Nella genesi del mito di Edipo,
accanto a Freud e immediatamente dopo di esso, solo per ragioni temporali, si innesta
un libro che, in una forma corposa ed analitica (qualcuno lo chiamerebbe
giustamente saggio ma io dico che è un unicum ossia un saggio ed un libro di
narrativa insieme), si diversifica e si rende autentico rispetto al già detto,
al già letto tale da prendere un posto di assoluto rilievo e vi rimane per
tracciare, fondare una variante acuta, intelligente, autentica dello stesso.
Parliamo di EDIPO [Per una genealogia dell’umano (Pensa Editore)] l’ultima opera
nata dalla genialità eccelsa di Luigi Anzalone, professore di storia e filosofia,
filosofo di grande intuizione stilistica e devoto alla critica dell’Humanum, personaggio politico di spicco
della sinistra italiana (quella vera) negli anni in cui l’arte di governare o
la scienza dell’amministrare era ancorata a valori, ideali di appartenenza, fortemente
devota al benessere sociale e alla parità di diritti (e doveri) ma anche
totalmente priva di qualunquismo e spurio populismo. Luigi Anzalone era e lo è tutt’oggi,
con un pensieroso disincanto, un comunista marxista nel senso più idealistico del
termine, forte di una grande e vasta cultura che abbraccia ampiamente la sua
terra d’origine, quella di elezione (e non solo quella) e va, speditamente, oltre
confine. E’ stato altresì corrispondente dell’UNITA’; consigliere del Comune di
Avellino; segretario provinciale del PDS; assessore regionale della Campania al
Bilancio, al demanio e ai rapporti con i paesi del Mediterraneo; presidente
della Provincia di Avellino; vicepresidente della Commissione Regionale
Anticamorra. Ha scritto numerosi libri e saggi sulla filosofia antica (Socrate)
e moderna (Nietzsche, Colli, Croce, Arendt) e sulla questione meridionale. Tra
i testi di maggior spessore si segnalano (per brevità di esposizione): Memoria
e utopia in Ernst Bloch; Lungo il fiume senz’acqua; La Dea Bianca e la comunità
interculturale; Eroi nel paese della mafia. Storie italiane: Impastato,
Ambrosoli, Falcone, Borsellino, Don Puglisi. Anzalone è un fine pensatore ma
anche un attivista senza indugi, figlio di quell’indissolubile ideologia che
vide, in Gramsci e Berlinguer, i maggiori esponenti. Questo UNICUM, mi si passi il termine
descrittivo di un’opera singolare ed innovativa nel suo genere, consta di una straordinaria
quanto stringente e radicata introduzione di Giuseppe Cantillo, accompagnata da
una prefazione ed una nota a margine ad opera dello stesso Anzalone. Seguono
quattro parti divise in sette capitoli ed una conclusione. La prima parte,
rubricata: EDIPO E IL REGNO DELLE MADRI
analizza Bachofen, l’interpretazione Hegelina dell’Antigone di Sofocle
unitamente a Freud e al complesso di Edipo (come fondamento della
psicoanalisi). La seconda parte, rubricata: EDIPO E LA STORIA racconta, con le spinte e i tratti stilistico
letterari propri di un romanzo avvincente, la nascita del mito, il percorso
evolutivo, l’ira degli Dei, il destino eroico-tragico dell’uomo affetto da
Hybris, la morte di Giocasta, la morte dei figli uno per mano dell’altro ed
infine quella di Edipo in esilio per terminare con lo scontro tra Creonte ed
Antigone con la condanna a morte di quest’ultima. Segue una terza parte, rubricata:
EDIPO, LA SFINGE E L’ENIGMA, su cui concentreremo
la nostra indagine, oltre a una quarta rubricata: L’ANIMALE CHE CAMMINA NEL TEMPO dove si racconta l’evento
metafisico originario, l’uomo, l’anamnesi materna della preistoria, l’animale
che muore e la nascita dello spirito. Con questo libro, con Edipo, Anzalone
