Già. Giampiero Francese

E' un viaggio dell'uomo che "si perde, poi ritorna e poi ti guarda" quello di Giampiero Francese*. 
Un movimento che si compie dal centro del mondo sino alla "casa", all'amico, alla parte migliore di noi stessi.

Il percorso è in simbiosi con l'anima dell'uomo, autenticamente reale. Parte dal cuore e si spinge nel respiro, poi ritorna alla terra e dalle "spighe di grano" arriva fino a setacciare il "mare" con un'eleganza che "cammina sopra le stagioni senza certe paure che han bisogno di canzoni". 

Per queste ragioni è anche poteicamente sonoro, si sente sulla pelle, lo si avverte concretamente, quel "vento che spinge", nella "danza" della "neve sospesa sull'asfalto", nella "vita" che ci "lascia" nell'alba "zigana". 

Il cantautore si "ferma come se si fermasse il tempo, come se di colpa si fermasse tutta la gente del mondo" per fissare la "bellezza di una ginestra" che spiega quanto sia complicato morire. E se la ricerca è incessante, l'aspirazione dell'amore è quasi mai pago del desiderio. Così si comprende l'incertezza della conoscenza, del sapersi e del covincersi che nel silenzio si può creare la salvezza dell'uomo che "ha imparato a perdere" nel raddoppio dei passi che portano alla "guerra" che, però, un giorno "finirà" così come "finirà questo dolore, questo puzzo di sudore". 

E nel paesaggio (probabilemte a metà strada tra l'onirico e il vissuto) appare, magicamente, anche Matera, così "bella e piena di pazienza". Un locus che resta immobile ma, allo stesso tempo, si muove nello spazio lunare come un "bambino sul terrazzo che mangia una pesca". Fanciullezza che si perde, che si allunga sui sentieri della morte, che si lascia andare al malinconico travaso della vita nell'aldilà, nella canzone Iman, infreddolita e incapace di mutare l'orrendo destino che l'attende, dentro un cappotto che nulla potrà fare per salvarla da una guerra ingiusta e che, inesorabilmente, miete vittime innocenti. 

In ogni canzone, si assiste ad una crasi di corpo e coscienza, di materia e immateria, di cose lasciate e ritrovate, mentre danzano le parole, con la voglia di "ballare" e il desiderio di "vivere" senza...(che cosa?).
Forse l'aspirazione più carnale, che scende nell'osso, è quella di recuperare quei sogni che "ritrovi di mattina sui muri della stanza", che servono a scacciare la "tristezza degli elefanti", "la rabbia dei vulcani", e soprattutto la "paura", in una preghiera che parte dal Cristo per arrivare a scandagliare i meandri più reconditi della sua coscienza. 
E poi ancora, riecco la "terra", così bella e così salvifica, che si identifica, in tutta la sua magnifica estensione sensuale, con colei che l'abita, una certezza che non ammette dubbi o recriminazioni.

                                     
Ho scoperto Giampiero Francese grazie all'amico Dario Marzullo. La sua voce, la melodia che l'accompagna unitamente al testo sono predestinati, meravigliosamente, a fondersi in una maniera così precisa, e senza sbavatura alcuna, tale che, per molti versi, pare di sentire echeggiare, nelle risonanze dei percorsi emotivi, Faber con le sue illusioni, le sue nostalgie, i graffi del suo vivere e quell'innata capacità pittorica di rappresentare una scena, una situazione con poche parole, estremamente precise. 
In questo viene fuori anche il retroterra culturale del cantautorre e le sue inclinazioni artistico teatrali che si muovono, senza alcuna difficoltà, come su un palcoscenico ideale che pur non avendo impalcature crea delle scenografie di grande impatto visivo. La narrazione sonora e canora apre mondi che altrimenti sabbero sottotraccia: uno di questi è l'umanità. 

Ascoltare questo lavoro è un elisir evocativo di sensazioni, luoghi, presenze, coscienze, vite senza nessuna separazione e inscindibilmente legati ad una voce che cattura, tocca le corde più intime di chi ascolta, regala passioni e desideri rivelati.

Il perchè del titolo è lui stesso a spiegarlo: "Già è il diminutivo del mio nome e il secondo un po’ per sfottere questi amici che invece volevano intitolarlo “finalmente” perché dopo tantissimi anni ho trovato il tempo per ordinare questa mia passione, queste canzoni nel cassetto, che finalmente sono su un CD che rimarrà li, farà il suo decorso. Una canzone presente nell’album intitolata “Io che non ho”, era una canzone che facevo con Pino Mango ma come questa anche altre, ben quattro canzoni che hanno qualche decennio, ma che comunque le ho volute incidere insieme ad altre sei nuove. L’album vero e proprio nasce in una notte, IMAN, la notizia di questa bambina siriana morta di freddo mi ha colpito moltissimo ed ho pensato subito di incidere questo album e di devolvere l’intero incasso dell’album in beneficienza all’UNICEF, per comprare delle coperte a questi bambini che in Siria oltre a subire tutti i danni che portano le guerre, devono superare anche la pandemia da Covid-19." 

Aggiungo, a margine una nota di rilievo che va ad arricchire la già pregnante importanza di questo lavoro che ha "un nobile scopo, quello di aiutare attraverso i suoi proventi, i bambini siriani, vittime di una guerra senza fine. Non è la prima volta, che l’animo sensibile e generoso di Gianpiero Francese, si accende per opere umanitarie. Tante le iniziative benefiche, che l’artista melfitano ha messo in campo in questi anni. La storia di Iman, piccola ed indifesa bambina, morta di freddo, tra le braccia del padre, un anno fa, ha toccato nel profondo, il cuore di milioni di persone nel mondo. Gianpiero Francese ha inteso farle un omaggio e proprio Iman, con le sue struggenti melodie e con un testo che raggiunge gli angoli più angusti e nascosti dell’animo, è il brano che apre un Cd che non può non essere acquistato. La preziosa mediazione dell”Unicef, garantisce un ulteriore tocco di ufficialità alla missione umanitaria dell’iniziativa, oltre che veicolare in maniera adeguata i fondi, che saranno interamente devoluti alla causa a sostegno dei bambini siriani." 

