martedì 1 luglio 2025

La faccia nascosta delle fiabe: Hansel e Gretel - Bruno Caravella

Ad un’attenta lettura, le fiabe, con testi originali, nascondono, velatamente o meno, un linguaggio o un mondo che va decrittato per carpire fino in fondo significato e contesto. Nella nostra mente sono ben impresse le immagini edulcorate che l’industria cinematografica e televisiva hanno contribuito, in modo distorto, a fare sedimentare nel cosiddetto immaginario collettivo; in secondo luogo non tutte le fiabe finiscono in quel famoso motto che è: e tutti vissero felici e contenti. In realtà le fiabe, pensiamo alle fiabe raccolte dai fratelli Grimm, contengono aspetti drammaticamente orrorifici e sociologici su cui riflettere per riconoscerli, diffonderli, denunciarli e neutralizzarli. Nella fiaba "Hansel e Gretel" questi elementi sono tutti presenti. Provo qui a farne un’analisi:

• La matrigna suggerisce al taglialegna, padre dei due bambini, di portare nel bosco i due fratellini, altrimenti rischiavano tutti di morire di fame, e lasciarli alla mercé degli animali del bosco. Oltre allo sfruttamento, costringono i bambini a tagliare legna, l’elemento drammatico che emerge è, però, l’abbandono di minori, in questo caso figli.

• L’abbandono è chiaramente una forma di violenza sui minori.

• Si configura un tentato omicidio, figlicidio, e un potenziale duplice omicidio colposo.

• I bambini incontrano una vecchia in una casetta incantata. La vecchia è una strega e, al pari della matrigna, usa violenza ai bambini dapprima imprigionandoli e poi con la volontà di mangiarseli. Anche qui un potenziale duplice omicidio di bambini con l’aggravante della crudeltà, ma questa volta volontario e premeditato.

• Una palese misoginia. I protagonisti cattivi sono sempre donne, la matrigna e la vecchia strega: la matrigna muore durante l’assenza dei bambini, sarebbe stato più naturale che morisse il padre di crepacuore, e la seconda bruciata viva nel forno spinta da Gretel. Vi dice qualcosa la strega bruciata viva?

• Al ritorno a casa Hansel e Gretel perdonano il padre per il terribile gesto che ha perpetrato nei confronti dei due figli. In verità il genitore ha più colpa della matrigna. Si è dimostrato debole, non all’altezza di gestire una famiglia, un padre indegno a cui andrebbero tolti, d’autorità, i figli. Ma si sa, i maschi, nelle fiabe, sono spesso fregiati di titoli immeritati.




Schustèr: il suono delle radici di Massimo Vietri


Fateci caso, se vi capita, ci sono musiche che non si ascoltano soltanto con le orecchie, ma con la pelle capace di richiamare l'arrivo della memoria, custode di quella parte profonda di "emozione" che ci lega a un luogo, a un volto, a una parola detta nella lingua mater, quella dell'anima: il dialetto.
Esattamente questo ci è capitato nel sentire Irpinia Mon Amour di Massimo Vietri, oggi conosciuto con lo pseudonimo di Schustèr, con una carriera musicale che non insegue il clamore, ma costruisce il senso, lo lega alla purezza, per darlo in dono a chi è capace di andare per strade poco battute ma dense di natura nella sua accezione più autentica. Massimo non insegue l’effetto, ma è il "cercatore della verità" e Schustèr non è semplicemente un nome d’arte bensì un’identità intima, familiare, radicata, quasi una casa che accoglie con i profumi dell'infanzia.
Una scelta che racconta la direzione di un progetto artistico personale, fatto con le pietre angolari dell'autenticità, non solo esistenziale ma necessario.

Per oltre vent’anni Massimo è stato il cuore pulsante dei Lumanera, formazione musicale che ha saputo farsi interprete delle tante anime del Sud, tra tradizione, contaminazione e ricerca. Nei ventuno anni di concerti, scrittura, sperimentazioni e, soprattutto, di resistenza culturale si è materializzata un’esperienza lunga, quanto intensa, che ha fatto maturare in Massimo una visione sonora e musicale consapevole, quasi artigianale, fondata su alcuni punti cardine "inconfutabili": collettività, ascolto e rispetto.