compie, dal punto di vista dell’indagine filosofica e speculativa e altresì da
quello narrativo – letterario, un “triplo salto mortale carpiato con
avvitamento”. Qualcosa di davvero difficile e sorprendente (ma non troppo per
chi ha la fortuna di conoscerlo) che gli riesce con una semplicità, a tratti,
decisamente sconvolgente. Nella sua indagine, nella riflessione investigativa
sulla nascita dell’uomo, nel dileguarsi nella notte del Sé, in cui tutto può
scomparire oppure essere conservato, qualsiasi cosa diventa un dilemma, una
domanda, una incognita, in una parola un enigma. In questa notte
indecifrabilmente spaventosa ma meravigliosa, che fissa l’uomo negli occhi, scrutandone
l’inconscio, ecco venir fuori quell’alito di passato, quella radice profonda,
da cui ognuno di noi proviene. Dal “già vissuto” dell’incosciente notte si
materializza la coscienza del giorno. Da quella che Hegel chiamava “notte della
conservazione” prende vita, corpo, dimensione, quella genesi e genealogia
insieme dell’umano. Un soggetto che cammina, perennemente, sul filo di un
rasoio, sulle altezze pericolose della coscienza e dell’incoscienza insieme.
Eppure quegli occhi, che Edipo si caverà per la dolorosa scoperta dell’incesto,
servono, prima ancora che a raccontare la tragedia, a costruire una questione
ontologica: il discorso sull’essere uomo, uno e pluralità. Per ricondurre
l’essere dall’oggettivo al particolare e dal soggettivo all’universale, in uno
scambio di interdipendenze reciproche di memoria, coscienza, conoscenza, sapere
positivo, storia in un percorso verso “l’evento metafisico originario”.
Quell’evento che generò il mito di Edipo, partorito, se così si può dire, con
sangue e dolore, dalla lotta acerrima tra patriarcato e matriarcato. Di questa
visione, cruda e carnale insieme, l’autore prima si veste dei suoi poderosi studi,
da quelli sul matriarcato di Bachofen a quelli di Freud, nell’accezione
psicoanalitica di “Complesso”. Ne crea un abito elegante, rifinito con cura,
preciso nei dettagli e nei particolari tuttavia alquanto stretto, per la
complessità della sua materia cerebrale. Per tale ragione, ad un certo punto
della sua analisi clinica, quasi si trattasse di un’autopsia per conoscere le
reali cause di una morte, se lo strappa di dosso, lo lascia cadere sul
pavimento, dimostrando, in questo modo, l’autenticità e la modernità del suo
argomentare. Anzalone comprende che, per parlare di Edipo necessarium est nascere o dovremmo dire: rinascere. Uscire dal
magma del ventre materno, respirare il primo afflato d’ossigeno, piangere
disperatamente per il distacco, essere o voler essere un bambino che ha appena
visto la luce del giorno, le cui iridi sono ancora vergini rispetto alla
infelice tragedia del mondo che lo circonda. Solo rivestito di pelle, ancora
calda e umida per il parto, con le autenticità della materia ancora non
plasmata, ma pronta a formarsi nel percorso evolutivo, si diventa uomini, con
tutto quello che ne consegue. Ed ancora da quel bambino, poi abbandonato per un
presagio di sventura, ma ricondotto dagli eventi o dal fato fino al principio
della sua genesi, che parte l’incipit di ogni cosa. E’ un Edipo uguale e
diverso da tutti gli altri, tesi e antitesi di domande indefinite, rivestito
della sua pelle originale e “solo sua”, quella pelle che gli dà modo di creare,
dal mito, conosciuto e riconoscibile, un essere concretamente attuale, tratteggiato
con delicata autonomia. Un racconto indagatore, di critica e assoluzione, senza
tuttavia condanna, in una soggettiva e per questo direi quasi riformata versione.