Brani presenti nel cd: 1. Iman; (G. Francese) - 2. Terra; (G. Francese) 3. Settembre; 4. Io che non ho; 5. E meno male; 6. E mi fermo; 7. E sei tu; 8. Alba tzigana; 9. Nuvole; 10. Visto da qui (G. Francese)



- *Cantante, autore, regista e musicista melfitano. Ha lavorato con Pino Mango per 4 anni. E' stato allievo di Giorgio Albertazzi, uno dei massimi attori della storia del nostro tempo.





Non ho mai finito. Monia Gaita

Monia Gaita è nata a Imola ma vive da sempre a Montefredane, paese d'origine in provincia di Avellino. Giornalista e critica letteraria, ha all'attivo le seguenti pubblicazioni: Rimandi (Montedit, 2000), Ferroluna (Montedit, 2002) Chiave di volta (Montedit, 2003), Puntasecca (Istituto Italiano Cultura Napoli, 2006), Falsomagro (Editore Guida, 2008), Moniaspina (L'Arca Felice, 2010), Madre terra (Passigli, 2015) - Premio di letteratura allo Spoleto Art Festival 2016. Diverse le antologie che si sono occupate della sua poesia. Collabora con il "Quotidiano del Sud" e a importanti riviste web e cartacee. E' direttrice di Delta 3 Edizioni. Porta avanti nella sua Montefredane, con la Pro Loco che presiede, il Premio di Cultura "Oreste Giordano", volto a valorizzare eminenti personalità del mondo giornalistico, della poesia, della scrittura, dell'arte e della scienza. 

"Non ho mai finito" è il suo ultimo lavoro poetico, pubblicato per i tipi di La vita felice ne "Le voci Italiane" - direzione editoriale di "Poesia italiana contemporanea" Diana Battaglia. 

Nell'aletta interna, posta sulla copertina, si legge: "Già il titolo, Non ho mai finito, stabilisce il contesto di veritò in cui si muove la parola poetica di Monia Gaita, adibita a percepire, cogliere e analizzare realtà materiale e trama interiore. Uno scavo che diventa fede e obbedienza consapevole dell'irrisolto mistero sul quale il dire, inesauribilmente, lievita e si interroga. Un linguaggio lirico alto che crea con accostamenti ibridi, anche attinti ad un lessico tecniscitico e comune, una genealogia solida di originalità e di forza. Se la poesia deve sollecitare il pensiero e spalancare i varchi, questi versi non affacciano alcuna prossimità all'ovvio e al futile. Il discorso si fa detentore di una potente agibilità comunicativa, incorporata in un bagaglio di significanza che il lettore potrà facilmente riconoscere." 
*

Le preziose gemme poetiche, raccolte in quest'ultimo lavoro di Monia Gaita, sono divise per tematiche: Il ciclo del sentire; Confluenze; A colloquio con i luoghi. Ognuna di queste rappresenta, come in una mappa geografica emozionale, le fasi di un viaggio, in una declinazione, potrei azzardare, tutta al femminile di una moderna e travolgente Odissea. 

Qui l'eroina è una donna che non resta ad attendere salvezza, a filare la tela, ma che si affaccia sul precipizio del cuore "spento e diroccato" per provare a dimenticare, a ricordare, in un viavai, sempre fecondo e profondo, di tesi ed antitesi, l'assenza e la presenza dell'amato che "dilata e infiamma i piccoli vasi intorno alla ferita". 
L'autrice si muove, nel "Ciclo del sentire" con estrema delicatezza, quasi area sulle rovine del nulla, non trascurando, però, di legarsi sempre, anima e corpo, alla natura che la circonda e che la vivifica come nettare di sopravvivenza.
E anche quando "la grandine" scuote e affolla il suo "selciato" lei riesce lo stesso a contenere, nella sua "tempra forte,  un equilibrio di "squilibrio" capace di salvarla, sempre.
Nel gioco delle circostanze, nelle stanze che apre e chiude senza mai abbandonarle, si muove con la velocità di un levriero per sfuggire al nibbio che aleggia, crudelmente, nelle vivide immagini del suo "santuario dell'uguale". 
Eppure, come "acrobata di forza" sottovoce e stanca, ancora si ferisce davanti alle omissioni di parole non pronunciate, carsiche e spigolose, che restano, severe, in "groppa a una macchietto di domande". Qui capita anche di inerpicarsi nel ventre di un terremoto, ove la stessa si perde, alla ricerca di una rassicurazione che vuole essere una goccia d'assenzio, necessitante alla virtù per sorreggersi nel deserto della fame "fuori dai malintesi".

A seguire, nelle "Confluenze" parla il "polso della coscienza" che segue le tracce dei ricordi e della memoria "come un cieco" mentre la "terra si sgretola" e lei diventa vulnerabile, vinta e condannata a cibarsi degli avanzi. Riemerge, per questo, la fatica di "pettinare tutti i giorni la speranza" come un mantra che stipa e conserva, senza farne parola con nessuno, passato, presente e futuro. Mai nessuno riscirà ad accomodarsi in quell'abitato emotivo per  carpirne la verità. Le urla sono ben stipate nella dispensa degli affanni e lei le conserva nei barattoli ricoperti da quella polevere che serve "a pedinare il buio, sfiancata alla linea del traguardo".
Accade quindi di scoprire che il "cuore è una brughiera inutile coperta dalla neve" e che quando la "tristezza sfodera la spada" l'innocenza perduta diventa un rimpianto da cui non si riesce ad uscire indenni. Ma certi "ricordi assomigliano al legno" e arrivano a pretendere resistenze e combattimenti a chi vorrebbe arrendersi e prova a sopravvivere a se stessa. 