Poi, a seguire il treno del passaggio, lo spostamento verso una dimensione più intima, sua, personale. Così Schustèr nasce come progetto solista e come spazio espressivo libero, nel quale l'artista affida alla sua voce e alla sua chitarra il compito di tessere le trame di racconti e mondi interiori, ricchi, stratificati, fatti di cassetti che si aprono e declinano il ricordo nel sentimento dell'attuale. Possiamo, senz'altro, dire che il disco omonimo non è altro che la sintesi poetica: undici brani che plasmano nostalgia e radicamento, silenzi e aperture melodiche, memoria e desiderio.

Il punto più alto e simbolico di questo percorso è senza dubbio il brano “Irpinia Mon Amour”, di cui Massimo è autore e compositore. Non è una semplice canzone: è un atto d’amore. Un inno delicato e potente alla sua terra d’origine, l’Irpinia, dipinta nella narrativa di immagini autentiche: i paesi, le montagne, la gente genuina, la cultura contadina, le radici profonde che ancora oggi sanno parlare. Un canto che ha saputo restituire una dimensione d'appartenenza, quasi un abbraccio collettivo, a tutti quelli che lo hanno ascoltato al Megaron, della Chef Valentina Martone, il 23 Giugno nella notte dedicata a San Giovanni.

Valentina è la "colpevole" di tutto questo e non possiamo fare a meno di ringraziarla, ci ha donato, come uno dei suoi magnifici piatti, un viaggio onirico emozionale che non si gusta con le papille ma con l'aggancio di memoria, udito, tatto. Tatto perché potevi sentirla sulla pelle, quella melodia, attraversare i reticoli del corpo e spingersi fino alla mente, per chiamare ricordi, passati, ideali, vissuti. Ma quant'è bella: "Quella cultura resistente e popolare" che non vuole morire mai e che abita nella terra dei lupi. L'Irpinia diventa quasi una donna, un sacro corpo che si rinnova nella dualità di madre e matrigna, capace di far innamorare: quella che per sempre ci ha "fatturati".    

Il brano è stato registrato e mixato nel maggio 2023 presso il @marekastudio, con la partecipazione di musicisti eccellenti:

Luca Roseto al sax soprano

Marco de Tilla al basso

Roberto Paudice alla chitarra elettrica

Gabriel Ambrosone alla fisarmonica

Lorenzo Petruzziello alla batteria

La voce e la chitarra classica sono di Schustèr, mentre la regia del videoclip è firmata da Luigi Cuomo e Alessandro Guerriero, capaci di accompagnare con grazia e sensibilità la narrazione visiva della canzone.

🎥 Guarda il video ufficiale di “Irpinia Mon Amour” su YouTube 👉Clicca qui

Allora si comprende che Schustèr non è un nome nuovo, ma un nuovo modo di dire, raccontarsi, esistere. È la voce di chi non ha mai smesso di cercare una coerenza profonda tra musica e vita, in un tempo in cui l’arte spesso si consuma in fretta, la proposta musicale di Massimo Vietri è un invito (senza contropartita) alla lentezza, all’ascolto vero, alla riscoperta del legame con quelle zolle dove affondano le nostre origini, soprattutto a quella cultura contadina che non si dovrebbe mai rinnegare. L'artista irpino ci consegna un’opera che fa della sincerità direttrice, e del coraggio spinta a non fermarsi, ed ogni nota, la vedi, la senti, ti prende per mano e ti porta verso casa...

In quel "Vieni cu me...", in quell'incipit immediato e attrattivo, si apre un mondo da scoprire. Basta bussare e l'Irpinia "apre a porta", mentre in lontananza senti l'ululato dei lupi che non fanno paura ma richiamano devozioni ancestrali e senza tempo...tra "Janare e altre figure del mito, della tradizione, compresa la Dea Mephite, che questa terra "benedice".   


