita, in cui disfaceva e rifaceva tutto quanto aveva vissuto nella giornata. “A., sei di nuovo incantata? Forza, ritorna tra di noi…questa bimba è proprio venuta dalla luna” diceva spesso  mamma Cristina, una bella signora super efficiente ed organizzata, dallo sguardo con un che di severo e triste, che nascondeva un mare di emozioni. Ad A. capitava infatti abbastanza spesso di estraniarsi dall’ambiente circostante – lei stessa diceva “mi sono incantata”. Non erano assenze epilettiche, la bambina era vigile e presente, ma viveva per pochi istanti in un mondo parallelo, o forse superiore, da cui ritornava rinvigorita e più lucida. Forse era una sua forma di meditazione inconsapevole.

A. giocava per la maggior parte del tempo: il gioco per lei era la dimensione più importante e più seria della vita, in cui esprimeva tutte le sue emozioni e anche la sua parte oscura e inconfessata. Era una sorta di continua rappresentazione teatrale, in cui A. giocava mille ruoli, e, tirannella, si arrabbiava se i suoi piccoli amici “uscivano dal gioco”, ossia dalla parte. In questa frenetica attività ludica era fondamentale il rapporto con la natura: coinvolgeva le piante, che abbracciava e a cui parlava come se fossero suoi amici, gli animali tutti, dalle formiche che osservava interessatissima mentre correvano portando pesi enormi, alle galline ovaiole delle cui potenzialità non si capacitava, alle mucche con i grandi occhi dallo sguardo profondo e talora interrogativo, che la imbarazzavano perché non sapeva come rispondere loro. Questa era una delle sue prime sofferenze: non poter comunicare con le piante e gli animali, non poter decifrare i codici della loro comunicazione, perché A. era certa di questa loro potenzialità.

E soprattutto, il protagonista dei suoi giochi era Rebel, il cane nato qualche mese prima di lei nel lontano Messico ed arrivato via mare con il mitico marito di una dei proprietari, commerciante e grande viaggiatore. Un incrocio tra un San Bernardo e un Collie, bianco candido pezzato di nero, un San Bernardo ingentilito ed elegante nell’incedere, con cui aveva instaurato da subito un legame fortissimo. Passionale, senza paura e senza macchia, Rebel si gettava a capo fitto nelle imprese più disparate, e non raramente ingaggiava lotte con i cani prepotenti del circondario. Con i bambini, e in particolare con lei, era dolcissimo, e qualche volta le permetteva di cavalcarlo. Ma solo per brevi tratti.

A completamento e coronamento del gioco c’erano le fiabe. Anche queste erano un’occasione per estraniarsi dalla banalità del mondo reale, soprattutto se raccontate da personaggi carismatici, come certi anziani o la “tata” Onorina. A. aveva una sorta di venerazione rispettosa nei loro confronti: inconsciamente, sentiva la saggezza e la sofferta esperienza di queste biblioteche viventi.

E poi, c’era Onorina, la più brava a raccontare fiabe. Era comparsa quando la bimba aveva tre anni, assunta da papà Filippo intenerito dalla sua storia: aveva da poco perso il  marito sposato un anno prima, stroncato da un infarto mentre lavorava nei campi, lasciandola vedova senza figli. La sua vita precedente non era stata meno difficile: un padre alcolista e violento, una madre dolcissima e grande lavoratrice, miseria, stenti, vite di familiari a lei tanto cari stroncate precocemente. Ma Onorina aveva in sé una forza straordinaria, nutrita da una fede in Dio incrollabile. E quando vide A. per la prima volta, pensò che quella bimba le era stata mandata dal Signore. Certe volte non riusciva a trattenere le lacrime. Un giorno A., turbata da queste oscillazioni dell’umore e da questi improvvisi pianti, le disse: “Onorina, non piangere più. Vedrai, dirò due “L’eterno riposo”, uno per te e uno per tuo marito”. Onorina scoppiò a ridere di gusto e abbracciò forte la bambina: era come se un venticello primaverile frizzante e impertinente avesse spazzato tutte le nubi. A. ascoltava incantata le fiabe di Onorina, incomparabili rispetto alle fiabe della tradizione, e si chiedeva da dove la donna attingesse questa creatività prorompente. Situazioni incredibili, colpi di scena, amori e passioni travolgenti, magia, e anche qualche situazione perturbante, che alimentava la fantasia della bambina, che già da sé andava a briglia sciolta.

Onorina e Rebel rimasero indissolubilmente legati agli occhi di A. da quando sopraggiunsero i primi autunno e  inverno dopo l’assunzione della tata. Onorina abitava in un paese distante da R. più o meno cinque chilometri. La strada era sterrata e piena di buche, correva in mezzo alla vegetazione, ai tempi non era illuminata e in vari punti molto solitaria. Quando Onorina tornava a casa col suo motorino incominciavano ad allungarsi le ombre della sera. La donna aveva paura. E fu così che Rebel si lanciò al seguito del motorino immancabilmente ogni sera, con ogni tempo atmosferico, a maggior ragione con la neve e con il ghiaccio, a proteggere quell’essere fortissimo e fragile. Andata e ritorno fino alla primavera successiva.

Un giorno Rebel scomparve. Qualche sera prima si era scontrato con vari cani proprio vicino alla casa. La lotta era durata a lungo, con abbaiamenti furiosi e ululati, che avevano svegliato tutto il quartiere. Filippo aveva lanciato mele dalla finestra per sedare i bollenti spiriti della cagnara. Rebel ne era emerso con i suoi amici un po' malconcio, ma vittorioso. Dopo la scomparsa del cane A. era agitatissima,  e con lei la famiglia dei proprietari, gli inquilini e Onorina. Gli uomini di casa setacciarono il circondario, ma niente. Finché, dopo 3 giorni, Filippo soccorse il cane, distrutto, che si trascinava a un centinaio di metri dalla casa. Morì poco dopo, probabilmente avvelenato da un vicino. A., che aveva rivisto solo per pochi istanti Rebel quasi cadavere, perché allontanata immediatamente da Onorina, rimase impietrita. Per giorni e giorni fu come assente. Non una lacrima. Non parlava e rifiutava il cibo. Finché una sera si levò un vento fortissimo. Tutti gli animali della casa, mucche, gallo, galline e conigli incominciarono a lamentarsi insistentemente. Proprietari e inquilini si precipitarono in giardino e nelle stalle, comprese mamma Cristina, A. e Onorina. Nella confusione generale A. uscì non vista nella radura del tiro a segno e vide sbucare tra gli alberi e lanciarsi di gran corsa verso di lei Rebel vitale e in gran forma, gagliardo come nei giorni migliori. Allora corse verso di lui con le braccia spalancate e svenne. Si risvegliò tra le braccia della mamma e proruppe in un pianto inarrestabile e inconsolabile, ma liberatorio.