Infine, nei "Colloqui coi luoghi", "scivola dal cavallo delle nuvole" per slegare il passato dal presente, e "scovare sotto le foglie floride" quel nome che echeggia, nel quotidiano e nel sentiero delle evanescenze, concreto, pulsante, abitante certo, senza la lama dell'utopia, nella curva dei pensieri migliori che fanno pane della mancanza e lasciano i feriti sulle strade. 
"Anche il tuo corpo è da salvare" lo dice al ventricolo del suo locus natio "Montefredane", nella terra della sua genesi e di quella rapace lotta contro i guizzi delle "vampe" che sono fuoco e attrito sulle voglie e reminescenze dell'attesa, dell'ora, mentre da lontano "fischiano i polmoni dalle case" e il "nido dell'infanzia è divorato" nei frammenti aguzzi di un sisma, quello del 1980, che scarnifica e crea "ulcere alle mani."
La sua lirica, vestita in ultimo di carmi luttuosi, ricurva davanti al cadavere del Sud, è quasi rinunciataria rispetto alla speranza della resurrezione, mentre la desolazione è una "bestia" che sembra spingerla "alla deriva". Eppure, nulla di tutto questo accade, la maschera d'argilla cade nella cruciale battaglia della sopravvivenza. La genetica ragione dell'appartenza risale a farsi strada e lo si vede quand'essa parte per posti senza storia. E' proprio nel muoversi verso e lontano che, l'autrice, resta ancorata alla sua Itaca, "all'utero dei campi" con "l'uncino dei rumori sulla pelle".
Una radice fluttuante che si allunga ma non si spezza e, talmente elastica, da tornare sempre all'origine, a quel punto nodale da cui parte il suo complesso peregrinare. 

Gaita resta "fedele ai muri, indistinguibile dal rosmarino e dai papaveri dei campi" per difendere, con le unghie con i tormenti dell'illusione, la "gioia" che pure "muore sulle labbra" ma che pretende di difendere nel "ti amo", insegnamento unico per le "epoche remote" ed esempio fruttifico per le nuove. La sua Odissea è un ritorno costante, spogliato di dubbi, che pur risalgono a corrodere leggermente l'assioma dei suoi pensieri. 
E' un ricongiungersi e allontanarsi, nella morsa del desiderio più carnale e carico di soltizi dove la speranza, pur in difficoltà sulla pazienza, mai s'aarrende e riemerge dagli annegamenti del destino, è una sfinge che si rialza e arde luminosa. Come luminose e ricercate sono le parole che l'autrice ricama nelle sue poesie. 

L'arte del dire è, per Gaita, estetica della parola e purezza del sentimento che le muove. Nessun termine è lasciato al caso, ogni minimo particolare è briciola di pane che serve alla sua fanciullezza per ritrovare l'anelata via di casa e qui, troverà ad attenderla, la maturità. Eppure anche dove la strada "sembra rettilinea" c'è qualcosa in lei che si sgretola per diventare relativa, perchè "dietro ogni" sua scelta "c'è un retroscena" che non si vede.
Resta, comunque, la magia del non detto a rivestire il suo rigoglioso sottobosco. 

E intanto vivere 
nella coscienza mezzo fradicia dei giorni,
le gambe sciolte del non pìù sperare
e al punto in cui la scelta si biforca
-nessuna titubanza-
percorrere una strada.




Edipo. Per una genealogia dell'umano. Luigi Anzalone

Nella genesi del mito di Edipo, accanto a Freud e immediatamente dopo di esso, solo per ragioni temporali, si innesta un libro che, in una forma corposa ed analitica (qualcuno lo chiamerebbe giustamente saggio ma io dico che è un unicum ossia un saggio ed un libro di narrativa insieme), si diversifica e si rende autentico rispetto al già detto, al già letto tale da prendere un posto di assoluto rilievo e vi rimane per tracciare, fondare una variante acuta, intelligente, autentica dello stesso. Parliamo di EDIPO [Per una genealogia dell’umano (Pensa Editore)] nato dalla genialità eccelsa di Luigi Anzalone, professore di storia e filosofia, filosofo di grande intuizione stilistica e devoto alla critica dell’Humanum, personaggio politico di spicco della sinistra italiana (quella vera) negli anni in cui l’arte di governare o la scienza dell’amministrare era ancorata a valori, ideali di appartenenza, fortemente devota al benessere sociale e alla parità di diritti (e doveri) ma anche totalmente priva di qualunquismo e spurio populismo. 
Luigi Anzalone era e lo è tutt’oggi, con un pensieroso disincanto, un comunista marxista nel senso più idealistico del termine, forte di una grande e vasta cultura che abbraccia ampiamente la sua terra d’origine, quella di elezione (e non solo quella) e va, speditamente, oltre confine. E’ stato altresì corrispondente dell’UNITA’; consigliere del Comune di Avellino; segretario provinciale del PDS; assessore regionale della Campania al Bilancio, al demanio e ai rapporti con i paesi del Mediterraneo; presidente della Provincia di Avellino; vicepresidente della Commissione Regionale Anticamorra. Ha scritto numerosi libri e saggi sulla filosofia antica (Socrate) e moderna (Nietzsche, Colli, Croce, Arendt) e sulla questione meridionale. Tra i testi di maggior spessore si segnalano (per brevità di esposizione): Memoria e utopia in Ernst Bloch; Lungo il fiume senz’acqua; La Dea Bianca e la comunità interculturale; Eroi nel paese della mafia. Storie italiane: Impastato, Ambrosoli, Falcone, Borsellino, Don Puglisi. Anzalone è un fine pensatore ma anche un attivista senza indugi, figlio di quell’indissolubile ideologia che vide, in Gramsci e Berlinguer, i maggiori esponenti. Questo UNICUM, mi si passi il termine descrittivo di un’opera singolare ed innovativa nel suo genere, consta di una straordinaria quanto stringente e radicata introduzione di Giuseppe Cantillo, accompagnata da una prefazione ed una nota a margine ad opera dello stesso Anzalone. Seguono quattro parti divise in sette capitoli ed una conclusione. 