BiblioIlde - La portalettere di Francesca Giannone

La determinazione e, al contempo la dolcezza e la sensibilità di una donna sono racchiuse nel personaggio della protagonista, Anna che arriva a Lizzanello, un piccolo paese del Salento, che diventerà “la nuova scenografia della sua vita”. L’incontro con la famiglia di suo marito Carlo, il legame profondo che egli ha con suo Antonio, dagli occhi intensi e malinconici, il rapporto difficile con Agata, sua cognata, che prova una sorta di diffidenza nei suoi confronti, perché la vede diversa anche nelle sue abitudini, come l’utilizzo dei semi neri del basilico ligure chiusi in un sacchetto e le espressioni francesi che talvolta usava, come anche la morbidezza delle sue mani la fa sentire talvolta a disagio. Anna si sentiva sola, ma in lei non verrà mai meno il desiderio di arrendersi, anzi il distacco dalla realtà in cui aveva vissuto, la spingerà a creare qualcosa di nuovo e ad affermare la propria identità.

Una nuova esperienza segnerà la vita di Anna e di suo marito Carlo: la creazione della Cantina Greco, sostenuta da don Ciccio che lo aiuta ad impiantare un vigneto e produrre vino, una sorta di ritorno al passato e al ricordo di un amore finito. Il senso di famiglia, un simbolo di profonda unione tra i due fratelli è legata alla leggenda del leccio, il luogo in cui il loro padre li portava quando erano piccoli e che rappresentava in un certo senso un punto fermo nel marasma di sensazioni, legate alla malattia della madre che Carlo, più piccolo, non aveva mai accettato e a cui non aveva mai perdonato la sua indifferenza. La solitudine di Carlo era stata mitigata dall’affetto di Antonio che si era sempre preso cura di lui e non lo aveva mai abbandonato. 

La morte del portalettere del paese e l’offerta di un lavoro spingono Anna a decidere di fare domanda, perché aveva un grande desiderio di farcela e affermare la propria personalità, nonostante le parole di suo marito ,”non ti prenderanno mai” che l’aveva fatta soffrire. Anna viene assunta e per lei è una grande soddisfazione in un’epoca, gli anni ’30, in cui le donne dovevano solo prendersi cura della propria famiglia, non potevano certamente fare un lavoro “da uomo”. Anna ci riesce e il suo senso di indipendenza è rappresentato anche dall’abitudine di prendere un grappino al bar la mattina: un’ affermazione di libertà, senza la paura del giudizio degli altri.

L’incontro con Giovanna, una donna che viveva isolata da tutti, a Contrada La Pietra, la mette a contatto con la sofferenza e con il disagio profondo del sentirsi diversa dagli altri e soprattutto non accettata e l’aiuta nel realizzare il proprio sogno d’amore, nonostante una situazione delicata: nasce un rapporto profondo tra di loro, è come se si riconoscessero in qualche modo e Anna le starà sempre vicina e la difenderà dalla prepotenza.

Vi è un elemento importante che lega a filo doppio molti personaggi della vicenda : un segreto, come quello che Carlo scoprirà solo dopo anni e che rivelerà solo al fratello Antonio e che si concretizzerà in una decisione eclatante solo dopo la sua morte, quello che riguarda la nascita di Daniele e la sua passione celata per il cucito e la creazione di abiti da donna, che alla fine fuggirà in America perché non riesce ad accettare la vergogna e l’amarezza, quello di Antonio nei confronti di Anna, che lo porterà sempre a nascondere i suoi sentimenti.


