BISOGNA ESSERCI

Bisogna esserci in questo letto, avvolti e stravolti dal contatto con lenzuola infeltrite, coperte sempre più corte e indifferenza che sa di pulito. 
Bisogna esserci per poggiare la testa, pesante gabbia di pensieri inquieti, su cuscini sempre più scomodi e sottili. 
Bisogna esserci per sentire la pelle tirare, le braccia agonizzare perchè bucate, senza sosta, da aghi avidi di sangue, dove le vene, sconvolte ed inondate dalle flebo, non hanno alcuna tregua se non quella naturale della rottura. 
Bisogna esserci in questo mondo disinfettato ed asettico, dove l’odore di malattia e sofferenza depone l’anima in preghiera perenne anche colui che non crede in niente. 
Mondo che sembra sincronicamente perfetto, quasi automatico. 
La pillola all'ora giusta, l’infermiera che controlla la flebo, le donne delle pulizie, la colazione, il pranzo e la cena, i dottori che fanno il giro dei letti. 
Momenti, gesti, azioni, routine. Tempo che passa spocchioso e laconico come sempre. Ogni giorno che sembra uguale a ieri con una sola eccezione: lo scambio dei letti. Pazienti dimessi e pazienti che entrano. Chi si riveste e torna a casa, chi non può farlo perché destinato a scendere nel silenzio della camera mortuaria. Chi passa in quelle stanze, da visitatore, non sa cosa vuol dire essere completamente nudo. 
L’essere umano non ha più un privato da contenere negli argini del proprio corpo, è spogliato dal pudore, indifeso, una roccaforte con le entrate aperte alla folla. Scoperto alle palpazioni ed alle indagini dell’uomo e delle macchine. 
Anche il mio corpo, in questi giorni, non è più mio ma in balia degli eventi. Sottomesso a gesti meccanici, quasi robotici, in quest’azienda ospedaliera dove il nome ha spersonalizzato il concetto, paradossalmente romantico, della casa del sollievo, dell’accoglienza dei malati, del dolore che viene curato non solo con le medicine. L’etimologia sovvertita e con essa la gestione “amministrativa” del paziente che diventa un numero di protocollo, una cartella clinica traboccante di dati, quasi sempre intellegibili ai più. E quando capita di non comprendere cosa ti sta succedendo, quando vedi solo il nero della notte che risale dalle coperte del letto e ti rapisce la vista, quando chiedi aiuto e vorresti o dovresti essere difesa da chi dovrebbe prima di tutto essere un uomo e poi un dottore, ti senti rispondere, con freddezza inaudita, che la medicina non è una filosofia. Che la medicina non attiene all’intimo sentire, non è fatta per i deboli di cuore, ma è una scienza che si fonda sugli strumenti, sulle macchine e quando una macchina referta un responso di terrore da quello puoi essere completamente risucchiato senza la benché minima partecipazione emotiva di chi ti sta dicendo se vivrai anche domani. 
Sento pronunciare parole di nera ingiustizia a quell’anima che soffre nel letto accanto al mio. Riconosco la voce ed il ruolo da Primario. Sembra scostante, quasi insensibile, davanti a quei respiri così carichi di perché. Risucchiata dalla paura sprofondo nel letto, la prossima sono io. Aspetto di sentire ma...resto sospesa, in attesa di una diagnosi. Quello che più umilia il malato è rimanere nudo ed indifeso davanti a quel mondo. Chi ha firmato una cambiale in bianco alla Banca della vita, non saprà quando e come sarà messa all’incasso, eppure vuole essere sostenuto prima col cuore, poi con la scienza. 
Vorrei fissare la parete che tanti occhi hanno fissato, nel reparto dove la gioia ha poco o mai avuto ingresso, ma gli occhi sono disconnessi, senza più collegamenti col cervello. Chi è malato è sottomesso al destino ed alla fortuna di scovare, tra tanto agonismo clinico, un uomo, un dottore che si svesta di quel camice e lo accarezzi. Alla dolcezza di una parola di conforto equivale una defibrillazione emotiva. 
Tanti dottori questo lo sanno e mettono in pratica, ogni giorno, le esortazioni di S. Giuseppe Moscati: “Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un'anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l'ardenza dell'amore, la carità. Il medico si trova in una posizione di privilegio, perché si trova tanto spesso a cospetto di anime che, malgrado i loro passati errori, stanno per li li per capitolare. Beato quel medico che sa comprendere il mistero di questi cuori e infiammarli di nuovo.” 
Ci vuole una grande dose di umiltà per infiammare di nuovo un corpo malato perché una malattia entrerà, prima o poi, nella vita di tutti…forse anche in quella di chi ha fatto del ruolo di Primario solo una medaglia…ed allora sarà ripagato “con la stessa dose di sensibilità” che lui ha dato ai malati: praticamente una miseria.

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