La prima parte, rubricata: EDIPO E IL REGNO DELLE MADRI analizza Bachofen, l’interpretazione Hegelina dell’Antigone di Sofocle unitamente a Freud e al complesso di Edipo (come fondamento della psicoanalisi). La seconda parte, rubricata: EDIPO E LA STORIA racconta, con le spinte e i tratti stilistico letterari propri di un romanzo avvincente, la nascita del mito, il percorso evolutivo, l’ira degli Dei, il destino eroico-tragico dell’uomo affetto da Hybris, la morte di Giocasta, la morte dei figli uno per mano dell’altro ed infine quella di Edipo in esilio per terminare con lo scontro tra Creonte ed Antigone con la condanna a morte di quest’ultima. Segue una terza parte, rubricata: EDIPO, LA SFINGE E L’ENIGMA, su cui concentreremo la nostra indagine, oltre a una quarta rubricata: L’ANIMALE CHE CAMMINA NEL TEMPO dove si racconta l’evento metafisico originario, l’uomo, l’anamnesi materna della preistoria, l’animale che muore e la nascita dello spirito. Con questo libro, con Edipo, Anzalone compie, dal punto di vista dell’indagine filosofica e speculativa e altresì da quello narrativo – letterario, un “triplo salto mortale carpiato con avvitamento”. Qualcosa di davvero difficile e sorprendente (ma non troppo per chi ha la fortuna di conoscerlo) che gli riesce con una semplicità, a tratti, decisamente sconvolgente. Nella sua indagine, nella riflessione investigativa sulla nascita dell’uomo, nel dileguarsi nella notte del Sé, in cui tutto può scomparire oppure essere conservato, qualsiasi cosa diventa un dilemma, una domanda, una incognita, in una parola un enigma. In questa notte indecifrabilmente spaventosa ma meravigliosa, che fissa l’uomo negli occhi, scrutandone l’inconscio, ecco venir fuori quell’alito di passato, quella radice profonda, da cui ognuno di noi proviene. Dal “già vissuto” dell’incosciente notte si materializza la coscienza del giorno. Da quella che Hegel chiamava “notte della conservazione” prende vita, corpo, dimensione, quella genesi e genealogia insieme dell’umano. Un soggetto che cammina, perennemente, sul filo di un rasoio, sulle altezze pericolose della coscienza e dell’incoscienza insieme. Eppure quegli occhi, che Edipo si caverà per la dolorosa scoperta dell’incesto, servono, prima ancora che a raccontare la tragedia, a costruire una questione ontologica: il discorso sull’essere uomo, uno e pluralità. Per ricondurre l’essere dall’oggettivo al particolare e dal soggettivo all’universale, in uno scambio di interdipendenze reciproche di memoria, coscienza, conoscenza, sapere positivo, storia in un percorso verso “l’evento metafisico originario”. Quell’evento che generò il mito di Edipo, partorito, se così si può dire, con sangue e dolore, dalla lotta acerrima tra patriarcato e matriarcato. Di questa visione, cruda e carnale insieme, l’autore prima si veste dei suoi poderosi studi, da quelli sul matriarcato di Bachofen a quelli di Freud, nell’accezione psicoanalitica di “Complesso”. Ne crea un abito elegante, rifinito con cura, preciso nei dettagli e nei particolari tuttavia alquanto stretto, per la complessità della sua materia cerebrale. Per tale ragione, ad un certo punto della sua analisi clinica, quasi si trattasse di un’autopsia per conoscere le reali cause di una morte, se lo strappa di dosso, lo lascia cadere sul pavimento, dimostrando, in questo modo, l’autenticità e la modernità del suo argomentare. 

Anzalone comprende che, per parlare di Edipo necessarium est nascere o dovremmo dire: rinascere. Uscire dal magma del ventre materno, respirare il primo afflato d’ossigeno, piangere disperatamente per il distacco, essere o voler essere un bambino che ha appena visto la luce del giorno, le cui iridi sono ancora vergini rispetto alla infelice tragedia del mondo che lo circonda. Solo rivestito di pelle, ancora calda e umida per il parto, con le autenticità della materia ancora non plasmata, ma pronta a formarsi nel percorso evolutivo, si diventa uomini, con tutto quello che ne consegue. Ed ancora da quel bambino, poi abbandonato per un presagio di sventura, ma ricondotto dagli eventi o dal fato fino al principio della sua genesi, che parte l’incipit di ogni cosa. E’ un Edipo uguale e diverso da tutti gli altri, tesi e antitesi di domande indefinite, rivestito della sua pelle originale e “solo sua”, quella pelle che gli dà modo di creare, dal mito, conosciuto e riconoscibile, un essere concretamente attuale, tratteggiato con delicata autonomia. Un racconto indagatore, di critica e assoluzione, senza tuttavia condanna, in una soggettiva e per questo direi quasi riformata versione. Con estrema sapienza, con inziale cautela eppur senza paura, si tuffa nell’oceano prima calmo, poi burrascoso, delle teorie, conosciute e conoscibili, con quell’acrobazia così complicata e difficile di cui ho detto prima. Una volta completamente sommerso, quando tocca la profondità della conoscenza, riesce a riemergere portando con se un’essenziale e particolare (unica) materia plastica che gli servirà a costruire e celebrare quella saga mitologica caratterizzata principalmente, ma non esclusivamente, dal germe della violenza. In questa genesi paradigmatica, che altro non è se non una rinascita del mito, viene ricomposto, ristrutturato, rimodernato, sino a giungere a compimento, il mito nella sua grandezza e nella sua tormentata esistenza. 

A differenza di Freud che, nell’Interpretazione dei sogni, espone la teoria del “complesso” edipico, muovendo dall’Edipo Re di Sofocle, certificandone l’antica genealogia e vitalità carnale del complesso, quindi analizzando il rapporto con la madre e amante con Giocasta, Anzalone cerca di estrapolarlo dalla carnalità incestuosa tentando (riuscendoci, come diremo avanti) una complessa operazione di spostamento dell’attenzione o dell’indagine dal factum principis ad un fatto collaterale ma per ragioni di analisi filosofica decisamente fondamentale per disvelare tutto il resto. È sulla sfida, quella di Edipo con la Sfinge, che si incentra un’insolita ma più attrattiva definizione del mito. Come una statua che si sgretola dalle fondamenta, che supera la staticità in cui era stata relegata, nella lettura di questo testo riusciamo quasi a vedere la caduta del materiale che teneva bloccato il mito, immobile, fermo, nella posizione di attesa perenne. Statua che era ancorata, con funi solide, a un’idea o più di una, convergenti e fisse nella profondità di un terreno, in alcuni punti, fatto di sabbie mobili, tendenti a farlo soccombere nei sotterranei della perdizione. Legato così fermamente e stabilmente da non consentirgli alcuna fuga o passo in avanti. Eppure quella statua, originariamente, era un valoroso guerriero su cui, un Dio Malvagio, aveva colato, senza possibilità di salvezza, argilla mista a marmo, per tenerlo inevitabilmente pietrificato. Nel libro di Anzalone il focus principale è sull’enigma vista non solo come un tratto morfologico della grecità ma come drammatico contrasto tra due leggi, o potenze etiche, pregna di un carattere totalizzante ed assoluto. Ma cosa vuol dire enigma? L’autore parte dalla parola latina “aenigma” derivante dalle parole greche ainigma e ainigmos che rinviano, di poi, ai verbi ainissomai e ainittomai, che significano “parlare coperto”, “accennare oscuramente”. 