Attraverso le pagine di questo meraviglioso romanzo si avverte una profonda solitudine, soprattutto di Agata, la moglie di Antonio, di Lorenza, la loro figlia, che fa scelte difficili e definitive che la faranno soffrire, di Carmela, di Giovanna, donne che non sono riuscite , per svariati motivi a realizzarsi e a prendere le decisioni che volevano e, di conseguenza, sono piene di risentimento nei confronti degli uomini e sono condannate all’infelicità, poiché si sentono avvolte in una rete inestricabile di paure e incertezze. Diversa è la personalità forte di Anna, che non ha mai avuto paura di “essere diversa”, è stata consapevole della propria unicità.

Anna decide di portare avanti il suo progetto della Casa delle Donne, che Carlo, all’inizio contrario, in seguito aveva condiviso con lei: negli occhi di Anna ardeva ”la scintilla della sfida al mondo” per ogni sua iniziativa che doveva portare ad un cambiamento.

Nelle ultime pagine è come se si chiudesse un cerchio, attraverso le parole di una lettera, piena di rimpianto, dolore e amore che ricongiunge a sé il passato e un presente estremamente doloroso.


Ilde Rampino


lunedì 30 giugno 2025

Giuseppe Amoroso De Respinis: l'Ingegnere che dipinge emozioni




C'è un luogo, nel cuore dell'Irpinia, a Sant’Angelo dei Lombardi, dove la realtà si fonde (e confonde) con l'idea e il corpo si abbandona alle meraviglie del sogno, mentre la realtà (insieme alla logica) s' inchina alla bellezza e ne fa espressione tangibile, opera d'arte. È qui che risiede e "crea" Giuseppe Amoroso De Respinis, un nome che, pur giovane, mostra un talento raro, capace di tessere legami invisibili tra mondi apparentemente distanti: quello rigoroso dell'ingegneria e quello sconfinato dell'arte. 
Provate a immaginate un ragazzo che, con la stessa acribia con cui ha conquistato una laurea con lode in Ingegneria Meccanica all'Università di Salerno nel febbraio 2016, coltivava fin da bambino un giardino segreto, nutrito di colori e forme.
Per una decade d'anni le sue mani hanno imparato a modellare l'argilla e intingere emozioni sulla tela, nel "Laboratorio di Pittura e Ceramica" del maestro avellinese Augusto Ambrosone. Non era un semplice apprendistato, ma un'immersione profonda, un dialogo silenzioso con la materia che già allora svelava la sua vocazione più autentica.

L'arte di Giuseppe è un viaggio in un "caleidoscopico mondo colorato" (come lo definisce lui stesso) dove ogni pennellata è un richiamo cardiaco dell'anima, ogni forma un frammento "essenziale" di un'emozione. Le sue tele non sono solo superfici dipinte, ma porte di narrazione o specchi riflettenti in cui la realtà si apre alla meraviglia di chi guarda, mentre si scompone e si ricompone, come in un "sapiente mosaico o un suggestivo puzzle". La sua tavolozza è un inno, simbiotico, al miracolo della luce, un'esplosione di "colori saturi di luminosità solare" che non si limitano a riprodurre, ma creano un universo "poetico, sentimentale, lirico, sognato".
È qui che si manifesta la sua cifra stilistica inconfondibile: un "binomio indissolubile" tra "forma e colore", non semplici elementi tecnici, ma "espressioni interiori dell’animo", il respiro stesso della sua pittura. Nonostante la sua giovane età, il suo percorso artistico è un susseguirsi di tappe significative. Le sue opere hanno varcato i confini (forse stretti) della sua terra, trovando dimora in prestigiose mostre e rassegne nazionali ed estere, arricchendo collezioni private, pinacoteche e musei. Ogni esposizione è stata un passo in avanti, un riconoscimento del suo valore, culminato in premi e attestati di stima, tra cui spicca la Medaglia del Presidente della Repubblica Italiana, un sigillo d'eccellenza che pochi artisti possono vantare. La sua prolificità è testimoniata da oltre 300 rassegne, meticolosamente documentate in qualificati annuari d'arte contemporanea, cataloghi e riviste di settore. Da Roma a Venezia, da Genova a Torino, fino a Zurigo, Forte dei Marmi e le innumerevoli città italiane che hanno ospitato le sue creazioni, l'arte di Giuseppe ha viaggiato, incantando e commuovendo.
E non è un caso che la sua visione abbia catturato l'attenzione di critici d'arte di spicco come Giovanni Amodio, Lucia Basile, Vinicio Coppola, Vito Cracas, Alberto Iandoli, Massimo Pasqualone, Carlo Roberto Sciascia, Riccardo Sica e Leo Strozzieri. La loro analisi profonda ha saputo cogliere le sfumature e la potenza espressiva delle sue opere. La sua presenza in eventi di risonanza come la Collettiva “La Fortezza dell’Arte” a Civitella del Tronto nel 2016 e il Premio Internazionale “Kalos 2021” a Rivisondoli nel 2021, entrambi inaugurati dal celebre Professor Vittorio Sgarbi, conferma la sua statura nel panorama artistico contemporaneo. 