Con estrema sapienza, con inziale cautela eppur senza paura, si tuffa nell’oceano
prima calmo, poi burrascoso, delle teorie, conosciute e conoscibili, con
quell’acrobazia così complicata e difficile di cui ho detto prima. Una volta
completamente sommerso, quando tocca la profondità della conoscenza, riesce a riemergere
portando con se un’essenziale e particolare (unica) materia plastica che gli
servirà a costruire e celebrare quella saga mitologica caratterizzata principalmente,
ma non esclusivamente, dal germe della violenza. In questa genesi paradigmatica,
che altro non è se non una rinascita del mito, viene ricomposto, ristrutturato,
rimodernato, sino a giungere a compimento, il mito nella sua grandezza e nella
sua tormentata esistenza. A differenza di Freud che, nell’Interpretazione dei
sogni, espone la teoria del “complesso” edipico, muovendo dall’Edipo Re di
Sofocle, certificandone l’antica genealogia e vitalità carnale del complesso, quindi
analizzando il rapporto con la madre e amante con Giocasta, Anzalone cerca di
estrapolarlo dalla carnalità incestuosa tentando (riuscendoci, come diremo
avanti) una complessa operazione di spostamento dell’attenzione o dell’indagine
dal factum principis ad un fatto
collaterale ma per ragioni di analisi filosofica decisamente fondamentale per
disvelare tutto il resto. È sulla sfida, quella di Edipo con la Sfinge, che si
incentra un’insolita ma più attrattiva definizione del mito. Come una statua che
si sgretola dalle fondamenta, che supera la staticità in cui era stata
relegata, nella lettura di questo testo riusciamo quasi a vedere la caduta del
materiale che teneva bloccato il mito, immobile, fermo, nella posizione di
attesa perenne. Statua che era ancorata, con funi solide, a un’idea o più di
una, convergenti e fisse nella profondità di un terreno, in alcuni punti, fatto
di sabbie mobili, tendenti a farlo soccombere nei sotterranei della perdizione.
Legato così fermamente e stabilmente da non consentirgli alcuna fuga o passo in
avanti. Eppure quella statua, originariamente, era un valoroso guerriero su
cui, un Dio Malvagio, aveva colato, senza possibilità di salvezza, argilla
mista a marmo, per tenerlo inevitabilmente pietrificato. Nel libro di Anzalone
il focus principale è sull’enigma vista non solo come un tratto morfologico
della grecità ma come drammatico contrasto tra due leggi, o potenze etiche,
pregna di un carattere totalizzante ed assoluto. Ma cosa vuol dire enigma?
L’autore parte dalla parola latina “aenigma” derivante dalle parole greche ainigma e ainigmos che rinviano, di poi, ai verbi ainissomai e ainittomai,
che significano “parlare coperto”, “accennare oscuramente”. Aristotele
definisce l’enigma come una “formulazione antifatica” collegandolo
inscindibilmente alla metafora e alle sue ambigue contraddizioni. Quindi mentre
l’enigma consiste nel dire quello che si ha da dire mettendo insieme cose
impossibili, nella metafora vi è il trasferimento ad un oggetto il nome che è
proprio di un altro e questo trasferimento avviene o dal genere alla specie o
dalla specie alla specie o per analogia. Alla categoria dell’enigma, citando
Colli, vi è origine ed essenza del potere divinatorio religioso e filosofico
greco fino ad arrivare alla sua stessa civiltà. Sul terreno della mania
l’esperienza umana e culturale dei Greci fa incontrare Apollo e Dionisio.
