Ci hanno portato a credere, lo hanno fatto sempre, che pensare positivo, sorridere, aiuti a vivere meglio. Ce lo hanno inculcato sin da bambini. Anche quando sorridere era difficile perché, magari, ti eri appena sbucciato un ginocchio sull’asfalto bollente della spensieratezza più accesa, oppure il dottore ti aveva sparato un obbligo di legge chiamato vaccino (di quelli da perdere il fiato col pianto) sulla tua natica migliore. Ed a guardarli bene non potevi far altro che ridere, mentre loro cercavano di oscurare quel momento di dolore con una faccia buffa. Il più delle volte le facce erano quelle dei nostri genitori. Forse perché incapaci, loro, di sopportare un nostro momento di dolore. Da adulti invece perdiamo questi clown improvvisati e, per contro, siamo costretti a sentire, con le nostre orecchie, quasi assuefatte, chi ci esorta a guardare il lato positivo delle cose. A vedere quello che chiamano volgarmente: il bicchiere mezzo pieno. Che poi non ho capito: mezzo pieno di cosa? Nessuno lo ha mai scoperto veramente. Eppure capita, il più delle volte, che la realtà può ostacolare la capacità che abbiamo di recitare la cosiddetta Parte Felice. Parte che ci viene imposta sempre dal filosofo di turno. Succede che la vita accelera e siamo incapaci di stare al suo passo. Una malattia bussa alla nostra porta e siamo costretti ad aprire, anche senza volerlo. La persona che aveva giurato di amarci in eterno, in una curva prende la c.d. sbandata, finisce nel fosso delle pulsioni e ci tradisce. Gli amici, o quelli che chiamavamo così abusando di questa terminologia purissima, si allontanano dal nostro cammino, deludendoci. I genitori, anche quelli migliori, muoiono. Ed in un attimo, in pochi secondi, cade la maschera dell’essere felici ad ogni costo. O fare finta di esserlo. La speranza scompare senza dare nessuna spiegazione. E’ in momenti come questi che la parte felice si denuda e mostriamo la faccia più autentica, quella che soffre, forse quella più consona all’essere umano. Eppure se chiediamo alle persone per strada cosa vogliono dalla vita, il più delle volte risponderanno: “essere felici”. Quasi un’ossessiva ricerca, nella spasmodica incapacità di affrontare il dolore e vincerlo, facendo amicizia con questa oscura presenza. Eppure è questa immaginaria, quanto ideale, aspirazione o speranza diffusa all’essere felice, che ci tiene ad un confine tollerabile dalla pazzia. Ma probabilmente più proviamo a raggiungere questo stato e più perdiamo di vista cosa sia veramente la felicità. Più la rincorriamo e più la vediamo come qualcosa di inafferrabile. Quasi inconsistente. Quando invece, magari ce l’avevamo di fianco o di fronte. Ottusi interpreti di una parte che non è stata ancora scritta da nessuno. Alla ricerca di qualcosa che è al di là di noi, non vediamo quello che abbiamo più vicino a noi. Poi, verso sera, quando la vita ha fatto già abbastanza danni e gli anni sono quelli che sono, magari, realizziamo (e sono pochi quelli che ne hanno consapevolezza) che la felicità era stata li per tutto il tempo. Non nei nostri sogni. Non nelle nostre speranze. Ma nelle cose che ci circondavano. In quelle cose semplici che ogni persona sarebbe riuscita a vedere ed apprezzare se non fossimo diventati ciechi per convenzione sociale. Alla ricerca di quello che sembrava irraggiungibile e che magari era ed è sempre stato alla nostra portata: vivere senza fingere.
Se non respiri attraverso la scrittura, se non piangi nello scrivere, o canti scrivendo, allora non scrivere, perché alla nostra cultura non serve. - Anaïs Nin -
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