Giuseppe Amoroso De Respinis non è solo un artista che dipinge; è un'anima che si rivela attraverso il colore, un ingegnere che costruisce ponti tra il visibile e l'invisibile. La sua storia è un inno alla passione che supera ogni confine, alla dedizione che trasforma la materia in emozione. È la dimostrazione che la vera arte nasce quando la mente e il cuore danzano all'unisono, creando sinfonie visive che risuonano a lungo nell'anima di chi le contempla. E noi, spettatori privilegiati, non possiamo che attendere con trepidazione le prossime, vibranti espressioni di questo straordinario talento.

Alcune opere dell'artista











Stiso: umanista autentico e comunista libertario - di Luigi Anzalone


L'anniversario della nascita di Pasquale Stiso offre alla “giusta posterità”, per dirla con Cuoco, l’occasione di colmare una grave lacuna della storia politica e culturale dell’Irpinia e della Sinistra meridionale. Si tratta di riconoscere in essa un posto di prima fila a questo avvocato andrettese, intellettuale colto, raffinato, creativo, dirigente comunista stimato dai suoi compagni di partito e dagli avversari. Né potrebbe essere altrimenti, perché egli visse il lungo e difficile dopoguerra e il boom economico degli anni sessanta, che giunse tardi al Sud e con effetti fatui e brevi, come intelligente, appassionato e impegnato protagonista delle lotte per il riscatto di quelli che gli inglesi chiamano labouring poors (poveri che lavorano), mentre l’emorragia demografica dell'emigrazione desertificava i piccoli, presepiali e montuosi paesi dell’Alta Irpinia e il Sud d’Italia. La sua è un’eredità etico-politica e civil-culturale caratterizzate da uno stile di pensiero moderno, antidogmatico e refrattario ai compromessi deteriori per carrierismo e tornaconto. Il compagno Pasquale Stiso era stimato innanzitutto dai giovani comunisti, da me fra questi. Dei giovani, difendeva, riprendeva e sviluppava le idee più innovative, spesse anticipandole nella forma migliore. Esse possono riassumersi nella ricerca, sulla scorta dei Quaderni dal carcere di Gramsci, di un marxismo vivo, non mummificato. Del Sessantotto, di cui intuì le potenzialità e il carattere di “Primavera dei giovani”, apprezzava la carica libertaria, la forza dirompente della sua ansia di rinnovamento della società, temendone, tuttavia, un tendenziale nichilismo distruttivo.