Dionisio manifesta nella violenza il gioco, Apollo, viceversa, nel gioco la
violenza. La pluralità e la totalità della vita nasce dal loro reciproco
rinviarsi. Nel dionisiaco c’è la raffigurazione dei limiti entro cui si muove
l’esperienza umana: l’animale e il Dio. Nell’apollineo si riflette il carattere
conoscitivo ed ermeneutico di tale esperienza. Per questa ragione “a Delfi si manifesta la vocazione dei Greci
per la conoscenza. Difatti il sapiente non è il ricco di esperienza, chi
eccelle in abilità tecnica, in destrezza, in espedienti, come lo è invece per
l’età omerica). Odisseo non è sapiente. Sapiente è invece chi getta luce
nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi precisa
l’incerto” (estratto da Colli: La nascita della Filosofia; come e più
estensivamente citato nel libro di Anzalone). Considerando, senza svelarlo,
quello che avviene nella sfida tra Edipo e la Sfinge e nel prosieguo della
vicenda, prima “trionfale e felice” poi “drammatica e persino tragica” Anzalone
avanza l’ipotesi, oppure il sospetto, che “il senso dell’enigma di Edipo come
enigma dell’uomo, della condizione umana nel mondo, possa non essere tale da
sciogliersi”. Ma cos’è la Sfinge? Cosa in realtà rappresenta? Innanzitutto è
opportuno distinguere fra due tipologie sfingi: quella egizia e quella greca,
che rimandano a significati simbolici assai diversi. Quella dei monumenti egizi
(che Erodoto chiama androsfinge, per distinguerla da quella greca) è un leone
accovacciato, con testa d’uomo; rappresentava, si congettura, l’autorità del
re, e custodiva i sepolcri e i templi. Per converso, la sfinge greca ha testa e
petto di donna, ali d’uccello, corpo e piedi di leone. Altri le attribuiscono
corpo di cane e coda di serpente. Dicono che desolasse la regione di Tebe,
proponendo enigmi agli uomini (poiché aveva voce umana) e divorando quelli che
non sapevano risolverli. Anche la posizione varia nelle due culture: la sfinge
egizia è distesa sulla pancia, spesso con le zampe anteriori in posizione di
offerta, mentre quella greca sta seduta sulle zampe posteriori, col busto
eretto e le mammelle sporgenti. Gli Egizi la chiamavano Shespankh (statua
vivente) carica di uno slancio vitale quasi che il suo granito vibrasse a
livello molecolare; "guardiana delle
soglie proibite e delle mummie reali. Ascolta il canto dei pianeti, veglia sul
limitare dell’eternità, su tutto ciò che è stato e che sarà. Vede scorrere in lontananza
i Nili celesti e navigare le barche del sole" (estratto da "Il
libro dei morti"). Quindi la sfinge è simbolo strettamente connesso alla
morte, al passaggio ad un mondo al di là. La sfinge greca, invece, non è più il
guardiano delle porte dell’infinito, bensì diventa una specie di mostro
terribile, più crudele che enigmatico, nel quale si può facilmente vedere il
simbolo della femminilità perversa e pericolosa. Nella tradizione mitologica
della Grecia antica la sfinge è figlia di Echidna, essere ibrido mezzo
fanciulla e mezzo serpente, madre di esseri mostruosi quali la Chimera, Scilla,
la Gorgone, Cerbero, il Cane Ortro. Frutto dell’accoppiamento incestuoso tra
Echidna ed Ortro, la sfinge verrà conosciuta, grazie a Freud, quale simbolo
dell’inconscia pulsione incestuosa presente nell’uomo. Portatrice dell’enigma
che causa la morte di chi non lo risolve, simbolo della dissolutezza e del
dominio perverso: essa fu mandata da Era contro la città di Tebe per punire il
re Laio ritenuto colpevole d’omosessualità. Sconfitta solo dall’intelletto,
dalla sagacia, in contrapposizione con l’istupidimento ottuso nella sua
posizione statica aderisce indissolubilmente alla roccia sulla quale poggia. E’
dotata di ali ma non vola e non le servono neanche per salvarsi dall’abisso nel
quale si getta per suicidarsi. La Sphynge greca, nei tratti femminilizzata,
diviene simbolo della vanità tirannica e distruttiva. Jung ne ha sottolineato
gli aspetti legati all’archetipo della madre nella sua valenza negativa,
aspetti con cui ciascun soggetto umano, per divenire tale, deve potersi
confrontare. Aspetti che non dovrebbero essere sottovalutati né sminuiti
essendo, per ognuno di noi, la "grande prova" per divenire adulti. Fatta questa premessa, se la vicenda
di Edipo può essere presa a modello di quella umana questo vuol dire che l’uomo
quando si conosce e si comprende come uomo, sia nel “farsi”, nel “diventare ciò
che è” resta un “enigma” ignoto a se stesso, un “miscuglio dialettico di
possibilità ed impossibilità” oppure “una possibilità impossibile o una
impossibilità possibile”. Ebbene, i Tebani ed Edipo sono uomini nel senso pieno
del termine? Se gli uni perdono la sfida e sono divorati dalla Sfinge mentre
l’altro lo risolve, costringendo la Sfinge al volo mortale, allora è chiaro che
i primi (i Tebani) siano quasi l’emblema dell’immagine capovolta della Sfinge.