Aristotele definisce l’enigma come una “formulazione antifatica” collegandolo inscindibilmente alla metafora e alle sue ambigue contraddizioni. Quindi mentre l’enigma consiste nel dire quello che si ha da dire mettendo insieme cose impossibili, nella metafora vi è il trasferimento ad un oggetto il nome che è proprio di un altro e questo trasferimento avviene o dal genere alla specie o dalla specie alla specie o per analogia. Alla categoria dell’enigma, citando Colli, vi è origine ed essenza del potere divinatorio religioso e filosofico greco fino ad arrivare alla sua stessa civiltà. Sul terreno della mania l’esperienza umana e culturale dei Greci fa incontrare Apollo e Dionisio. Dionisio manifesta nella violenza il gioco, Apollo, viceversa, nel gioco la violenza. La pluralità e la totalità della vita nasce dal loro reciproco rinviarsi. Nel dionisiaco c’è la raffigurazione dei limiti entro cui si muove l’esperienza umana: l’animale e il Dio. Nell’apollineo si riflette il carattere conoscitivo ed ermeneutico di tale esperienza. Per questa ragione “a Delfi si manifesta la vocazione dei Greci per la conoscenza. Difatti il sapiente non è il ricco di esperienza, chi eccelle in abilità tecnica, in destrezza, in espedienti, come lo è invece per l’età omerica). Odisseo non è sapiente. Sapiente è invece chi getta luce nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi precisa l’incerto” (estratto da Colli: La nascita della Filosofia; come e più estensivamente citato nel libro di Anzalone). Considerando, senza svelarlo, quello che avviene nella sfida tra Edipo e la Sfinge e nel prosieguo della vicenda, prima “trionfale e felice” poi “drammatica e persino tragica” Anzalone avanza l’ipotesi, oppure il sospetto, che “il senso dell’enigma di Edipo come enigma dell’uomo, della condizione umana nel mondo, possa non essere tale da sciogliersi”. Ma cos’è la Sfinge? Cosa in realtà rappresenta? Innanzitutto è opportuno distinguere fra due tipologie sfingi: quella egizia e quella greca, che rimandano a significati simbolici assai diversi. 

Quella dei monumenti egizi (che Erodoto chiama androsfinge, per distinguerla da quella greca) è un leone accovacciato, con testa d’uomo; rappresentava, si congettura, l’autorità del re, e custodiva i sepolcri e i templi. Per converso, la sfinge greca ha testa e petto di donna, ali d’uccello, corpo e piedi di leone. Altri le attribuiscono corpo di cane e coda di serpente. Dicono che desolasse la regione di Tebe, proponendo enigmi agli uomini (poiché aveva voce umana) e divorando quelli che non sapevano risolverli. Anche la posizione varia nelle due culture: la sfinge egizia è distesa sulla pancia, spesso con le zampe anteriori in posizione di offerta, mentre quella greca sta seduta sulle zampe posteriori, col busto eretto e le mammelle sporgenti. Gli Egizi la chiamavano Shespankh (statua vivente) carica di uno slancio vitale quasi che il suo granito vibrasse a livello molecolare; "guardiana delle soglie proibite e delle mummie reali. Ascolta il canto dei pianeti, veglia sul limitare dell’eternità, su tutto ciò che è stato e che sarà. Vede scorrere in lontananza i Nili celesti e navigare le barche del sole" (estratto da "Il libro dei morti"). Quindi la sfinge è simbolo strettamente connesso alla morte, al passaggio ad un mondo al di là. La sfinge greca, invece, non è più il guardiano delle porte dell’infinito, bensì diventa una specie di mostro terribile, più crudele che enigmatico, nel quale si può facilmente vedere il simbolo della femminilità perversa e pericolosa. Nella tradizione mitologica della Grecia antica la sfinge è figlia di Echidna, essere ibrido mezzo fanciulla e mezzo serpente, madre di esseri mostruosi quali la Chimera, Scilla, la Gorgone, Cerbero, il Cane Ortro. Frutto dell’accoppiamento incestuoso tra Echidna ed Ortro, la sfinge verrà conosciuta, grazie a Freud, quale simbolo dell’inconscia pulsione incestuosa presente nell’uomo. Portatrice dell’enigma che causa la morte di chi non lo risolve, simbolo della dissolutezza e del dominio perverso: essa fu mandata da Era contro la città di Tebe per punire il re Laio ritenuto colpevole d’omosessualità. Sconfitta solo dall’intelletto, dalla sagacia, in contrapposizione con l’istupidimento ottuso nella sua posizione statica aderisce indissolubilmente alla roccia sulla quale poggia. E’ dotata di ali ma non vola e non le servono neanche per salvarsi dall’abisso nel quale si getta per suicidarsi. La Sphynge greca, nei tratti femminilizzata, diviene simbolo della vanità tirannica e distruttiva. Jung ne ha sottolineato gli aspetti legati all’archetipo della madre nella sua valenza negativa, aspetti con cui ciascun soggetto umano, per divenire tale, deve potersi confrontare. Aspetti che non dovrebbero essere sottovalutati né sminuiti essendo, per ognuno di noi, la "grande prova" per divenire adulti. Fatta questa premessa, se la vicenda di Edipo può essere presa a modello di quella umana questo vuol dire che l’uomo quando si conosce e si comprende come uomo, sia nel “farsi”, nel “diventare ciò che è” resta un “enigma” ignoto a se stesso, un “miscuglio dialettico di possibilità ed impossibilità” oppure “una possibilità impossibile o una impossibilità possibile”. 