Non enfatizzo niente nel dire che la notizia improvvisa e inattesa della sua morte ebbe un effetto sconvolgente nel nostro partito, provocando in noi tutti un cocente, profondo dolore. Fu davvero un giorno maledetto quel 26 novembre 1968 quando si tolse la vita rivolgendo in modo mortale un fucile contro il suo cuore. Aveva 55 anni. A tanti anni di distanza, sempre più mi capacito che la causa vera e unica di quel suo estremo gesto fu risparmiare alla sua famiglia le sofferenze che il male incurabile di cui soffriva le avrebbe provocato. E’ stato il professore Federico Biondi. il dirigente comunista di cui Stiso era fraterno amico, a lasciarne il migliore ritratto della personalità morale e politico-culturale nella sua autobiografia politica, Andata e ritorno. Viaggio nel PCI di un militante di provincia, ricordando innanzitutto: “l’angoscia della (sua) famiglia, della moglie Ortensia e delle figlie Rachele e Angela, la più piccola delle due, quest’ultima, che appena allora affacciatesi all’adolescenza, con animo vibrante di tenera passione, scrisse per la foto ricordo la cosa più bella di quelle che allora si seppero dire, come fosse l’ultima poesia del padre, che poi, quasi segnata da un medesimo destino, vinta da un male incurabile, seguì nella tomba, quando era sposa da poco e ancora nel verde degli anni”.

Bello e imponente nell’aspetto, con il viso scolpito nelle asprezze montuose e brulle dell’Alta Irpinia, la fronte costruita per un pensiero riflessivo e calmo, in cui si risolvevano razionalmente le tempeste di un animo romantico e riservato, impetuoso e dolce, il portamento sicuro e signorile, il sorriso cordiale e simpatico, Pasquale, già a vederlo, esprimeva quel singolare fascino delle genti del Sud, somatizzando insieme dolori antichi e volontà di riscatto, abitudine alla rassegnazione e incrollabile, intelligente dignità. Con studi severi, giovanissimo, si laureò in legge, dotandosi di cultura umanistica e politica vasta e organica. Fu poeta ispirato e originale e autore di drammi che attendono ancora una giusta valorizzazione. Nelle sue espressioni poetico-letterarie raccoglieva in un invisibile unicum il suo inconfessato “male di vivere” e la sofferenza antica del mondo contadino. Era un raccogliere nella parola poetica che nascondeva-svelava un grande vagheggiamento, espresso dal farsi storia di quella controstoria (alla Musil, alla Benjamin, alla Bloch) che può dare all’uomo vera felicità e liberare gli sfruttati e i vinti - tra cui i contadini – dalle loro catene per una vita degna del nome.

Amato dalle donne per il suo contagioso sorriso, per la sua maschia prestanza e per la maturità della sua poetica intelligenza, la serietà e la coerenza del suo pensare, dire e agire, il suo senso di rivolta, tradotto in concreti obiettivi di lotta fecero di lui naturalmente il capo di quei contadini, che – dice De Sanctis nella Giovinezza - contavano per i galantuomini meno di un mulo. Dei contadini, degli operai, dei compagni di partito perseguitati non solo in politica ma anche nelle aule di tribunale egli assunse, e fu vincente, la difesa. Perché Pasquale Stiso era un grande avvocato. Dotato di naturale e coltivata eloquenza, se ne serviva per un rigoroso, stringente argomentare, analizzare, dedurre e concludere con padronanza massima di codici e leggi e una filosofica capacità di lumeggiare la ratio delle norme. Non parlo per sentito dire: l’ho visto difendere, mio padre Antonio Anzalone, sindaco di Flumeri, da cui uscì assolto con formula piena.

La fortuna politica di questo grande compagno avvocato, che onorò quam maxime la berlingueriana “questione morale”, si identifica con il decennio tra la metà degli Cinquanta e Sessanta in cui fu il leader comunista dell'Alta Irpinia, distinguendosi come sindaco di Andretta e consigliere provinciale . Purtroppo, in seguito, il PCI irpino non seppe e non volle valorizzarlo. Per paradosso più apparente che reale, gli nuoceva proprio il suo essere una sorta di “intellettuale condensato” di gramsciana memoria; e gli nuocevano di più e le sue posizioni politiche, giammai acriticamente allineate q quelle della Direzione nazionale del PCI. Ad esempio, Stiso – come Biondi, Freda ed altri – visse la Rivoluzione ungherese del 1956 come momento nel quale il PCI doveva, cosa che non fece, imboccare decisamente la “via italiana al socialismo”.

