FILI: ODISSEA DI UN AMORE

E’ giorno. Un giorno compagno della pioggia e della mia tristezza. Le mie lacrime battono sul legno e fanno rumore. Il telaio si inceppa. Prende fiato la mia desolazione. La pioggia e le lacrime si abbracciano. Si stringono. Uniscono le forze. Mitigano la paura. Lo sconforto di fronteggiare un giorno che non vorrei mai veder arrivare.
Poso lo sguardo tutt’intorno. La stanza è familiare. Calda. Uno scrigno di ricordi mai indeboliti. Anzi rinvigoriti. Attaccati alle pareti, agli specchi, ci sono le immagini della sua figura. Nelle lenzuola, riposte con cura su un letto ancora immacolato, c’è il senso del suo essere uomo unito alla mia femminilità, quasi dimenticata. La mattina, qui dentro, appare quasi serena. Ma è così piena di paura che tutto va in secondo piano. La pioggia prende forza. Assume le sembianze di un concerto di tamburi. E’ greve, eppure sembra essere distante. Una melodia che assomiglia ad un respiro affannoso, ad un mare in tempesta. Onde che impazzano e si rifrangono sempre nello stesso sospirato ideale. Che lui ritorni. Che mi riprenda, così come mi prese tanto tempo fa. Eccola. Ora mi assale di nuovo. La follia dell’impossibile si avventa sui miei pensieri. Li sottomette al suo volere. Mi riduce in catene. Non  dà modo di liberarmi.
Perché io non voglio essere liberata, voglio essere schiava. Schiava del suo amore. Dovrei inventarmi un’altra vita. Ma non so far altro che tessere questi fili. Fili che si intrecciano, allontanandolo da me. Che lo avvicinano, quando si sfilano. Quando li sfilo. Ecco il modo. La possibilità di salvezza. Tessere una tela. Un simulacro. Un sudario. Un ricovero per un corpo morto, per Laerte. Eppure potrebbe essere un bozzolo dove potermi ritirare, schiudere le ali da farfalla ancora strette nelle ossa. Volare sin dove lui si trova. Sospesa nell’aria, anche solo nel primo dei suoi pensieri, vorrei poter librare. Senza parole. Quel che occorre è essere vicini in spirito eppure il mio corpo anela i suoi abbracci. Anela l’improbabile ritorno a casa. Perdonami, ma non riesco a continuare. La trama che si infittisce, i fili che si annodano, vanno ridotti a quello che erano ieri notte. Gomitoli ancora acerbi di lavoro. Quello che ho creato stamattina, stanotte deve essere distrutto. In questo gioco infinito e circolare, in questo cerchio concentrico si assiepa la mia vita, fatta di tradimento e fedeltà. Fedeltà verso Ulisse. Tradimento verso chi vuole prendermi in sposa con la forza. Distesa sul suo petto vorrei ritornare, quando il sole si fa oscurare dalle tenebre. Mi basterebbe dormire, un sogno me lo farebbe riavere. Ma la notte non mi è concesso riposare. Devo lavorare e distruggere con solerzia quello che il giorno fingo di creare.
Una lucciola, ogni tanto, illumina lo sguardo che poso verso il mare. Sembra il faro, il flebile richiamo di un’anima che non vuole arrendersi ma che sembra, oramai, allo strenuo delle resistenze. Questo palazzo è la mia famiglia ed è la mia prigione. Questo telaio è la mia unica voluttà di sopravvivenza. La mia unica e forse incredibile speranza. Sono ostinata, la gente mi rimprovera per questo. Perché mi ostino ad attendere colui che non tornerà. Smettere di sognare il grande amore. Quello dovrei fare. Un amore che potrebbe non arrivare mai. Un amore che già potrebbe essere in fondo al mare.
Un amore che non smette di bussare alla porta dei miei sensi, ogni notte ed ogni singolo giorno della mia esistenza. Qualcuno mi chiama illusa. Non sono più la donna che ero prima. Non ho più la bellezza di un tempo. Ma so che lui mi ama ancora. Che mi amerà per sempre. So che lui mi vorrà di nuovo con sè. “Chissà fra quali virginali braccia ora il suo Ulisse si consola?”, confabulano le ancelle credendo di non essere ascoltate. Ma io le sento. Faccio finta di niente. “Chissà fra quali inviolate fanciulle l’uomo trascorre le notti?”. Ancora quelle voci ed il tarlo della gelosia mi assale. Un tarlo che non trova legno buono. Affonda pochi morsi. Muore del suo stesso pasto. Non mi lascio prendere da questi pensieri. E se mi prendono è solo per pochi ed inafferrabili momenti. Attimi che svaniscono appena la notte ritorna. Appena sfilo la trama infinita di questa tela. Il mio uomo è diverso, lo conosco. Potrebbe avere tutte le donne che vuole, per età, per colore degli occhi, dei capelli, per le forme sottili o generose. Ma non le vuole. In qualunque parte dell’Odissea si trovi, avrà sempre uno  scenario: il ritorno a casa. Da me, da suo figlio. Io sono con lui. Lui è dentro di me.
E nel suo viaggio attraversa, non soltanto un mondo ignoto e pericoloso, ma anche tutta la mia anima. Attraversa Penelope. E dalla mia speranza indomita, di riaverlo ad Itaca, prende le forze per non dichiarare la resa. Io sono la sua donna. Sono l’Amore. Sono la Tenacia. Io il suo Destino. Io non mi arrendo. Non lo farà neanche lui. Mi ha promesso che verrà. Conservo negli occhi la promessa che mi scrisse nel cuore, abbracciandomi forte. In quella stretta ha lasciato la sua parte migliore. La parte che non distrugge ma rigenera l’amore. È vento da non incatenare, ma è anche tormenta. Una voragine che genera sempre e solo desiderio. Tutto inizia, tutto finisce, poi ricomincia. Di giorno a tessere il mio atroce destino. Di notte a disfarlo, perché la mia vita non è questa. Ho messo il telaio davanti alla finestra. Un giorno, sono sicura, volgendo lo sguardo al mare griderò: “è tornato!”. Allora la tela sarà uno straccio.
La calpesterò, la ridurrò in brandelli, per correre ad abbracciarlo. E se non dovesse tornare? Allora andrò io da lui. Ho questa ultima possibilità. Scenderò tra le onde del mare. Mi spingerò sino nei flutti più profondi. Gli andrò incontro. Ci incontreremo nell’aldilà.
Perché se lui non torna è solo perché è già morto. E se lui è morto io non ho più necessità di vivere ancora.

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