Insomma sono più animali che uomini (la Sfinge era per metà animale e per metà
umana). Soltanto Edipo sa rispondere e svelare l’enigma e la cosa gli riesce
nel modo peggiore ed ambiguamente beffardo. Le sue possibilità esistenziali si
convertono nel loro opposto, tanto è che le nozze con Giocasta sveleranno la
loro atroce fisionomia solo quando non si potrà più porre rimedio al male
tremendo che hanno cagionato. Si potrebbe senz’altro dire, quindi, che la
risoluzione dell’enigma, la vittoria di Edipo sulla Sfinge risulta, infine solo
apparente perché se è vero che chi risolve non vive e viene divorato e chi risolve
vive e viene proclamato Sapiente, Re di Tebe, ecco che la stessa vittoria lo
conduce all’estrema vergogna, all’accecamento, alla perdita del trono. Per tale
ragione, dal momento in cui Edipo risolve l’enigma, ecco il germe della
disperazione e della morte che si innesta nella sua vita. Apparentemente
vittorioso porta in se la genesi di un nuovo dolore, questo comprensibile e
vissuto sin nella carne, con la razionalità di un uomo che non è più un bambino
abbandonato ma un Re. Il trionfo di Edipo, quindi, prelude alla sua rovina e la
nascita dell’uomo, in quanto uomo e la sua morte in quanto animale non accade
mai definitivamente. Anzi l’autore dice che accade soltanto in parte e altresì
riconducendo la soluzione dell’enigma alla morte dell’animale per metà donna,
si allude non solo alla fuoriuscita della specie umana dall’ordine di Madre
Natura ma anche e soprattutto all’eventus
dell’uomo che “si fa uomo” mediante il camminare eretto, il linguaggio, il
pensiero simbolico e trova la sua primordiale interazione nei primi anni di
ogni essere umano dopo che fuoriesce dal grembo della madre. Dalla nascita ci
si lega, per converso, in maniera stringente, alla morte, come una necessità
assoluta per la definizione autentica della prima e, lo diceva semplicisticamente
anche una canzone, “si muore un po’ per
poter vivere”. Eppure “la morte -
diceva Heidegger - è lo scrigno del
nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di
semplicemente assente e che, tuttavia è, addirittura si dispiega con il segreto
dell’essere stesso. La morte alberga in sé ciò che è essenziale dell’essere.”
