NESSUNA FORMA

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Ritratta da Emanuela Sica

Visualizzazione di bcf35d32-ca3e-4a72-8405-84273804c414.jpgIl respiro veicola la vita, o quello che ne rimane, dentro e fuori di me. Poco a poco e pianissimo, come un lento quanto inesorabile stillicidio. Esce, rientra, eppure mi nutre ancora, mi dà modo di assimilare aria, ossigeno, per scartare gli ultimi pensieri, ancora chiusi nella testa, riversarli nella scrittura. Lasciarli concreti, in eredità. 

E mentre scrivo guardo le mie mani. Sono diventate così sottili, scarne, eppure sono ancora forti, vigorose. Non si lasciano soggiogare dal dolore che, oggi più che ieri, bussa al mio portone. Portone quasi completamente sventrato, oramai pronto ad aprirsi, a capitolare davanti ad un’uscita inesorabile. 
Vi sembrerà assurdo ma questo dolore è tutt'uno con il movimento della penna sul foglio. Una cosa sola con le parole che germogliano dalla scrittura. Mi sono sempre chiesta come sia possibile staccare dalla mente anche i più intimi ragionamenti e comunicarli semplicemente. Ma le parole escono dalla mia testa così perfette, assolutamente adatte a quello che voglio esprimere, che a volte ho paura di me stessa, della mia onestà intellettuale. 
Onestà che, come una crisalide, si trasforma e si evolve cibandosi solo e soltanto di se stessa. Purezza e verità senza condizioni o falsi orpelli. Quello che sono è quello che sono sempre stata, pur ingoiando sofferenze atroci per una devastazione interiore che non dipende da me anche se dalla mia carne si sviluppa. Di questa si nutre per diventare la mia stessa condanna. 
Condanna lieve... rispetto allo sconforto che si prova davanti alla consapevolezza che non sarò più in grado di combattere le battaglie che verranno. Che nel campo ci sarà un soldato in meno. È lieve anche rispetto alle cose non dette e che non dirò. Alle narrazioni che ho ancora dentro e che rimarranno aggrappate alle mie ossa. Al libro che avrei voluto terminare. È lieve rispetto al “resta” detto da chi mi ama. Da chi mi tiene per mano sognando di trattenermi ancora mentre io sento, come una verità assoluta, che il “futuro non mi appartiene”.  Sin da ragazza, quando avevo “i capelli biondi ed una testa leonina, che si facevan guardare quando camminavo”, sentivo che “i domani (…) scavano dentro me vortici di vuoto come un abisso nel quale mi affaccio e che mi risucchia nella sua vertigine”. 
Eppure, proprio ora che sono scalza sul ciglio della fine, ho capito quello che devo fare per rendere semplice ogni cosa. Per non perdere la mia vera essenza. Devo voltarmi indietro, guardare il passato, la fanciulla che ero. Guardarmi ora, andando oltre il volto, riconoscere l’indole della strega. Una strega benevola, inusuale, con un’unica esigenza: scrutare l’animo umano, interrogarsi e fare i conti con chi siamo. Nella fatica del privato, nel senso della nostra ragione, nell'essere responsabili e caparbi interpreti di noi stessi. Strega che sarebbe devota all'istinto di bruciare se stessa piuttosto che usare la violenza. Con “Nessuno Tocchi Caino” ho segnato la mia più grande rivincita: la rinascita dell’essere umano dopo l’errore, anche grave, di chi ha commesso le più atroci infamie, la sua redenzione. 
“Noi non difendiamo l’innocente ma il più colpevole, perché pensiamo che una condanna (…) debba rappresentare un’occasione di riscatto e di rinascita”. Ecco, al perdono mi genufletto come se fossi in un tempio Tibetano. Mi tocco il cuore e prima del cuore il petto. Sento la pelle che pulsa spinta dal battito. Battito sempre più lieve, quasi volesse digiunare a tratti dal dolore che ogni giorno gli do da mangiare. Al centro di ogni mio pensiero, di ogni mia azione, giusta o sbagliata che sia, senza riserve alcune, è sempre lui, l’individuo a tenere banco. Individuo richiamato alla responsabilità, che si converta alla nonviolenza ed ai suoi atti, come il digiuno, quali armi pacifiche di istruzione di massa, non distruzione. Armi di lotta che nascono dai sentimenti, da quelli più delicati e lievi che comprendiamo possedere solo attraverso l’atto più intimo che abbiamo con noi stessi, la conoscenza del dolore: “il momento nel quale ad ogni persona vanno riconosciute alcune dignità: prima fra tutte quella di essere protagonista della propria vita e della propria morte”. Eppure, se nella malattia siamo schiavi nel “digiuno positivo” liberiamo la parte migliore di noi stessi. Ci liberiamo dalla schiavitù dell’orgoglio, riusciamo a perdonare gli altri ma prima ancora noi stessi. Iniziamo a sentire veramente, con ogni singola cellula del nostro corpo mortale, chi siamo e cosa vuol dire “amare”. 
Nell'amore l’uomo si spoglia del suo corpo e, concentrato dentro di se, diventa “un vuoto dove passa ogni cosa”. Una forma anomala, priva di spigoli, rette, curve, linee e tratteggi. Privo finanche della sua consistenza tangibile, una forma senza forma eppure colma di uno spazio indefinito che si lascia invadere e lo trasporta in ogni direzione possibile. Una forma senza la forma della paura. Uno stato intimo, una sensazione, una condizione immanente, crudele, viscerale, a volte solo percepita altre volte completamente devastante. Così anche adesso, mentre scrivo, l’epilogo della mia esistenza, dopo aver salutato i miei affetti ed ogni cosa che mi legava al vissuto che non vivrò mai più, mi sento più che mai viva nella morte…perché da domani in poi sarò altro, sarò quella che sarei voluta essere sempre, finalmente libera di “non avere nessuna forma”. 

Dedicata a Maria Teresa Di Lascia 

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