Ebbene, i Tebani ed Edipo sono uomini nel senso pieno del termine? Se gli uni perdono la sfida e sono divorati dalla Sfinge mentre l’altro lo risolve, costringendo la Sfinge al volo mortale, allora è chiaro che i primi (i Tebani) siano quasi l’emblema dell’immagine capovolta della Sfinge. Insomma sono più animali che uomini (la Sfinge era per metà animale e per metà umana). Soltanto Edipo sa rispondere e svelare l’enigma e la cosa gli riesce nel modo peggiore ed ambiguamente beffardo. Le sue possibilità esistenziali si convertono nel loro opposto, tanto è che le nozze con Giocasta sveleranno la loro atroce fisionomia solo quando non si potrà più porre rimedio al male tremendo che hanno cagionato. Si potrebbe senz’altro dire, quindi, che la risoluzione dell’enigma, la vittoria di Edipo sulla Sfinge risulta, infine solo apparente perché se è vero che chi risolve non vive e viene divorato e chi risolve vive e viene proclamato Sapiente, Re di Tebe, ecco che la stessa vittoria lo conduce all’estrema vergogna, all’accecamento, alla perdita del trono. Per tale ragione, dal momento in cui Edipo risolve l’enigma, ecco il germe della disperazione e della morte che si innesta nella sua vita. Apparentemente vittorioso porta in se la genesi di un nuovo dolore, questo comprensibile e vissuto sin nella carne, con la razionalità di un uomo che non è più un bambino abbandonato ma un Re. Il trionfo di Edipo, quindi, prelude alla sua rovina e la nascita dell’uomo, in quanto uomo e la sua morte in quanto animale non accade mai definitivamente. Anzi l’autore dice che accade soltanto in parte e altresì riconducendo la soluzione dell’enigma alla morte dell’animale per metà donna, si allude non solo alla fuoriuscita della specie umana dall’ordine di Madre Natura ma anche e soprattutto all’eventus dell’uomo che “si fa uomo” mediante il camminare eretto, il linguaggio, il pensiero simbolico e trova la sua primordiale interazione nei primi anni di ogni essere umano dopo che fuoriesce dal grembo della madre. Dalla nascita ci si lega, per converso, in maniera stringente, alla morte, come una necessità assoluta per la definizione autentica della prima e, lo diceva semplicisticamente anche una canzone, “si muore un po’ per poter vivere”. Eppure “la morte - diceva Heidegger - è lo scrigno del nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente assente e che, tuttavia è, addirittura si dispiega con il segreto dell’essere stesso. La morte alberga in sé ciò che è essenziale dell’essere.” L’Edipo di Anzalone esprime, nella sua drammatica sconvolgente esistenzialità, l’ambiguità, la doppiezza, l’enigmaticità. Edipo è il chiaroveggente, il decifratore di enigmi, ma è lui stesso l’enigma che, nel suo accecamento, è incapace di decifrare. Non è quindi uno bensì un doppio come la stessa parola dell’oracolo. E’ un re salvatore ed un mostro di impurità che concentra su di se tutto il male, tutto il sacrilegio del mondo e che bisogna cacciare come un pharmakòs, un capro espiatorio perché la città, ritornata pura, sia salva. Eppure il mito che racconta Anzalone non è quello di un eroe. L’eroe, dice Schelling, è tale in quanto sfida il destino pur consapevole, nella sua finitudine e mortalità, di essere destinato a soccombere. 

Ma proprio quando egli sfida il destino, acquista la grandezza del destino e diventa eroe. Ossia quell’uomo tragico che affronta con tenacia e coraggio (eroismo appunto) la morte. La guarda dritta negli occhi, non ha timore di affrontarla, quasi l’accoglie nella sua vita, pronta ad inginocchiarsi fatalmente al destino. Edipo, per contro, è un uomo che si ribella al destino non per diventare eroe ma per non abdicare al suo essere uomo ossia padrone autentico di se stesso e delle sue azioni e quindi anche della sua sorte per non essere un oggetto in balia del destino o vittima di questo. Un destino che lo avvolge e lo travolge, che lo edifica nella gloria e lo distrugge con le sue stesse mani. Tuttavia, in questo tentativo di essere un anti-eroe che diventa un eroe e dopo aver tanto combattuto, lottato, deve rassegnarsi a quel Dio che gli cola sul corpo una sorte già scritta, sin dal primo vagito. Edipo è quindi l’eroe, l’emblema, dell’infelice condizione umana.  Edipo scioglierà l’enigma della Sfinge ma mai scioglierà l’enigma di se stesso. L’enigma delle tre età, l’evidente allusione alla filogenesi dell’uomo, che la Sfinge propone ad Edipo, si riferisce non solo alla portamento fisico, al modo di camminare dell’umanità ma alla sua sostanza psicologica, alla mentalità, al carattere esistenziale ed esistentivo dell’essere umano. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che è “nell’evento metafisico originario” che si raccoglie e si condensa la vita dell’uomo, molteplice, ricca, complicata, diversificata e diversificabile rispetto a tutte le altre vite umane e soprattutto animali. Si tratta del passaggio dall’ominide all’uomo, l’anello mancante dell’evoluzione o, se vogliamo, il momento in cui l’evoluzione raggiunge un livello così alto da essere inadeguata. Ed ecco che l’uomo si costruisce, materializzandosi scientemente, nel suo interpretarsi: l’uomo è un animale “ermeneutico”. Il momento culminante di questo evento metafisico Edipo lo vive nell’affrontare la Sfinge quando si stabilisce, nella risoluzione dell’enigma, che l’uomo si muove nello spazio, innanzitutto perché lo percepisce nel tempo, nel prima e nel poi e anche nella simultaneità dei momenti. L’uomo muore come animale perché è coscienza, più precisamente diviene coscienza. Coscienza che fruttifica nel pensare ed essere pensiero. 

L’uomo quindi si scopre uomo, coscienza, tempo, proprio nel fatale cammino sulla strada della morte, impegnato in una sfida costante (e impari) con questa. Nella risoluzione dell’enigma, nel movimento dell’uomo nel tempo, nei tre stadi della vita, infanzia, maturità, vecchiaia, la Sfinge lacera le sue carni nell’abisso e nella morte dell’animale subentrare la nascita (ma anche la rinascita) l’uomo, il suo essere diverso. Uomo che tuttavia, nel cogito ergo sum dell’esperienza intuitiva Cartesiana, demolisce il sogno (per dirla alla Husserl “il sogno è finito”) perché sa che il tempo non è pieno ma parziale, che gli rimane da viverne un pezzetto, perché comprende di essere mortale. Concludo, per non disvelare tutta la bellezza concettuale di un testo che va letto, evidenziato nei passaggi più impegnativi per essere poi riletto, riassorbito-rielaborato-rivissuto con consapevolezza critica, richiamando una frase di Eraclito che meglio evidenzia, ad inizio opera, su cosa focalizzerà l’attenzione il suo autore nel racconto e nella peculiare rivisitazione del mito: “Tentai di decifrare me stesso. La trama nascosta è più forte di quella manifesta. I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade, così profondo è il logos che le appartiene”. 


