A cura di Ester Guglielmino
Circondatevi di persone belle,
di animali, alberi, onde di mare,
circondatevi di ciò che vi dà piacere,
se non lo sapete, state fermi, in ascolto.
Aspettate l'arrivo delle rondini,
il loro addio dal paese tinto di ruggine
dove la nebbia si inchina alle zolle
e anche l'asfalto diventa più molle,
circondatevi di fantasmi gentili
che vanno e vengono
dalle lenzuola macchiate di sogni.
Circondatevi di deserti
da cui si esce con un salto,
da scimmie prese nei brindisi,
circondatevi di gente
che sappia leggere dentro la poesia,
io non ci avrei mai creduto
che tutto ciò mi fosse terapia.
Elena Milani da Le rondini al ritorno

Ci sono poesie buone come il pane, che hanno l’odore della farina e dell’acqua impastate con le mani; ci sono poesie che sono il lievito madre della vita perché assorbono essenze, le mettono a dimora, le rigenerano in una purezza nuova. Perché è vero, in fondo, che poeti si nasce e non ci s’improvvisa e che la poesia è disposizione dell’anima a guardare, a trasfigurare in essenza l’alito d’esistenza che ci scorre nelle vene. Così, ci sono versi che nascono per disposizione innata, perché l’occhio scruta la vita da una specola privilegiata, ne coglie il senso, la traduce in immagine di suono; perché ci sono poeti che s’immergono nel quotidiano senza mai smarrire una visione superiore delle cose. La poesia di Elena Milani ha questa cifra caratteristica, è una poesia che non soffre di sovrastrutture perché nasce dall’esperienza viva, è una poesia che si sostanzia di figli, di padri, di madri, di figure care ma anche di boschi millenari che assistono al miracolo sempreverde dell’essere umani:
Quando mi volevi bene
sempre bene venivo nelle foto.
Anche i capelli buttati all'indietro
-con un colpo di testa ritornavano aggiustati.
Avevo minuti veloci
per sistemare il superfluo
e per il resto del tempo
rimiravo il volto dell'amore sul mio volto
come allo specchio, per l'ultima prova
di un abito imbastito che cade già, perfetto.
Ivi, cit.
È una poesia che ci parla della fatica di viverla la vita, con le sue piccole e grandi lotte di sopravvivenza, con le sue continue prove dinnanzi alle quali ci si può abbandonare come cani respinti ed esiliati oppure imparare a misurare il coraggio della propria altezza. È una poesia - questa - che nasce da una ricetta antica e meditata, da una ricerca lenta e sapiente di armonia, dal tentativo di accordare il nostro respiro a quello che spira dal profondo della terra, di conciliare le nostre parole a un ritmo che ha già la cadenza predestinata dalla storia:
Avrò ricordi di me da viva
una sorta di scricchiolio di ossa
la tavola mai sgombra, pure il pomeriggio
la brocca sbeccata come il sorriso
e la Luna che guardavo di sera.
Tutto come fosse caduto almeno una volta
e l'avessi raccolto senza aggiustarlo per ricordare
di cosa parla l'amore senza invenzioni.
Ivi, cit.
Questa, dunque, non è affatto la poesia naïf che l’autrice vorrebbe farci credere, è piuttosto una poesia onesta, pulita, legata alla concretezza del vivere e sentire. Perché non c’è impostura o ipocrisia tra questi versi, solo la volontà autentica d’essere così come si è. Una volontà che si riflette anche nel minimalismo della non-scelta editoriale: autopubblicazione, prezzo etico, nessuna ricerca di effetti speciali. Eppure è un lungo percorso quello che si intravede dietro queste pagine, un amore primigenio e duraturo per la parola, una grande abilità nel maneggiarne il senso e il suono, una saggezza conquistata con lentezza su ciò che davvero resta e ciò che - come una rondine - vola via, forse per sempre:
Scelsi il rossetto più brillante
la mattina del mio funerale.
Ero due cose insieme.
Le mie labbra erano già livide
e gli angoli così piegati in basso
che quasi parevo tradire
una volta per tutte
le mie rose carnose,
i miei nidi senza sfratti,
i mari amati in cartolina.
Ero due cose insieme.
Mi feci vestire di bianco
come una sposa, una zagara.
Ero due cose insieme.
La sottoveste aveva uno strappo
fra l’inguine ed il fianco,
non avevo mai voluto ricucire nulla
per non tradire nessuna memoria
e per portare altrove
le mie due cose insieme.
Ivi, cit.
C’è una poetessa dietro, la sua personalissima ricetta del vivere, del sentire, del dare voce a ciò che si sente. C’è una donna dietro, che ha trovato una sua autarkeia e una sua metriotes e con sincerità ce ne vuole far dono. E allora il diaframma tra pagina e realtà sembra quasi scomparire e, oltre lo spazio che s’intravede tra le righe, avverti come una presenza nota di carne, di ossa e anche di cuore:
Ancora resto ferma a primavera
non per la giovinezza o per le rose
ma per il nido, le rondini al ritorno
le spine che mi sciupano le cose.
Ivi, cit.