L’Edipo di Anzalone esprime, nella sua drammatica sconvolgente esistenzialità,
l’ambiguità, la doppiezza, l’enigmaticità. Edipo è il chiaroveggente, il
decifratore di enigmi, ma è lui stesso l’enigma che, nel suo accecamento, è
incapace di decifrare. Non è quindi uno bensì un doppio come la stessa parola
dell’oracolo. E’ un re salvatore ed un mostro di impurità che concentra su di
se tutto il male, tutto il sacrilegio del mondo e che bisogna cacciare come un pharmakòs, un capro espiatorio perché la
città, ritornata pura, sia salva. Eppure il mito che racconta Anzalone non è
quello di un eroe. L’eroe, dice Schelling, è tale in quanto sfida il destino
pur consapevole, nella sua finitudine e mortalità, di essere destinato a
soccombere. Ma proprio quando egli sfida il destino, acquista la grandezza del
destino e diventa eroe. Ossia quell’uomo tragico che affronta con tenacia e
coraggio (eroismo appunto) la morte. La guarda dritta negli occhi, non ha
timore di affrontarla, quasi l’accoglie nella sua vita, pronta ad
inginocchiarsi fatalmente al destino. Edipo, per contro, è un uomo che si
ribella al destino non per diventare eroe ma per non abdicare al suo essere
uomo ossia padrone autentico di se stesso e delle sue azioni e quindi anche
della sua sorte per non essere un oggetto in balia del destino o vittima di
questo. Un destino che lo avvolge e lo travolge, che lo edifica nella gloria e
lo distrugge con le sue stesse mani. Tuttavia, in questo tentativo di essere un
anti-eroe che diventa un eroe e dopo aver tanto combattuto, lottato, deve
rassegnarsi a quel Dio che gli cola sul corpo una sorte già scritta, sin dal
primo vagito. Edipo è quindi l’eroe, l’emblema, dell’infelice condizione umana. Edipo scioglierà l’enigma della Sfinge ma mai
scioglierà l’enigma di se stesso. L’enigma delle tre età, l’evidente allusione
alla filogenesi dell’uomo, che la Sfinge propone ad Edipo, si riferisce non
solo alla portamento fisico, al modo di camminare dell’umanità ma alla sua
sostanza psicologica, alla mentalità, al carattere esistenziale ed esistentivo
dell’essere umano. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che è “nell’evento metafisico originario” che si raccoglie e si condensa
la vita dell’uomo, molteplice, ricca, complicata, diversificata e
diversificabile rispetto a tutte le altre vite umane e soprattutto animali. Si
tratta del passaggio dall’ominide all’uomo, l’anello mancante dell’evoluzione
o, se vogliamo, il momento in cui l’evoluzione raggiunge un livello così alto
da essere inadeguata. Ed ecco che l’uomo si costruisce, materializzandosi
scientemente, nel suo interpretarsi: l’uomo è un animale “ermeneutico”. Il
momento culminante di questo evento metafisico Edipo lo vive nell’affrontare la
Sfinge quando si stabilisce, nella risoluzione dell’enigma, che l’uomo si muove
nello spazio, innanzitutto perché lo percepisce nel tempo, nel prima e nel poi
e anche nella simultaneità dei momenti. L’uomo muore come animale perché è
coscienza, più precisamente diviene coscienza. Coscienza che fruttifica nel
pensare ed essere pensiero. L’uomo quindi si scopre uomo, coscienza, tempo, proprio
nel fatale cammino sulla strada della morte, impegnato in una sfida costante (e
impari) con questa. Nella risoluzione dell’enigma, nel movimento dell’uomo nel
tempo, nei tre stadi della vita, infanzia, maturità, vecchiaia, la Sfinge
lacera le sue carni nell’abisso e nella morte dell’animale subentrare la
nascita (ma anche la rinascita) l’uomo, il suo essere diverso. Uomo che tuttavia,
nel cogito ergo sum dell’esperienza intuitiva Cartesiana, demolisce il sogno
(per dirla alla Husserl “il sogno è
finito”) perché sa che il tempo non è pieno ma parziale, che gli rimane da
viverne un pezzetto, perché comprende di essere mortale. Concludo, per non
disvelare tutta la bellezza concettuale di un testo che va letto, evidenziato
nei passaggi più impegnativi per essere poi riletto, riassorbito-rielaborato-rivissuto
con consapevolezza critica, richiamando una frase di Eraclito che meglio
evidenzia, ad inizio opera, su cosa focalizzerà l’attenzione il suo autore nel
racconto e nella peculiare rivisitazione del mito: “Tentai di decifrare me stesso. La trama nascosta è più forte di quella
manifesta. I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure
se percorrerai tutte le strade, così profondo è il logos che le appartiene”.
Emanuela Sica