Di terra e di donna. Maria Gabriella Cianciulli

Maria Gabriella Cianciulli
nasce a Montella, un paese dell'entroterra irpino, dove tuttora vive. Consegue la maturità magistrale e l'abilitazione all'insegnamento per le scuole primarie. Il suo percorso poetico prende forma con la pubblicazione della sua prima raccolta Echi di maggio, un atto di riconciliazione del proprio vissuto con il Reale attraverso la Natura, compagna e musa ispiratrice.

Per la Rubrica #IlcantodelleMuse parliamo del suo secondo libro di poesie: Di Terra e di Donna, edito nel 2021 dai tipi di Controluna.
Questo lavoro, con la postfazione di Giuseppe Cerbino, ha una dedica speciale, che mi piace riportare: 

"A mio marito Giuseppe, compagno inseparabile di un viaggio difficile e bellissimo allo stesso tempo; ai miei amatissimi figli, in particolare Simona, che nonostante le sue difficoltà con il suo sorriso e la voglia di vivere mi ha donato il senso più autentico della vita; a Christian, a Francesco, a Chiara: luce della mia vita, senza i quali non saremo la famiglia meravigliosa che siamo."

Cerbino così ce la racconta "Nella lettura di questo libro di poesie di Maria Gabriella Cianciulli (...) si scorge sin dalla prima lirica, una sorta di mitologia privata tutta incardinata in due poli opposti: la madre e la terra che sono il recto e il verso della stessa cosa. Terra e madre, nella nostra cultura mediterranea, sono concetti spesso accostati in una sorta di sinonimia che svela come entrambe abbiano il loro nucleo antologico nel nutrimento. (...) Questo libro può essere letto come una sorta di moderno Cantico delle Creature in cui il racconto lirico prevale sulla lode e in cui il contatto totemico si sostituisce al ringraziamento. (...)"

*

Ho scoperto Maria Gabriella per caso, per una congiuntura d'astri e deliziosa meraviglia, barattando i nostri reciproci lavori perché sospinte dalla forza naturale ed essenziale delle cose, senza la macchia del tornaconto. Entrambe raggomitoliamo pensieri nelle pagine dei nostri figli di carta e inchiostro, i cui richiami echeggiano nelle valli della nostra Irpinia.  

La poetica Cianciulliana è un viaggio nella dolcezza, nell'arresa della donna ai sentimenti più autentici e concreti, distante mille anni luce dalla liquidità di quel mondo che cammina all'incontrario, sordo alla voce della natura, completamente eradicato dalla magia delle cose.

Le sue note poetiche suonano agli spiriti eletti, aleggiano nelle praterie delle mai evase dimenticanze, danno passi che hanno la delicatezza di un soffione sui cuori dei lodati abitanti e dei disabitanti. L'elegia dell'ambiente come nido e culla ma anche come radice e argilla, mentre il silenzio dei morti richiama pellegrinaggi lontani, ma non troppo da quella casa a cui sempre si ritorna. 

L'accortezza e la cura del locus è afflato di emotività intensa e senza fronzoli, arriva alle caverne in cui scorre la linfa vitale e ne innesta nuovo e miracoloso nutrimento. 
Lei che ha imparato a "essere felice là dove sono" senza rimpianti di inconsistenza, glorificando ogni singolo giorno "che racchiude tutta la gioia, tutta la pace..." lo evidenzia richiamando Herman Hesse nelle prose scelte per l'incipit.

E ancora, nelle sue ariose stanze del sentirsi carne ed essenza concreta, tratteggia liricamente, senza inganni, il manifesto del Sud che riemerge vigoroso e, senza rimpianti o penurie di sentimenti, travalica ogni cosa, ribalta l'apparenza e diventa purissimo nello sguardo nitido di quella madre che è "Vita" e dedizione di "un amore in bozzolo" senza alcun tradimento a rovinarne la materia eletta.

"Suggestioni umbratili" ripercorrono ed attraversano l'autrice e le sue discese nei boschi per poi risalire sino alla luna e diventare "braciere dell'attimo assoluto", fecondi regali che lascia ai "naviganti " come "pepite". Divinanti, senza alcuna ansiosa violenza, sono i richiami al rimanere. L'autrice è antagonista, decisa, alla fuga dell'arresa. Ed anche quando è "Dio" a raccontarsi "nell'assenza" tutto si ricongiunge nel tempo come "due lembi strappati" e la disperazione velocemente lascia il posto alla flautata danza, che ancora si rinnova, come "le foglie" che tanto rammenta, nei movimenti ancestrali, quella delle Muse.

Io vivo a Sud del mondo
in petto l'ardore e la nebbia
una chimera nella mente e
sa di sangue
bolle evaporate sugli oceani
raccolte nei grembi immolati
immacolati e sazi d'attesa 

(Da Io vivo a Sud del mondo pag. 12)


Madre raccontami
raccontami terra gravida dal seno
che ha custodito l'attesa in solitudine
le mani incollate alla vita
simbiotica del tempo
che invera la sua pienezza.

(da Madre pag. 9)

Il canto delle Muse. I libri del mio tempo

Narrava Esiodo (Teogonia, 52 segg.) che Mnemosine aveva partorito a Zeus, nella Pieria, in Tessaglia, nove figlie, le nove Muse, sempre allietantisi della danza e del canto, che fanno dimenticare angustie e dolori; e questo era avvenuto dopo che il padre degli dei aveva, con la sua vittoria sui Titani, portato un nuovo ordine nel mondo. Il loro nome però è spesso associato a quello di Apollo, che infatti ne era il protettore e godeva della loro voce e delle loro danze durante le feste e i magnifici banchetti degli dei.