La stella polare del suo pensare ed agire era l’humanum – la libertà, la dignità dell’uomo, l’uguaglianza uomo-donna. Il suo umanismo era la controparte cultural-esistenziale del suo comunismo, illustrato da senso comunitario, uguaglianza, libertà E questo che per quanti lo ebbero caro resta in mente insieme alla sua immagine affabile e bella e alla “la tristezza che ebbe la sua coraggiosa allegria”.

domenica 29 giugno 2025

Lune Nuove - Le rondini al ritorno di Elena Milani

A cura di Ester Guglielmino

Circondatevi di persone belle,

di animali, alberi, onde di mare,

circondatevi di ciò che vi dà piacere,

se non lo sapete, state fermi, in ascolto.

Aspettate l'arrivo delle rondini, 

il loro addio dal paese tinto di ruggine 

dove la nebbia si inchina alle zolle

e anche l'asfalto diventa più molle, 

circondatevi di fantasmi gentili

che vanno e vengono 

dalle lenzuola macchiate di sogni.

Circondatevi di deserti

da cui si esce con un salto, 

da scimmie prese nei brindisi, 

circondatevi di gente 

che sappia leggere dentro la poesia,

io non ci avrei mai creduto 

che tutto ciò mi fosse terapia. 


Elena Milani da Le rondini al ritorno



Ci sono poesie buone come il pane, che hanno l’odore della farina e dell’acqua impastate con le mani; ci sono poesie che sono il lievito madre della vita perché assorbono essenze, le mettono a dimora, le rigenerano in una purezza nuova. Perché è vero, in fondo, che poeti si nasce e non ci s’improvvisa e che la poesia è disposizione dell’anima a guardare, a trasfigurare in essenza l’alito d’esistenza che ci scorre nelle vene. Così, ci sono versi che nascono per disposizione innata, perché l’occhio scruta la vita da una specola privilegiata, ne coglie il senso, la traduce in immagine di suono; perché ci sono poeti che s’immergono nel quotidiano senza mai smarrire una visione superiore delle cose. La poesia di Elena Milani ha questa cifra caratteristica, è una poesia che non soffre di sovrastrutture perché nasce dall’esperienza viva, è una poesia che si sostanzia di figli, di padri, di madri, di figure care ma anche di boschi millenari che assistono al miracolo sempreverde dell’essere umani: 

Quando mi volevi bene 

sempre bene venivo nelle foto. 

Anche i capelli buttati all'indietro 

-con un colpo di testa ritornavano aggiustati. 

Avevo minuti veloci 

per sistemare il superfluo 

e per il resto del tempo 

rimiravo il volto dell'amore sul mio volto 

come allo specchio, per l'ultima prova 

di un abito imbastito che cade già, perfetto.

 

Ivi, cit.


È una poesia che ci parla della fatica di viverla la vita, con le sue piccole e grandi lotte di sopravvivenza, con le sue continue prove dinnanzi alle quali ci si può abbandonare come cani respinti ed esiliati oppure imparare a misurare il coraggio della propria altezza. È una poesia - questa - che nasce da una ricetta antica e meditata, da una ricerca lenta e sapiente di armonia, dal tentativo di accordare il nostro respiro a quello che spira dal profondo della terra, di conciliare le nostre parole a un ritmo che ha già la cadenza predestinata dalla storia: 

Avrò ricordi di me da viva 

una sorta di scricchiolio di ossa 

la tavola mai sgombra, pure il pomeriggio 

la brocca sbeccata come il sorriso 

e la Luna che guardavo di sera. 

Tutto come fosse caduto almeno una volta 

e l'avessi raccolto senza aggiustarlo per ricordare 

di cosa parla l'amore senza invenzioni.


Ivi, cit.