Le Muse (o Eliconie, dal nome del monte Elicona dove vivevano, o Pieridi, perché nate appunto in Pieria, ai piedi del monte Olimpo) erano associate ad un particolare aspetto dell'arte e del sapere. La nascita delle Muse eternò dunque la gioia di quel trionfo; e le gioconde fanciulle ne rinnovavano fra gli dei la letizia, ogni volta che facevano risuonare dei loro canti le sedi dell'Olimpo. 
Secondo l’ordine di Esiodo, queste sono le nove Muse:

Clio: “colei che rende celebre”, la musa della Storia e del canto epico. In mano solitamente ha una pergamena.

Euterpe: “colei che rallegra”, la musa della Poesia lirica e della musica. I suoi simboli sono il flauto e le tibie. Si dice che sia l’inventrice dell’aulos.

Thalia: “colei che è festiva”, la musa della Commedia. Simboli sono la maschera comica, il bastone e la ghirlanda d’edera. Ha un’aria sempre allegra ed è associata anche alla satira.

Melpomene: “colei che canta”, la musa della Tragedia. Simboli sono la maschera tragica, il bastone di Ercole, la spada e i sandali coturni. Era in stretti rapporti con Dioniso e il suo sguardo è spesso severo. Si dice che dalla sua unione con Acheloo, un dio fluviale figlio di Oceano e Teti, siano nate le Sirene.

Tersicore: “colei che si diletta nella danza”, la musa della Danza e della lirica corale. Viene raffigurata con una lira. Spesso in testa ha una corona di allora. Si dice che sia la madre delle Sirene, con padre Acheloo

Erato: “colei che provoca desiderio”, la musa della Poesia amorosa, del canto corale, della mimica e della geometria. In mano ha un rotolo o un plettro ed è raffigurata con una corona di rose e mirto. Di solito vicino a lei è raffigurato un Amorino con arco e turcasso.

Polimnia: “colei che ha molti inni”, la musa del Mimo, del canto sacro e della danza rituale. E’ associata anche alla retorica, alla memoria, alla storia e alla geometria. Non ha nessun oggetto o simbolo, ha un aspetto devoto con tanto di velo e mantello. Spesso ha una corona di perle. A lei si deve l’invenzione della lira e dell’agricoltura.

Urania: “colei che è celeste”, la musa dell’Astronomia, della geometria e dell’epica didascalica. Suo simboli sono il globe celeste o un bastone, ma spesso è raffigurata con l’indice che segna il cielo. E’ sempre vestita d’azzurro e ha una corona di stelle.

Calliope: “colei che ha una bella voce”, la musa dell’Elegia e della poesia epica. Viene raffigurata con una tavoletta ricoperta di cera e con uno stilo oppure con un rotolo nella mano sinistra. E’ la musa di Omero, ispiratrice dell’Odissea e dell’Iliade e di Dante per la Divina Commedia. 

Dapprima, si pensarono le Muse come cantatrici e danzatrici: danzando intorno all'altare di Zeus - come le descrive Esiodo - esse cantavano l'origine del mondo, e la nascita degli dei e degli uomini, e le grandi imprese di Giom, le sue lotte e le vittorie; immensamente superiori agli aedi umani, come quelle che tutte le cose sapevano, e non solo le passate e le presenti, ma anche le cose future. E benché esse si compiacessero in special modo del canto, presto esse furono pensate anche come suonatrici dell'uno o dell'altro strumento; e in tale atteggiamento si vedono spesso rappresentate nelle opere d'arte specie nelle pitture vascolari. E mentre esse, in un primo tempo, avevano impersonato propriamente la gioia della danza, del canto, del suono, in seguito divennero, più genericamente, le dee del canto, invocate e presenti in tutte le occasioni, liete e tristi, nelle quali fossero a proposito la musica e i canti; i loro nomi furono allora messi in rapporto con i diversi generi di poesia, l'epica, la lirica, la drammatica.

Soltanto in età ellenistica però fu definito per ogni Musa il campo specifico della poesia, nella quale si esercitava la sua ispirazione e la sua protezione: e così Clio fu la Musa del canto epico (e, per estensione, anche della storia), Urania dell'epica astronomica (come la concepì e ne produsse Arato) e della didascalica in genere, Melpomene e Talia rispettivamente della tragedia e della commedia, Tersicore della lirica corale, Erato della poesia amorosa (poi anche della geometria e della mimica), Calliope dell'elegia, Euterpe del suono del flauto e della lirica in genere (specie monodica) e Polinnia della danza e del canto sacro. Queste attribuzioni non furono del resto mai fisse; furono di continuo cambiate a capriccio dei poeti e si allargarono, come si è accennato sopra, dal campo della poesia a quello della prosa e delle scienze: e come Clio passò a proteggere la storia, così ad Urania divenne sacra l'astronomia e a Talia l'agricoltura.

Per queste ragioni, sotto l'etichetta #IlcantodelleMuse troverete i libri, unitamente agli autori/alle autrici, che maggiormente hanno stimolato la mia attenzione e che accompagnano il mio tempo. 

Buona lettura



Il canto delle Muse. I libri del mio tempo

Il canto delle Muse. I libri del mio tempo

Studio Legale Avv. Emanuela Sica

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Responsabile dello Sportello Legale Irpinia

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Responsabile dell'Area-Violenza di Genere

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Corpo Internazionale di Soccorso Costantiniano: clicca sull'immagine per collegarti al sito internet

L'ultima luna [2017 Pensa Editore]

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L'ULTIMA LUNA diventa una spettacolo teatrale a SAN MARTINO IN STRADA (LODI)

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Regia di Alessandra Sommariva - Clicca sull'immagine per leggere l'articolo

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La ragazza di Vizzini [2018 -Delta 3 Edizioni]

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Il caso Antigone [2019 - Pensa Editore]

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Dibattito su IL CASO ANTIGONE presso ISTITUTO DI CULTURA MERIDIONALE - Palazzo Arlotta NAPOLI

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IL CASO ANTIGONE: DIBATTITO

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Parlando de IL CASO ANTIGONE con il console AVV. GENNARO FAMIGLIETTI- Clicca sull'immagine per leggere l'articolo de IL DENARO

Progetto #AmoreTossico #PanchinaRossa

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Le metamorfosi dell'amore: lo STALKING.

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