Questa, dunque, non è affatto la poesia naïf che l’autrice vorrebbe farci credere, è piuttosto una poesia onesta, pulita, legata alla concretezza del vivere e sentire. Perché non c’è impostura o ipocrisia tra questi versi, solo la volontà autentica d’essere così come si è. Una volontà che si riflette anche nel minimalismo della non-scelta editoriale: autopubblicazione, prezzo etico, nessuna ricerca di effetti speciali. Eppure è un lungo percorso quello che si intravede dietro queste pagine, un amore primigenio e duraturo per la parola, una grande abilità nel maneggiarne il senso e il suono, una saggezza conquistata con lentezza su ciò che davvero resta e ciò che - come una rondine - vola via, forse per sempre: 

Scelsi il rossetto più brillante

la mattina del mio funerale.


Ero due cose insieme.


Le mie labbra erano già livide

e gli angoli così piegati in basso

che quasi parevo tradire

una volta per tutte

le mie rose carnose,

i miei nidi senza sfratti,

i mari amati in cartolina.


Ero due cose insieme.


Mi feci vestire di bianco

come una sposa, una zagara.


Ero due cose insieme.


La sottoveste aveva uno strappo

fra l’inguine ed il fianco,

non avevo mai voluto ricucire nulla

per non tradire nessuna memoria

e per portare altrove

le mie due cose insieme. 


Ivi, cit.


C’è una poetessa dietro, la sua personalissima ricetta del vivere, del sentire, del dare voce a ciò che si sente. C’è una donna dietro, che ha trovato una sua autarkeia e una sua metriotes e con sincerità ce ne vuole far dono. E allora il diaframma tra pagina e realtà sembra quasi scomparire e, oltre lo spazio che s’intravede tra le righe, avverti come una presenza nota di carne, di ossa e anche di cuore: 

Ancora resto ferma a primavera 

non per la giovinezza o per le rose 

ma per il nido, le rondini al ritorno 

le spine che mi sciupano le cose.


Ivi, cit.



Pensieri Stravaganti - Il feticcio dell'Innovazione



Tutti i giorni siamo sottoposti al mantra dell’innovazione. Ci alziamo con la incistata sensazione di dover innovare o, almeno, di dover cambiare qualcosa. Poi, lo smartphone e il pc ci forniranno istruzioni più precise al riguardo. Confindustria, i politici, i media si peritano affettuosamente di indicarci, quali uniche garanzie di futuro, le tecnologie all’avanguardia e le cosiddette  start-up. La pubblica amministrazione (giustizia, scuola, sanità) non funziona ? La causa va ricercata sempre e comunque  nella loro insufficiente digitalizzazione. Epperò, l’innovazione irrelata è un guscio vuoto, come la  comunicazione. Innovare, di per sé, non significa niente. 

L'innovazione dovrebbe corrispondere alla traduzione pratica degli esiti di un autentico processo creativo. Invece, si risolve  nel prosaico espediente commerciale di inondare il mondo di dispositivi tecnologici, spesso privi – paradossalmente - di novità. E quindi nella mera sostituzione di un computer o di un programma elettronico, propinata in maniera truffaldina come certezza  di avanzamento lavorativo o, peggio, esistenziale.  Non c’è vero progresso senza idee virginali. Senza rotture radicali, senza traumi.  

E’ da poco uscito un libro coraggioso e irriverente,  dedicato al <segreto dell’innovazione>, dal sottotitolo ancora più illuminante: crescita e sviluppo lontano dall'high-tech. L’autore Dan Breznitz – uno dei massimi esperti mondiali in politiche per l’innovazione – vi sostiene che il modello high-tech ha prodotto benefici per pochi, mentre numerose città e regioni hanno dissipato risorse immense nel tentativo fallimentare di replicarlo. E che esiste un’alternativa plausibile, dotata di efficacia rigenerativa, in forza della quale ogni comunità può giocare un ruolo nell’innovazione, muovendo “ dalla consapevolezza del proprio posto nella catena globale del valore e lavorando su ciò che la rende unica”. E’ un testo volto ad ammonire gli amministratori locali e tutti i cittadini contro il rischio del pensiero unico dell’innovazione coatta, ed  a spingerli ad azioni produttive  di nuove forme di località, cioè di vita collettiva.   

Mino Mastromarino