Ho scalato una montagna...


Lo sguardo di mia madre, fermo sull'uscio della stanza, lento divora l'agonia della mia assenza. 
Silenzio che si confonde in un lamento che risale tra stelle cariche di polvere e sofferenza. 
Stanotte, il ricordo di quel giorno, cade pesante sulle preghiere della sera. Aliti che si spingono a fatica lungo la strada lastricata di ceri. 
La paura, si, ancora l'avverto nelle ossa, nella pelle senza briglie ancora divaga nella mia mente. 
Torpore che strappa le forze, calice amaro, assenzio misto a sangue. Ricordo. 
Ho scalato una montagna con passi veloci e sicuri rimuginando nella testa una melodia. La cantavo a scuola da bambino. Dopo l'allarme ero già in guerra io ed i miei compagni pompieri, tute lucide di devozione. Aliti che rassicurano e s'interrogano, coraggio che non si spegne, lealtà che non s’incrina in un varco buio, torce che accendono fughe multiformi. 
Ed io, continuavo a guardare in faccia la morte e deriderla mentre qualcuno sussurrava: "Se chiudi gli occhi anche per un solo istante sei perduto per sempre". Si, quello era il mio mondo, brulicante di rabbia e dolore, quella era la mia storia che si sgretolava, come calce polverosa, sulla mia testa. La fine di un sogno che si inabissa e sparisce: America, chi ha fatto scempio dei tuoi figli? Così, quando ho colpito con la scure una porta chiusa, ho liberato terrore e spavento, odore di morte e fumi accecanti. No, non ho pensato a mia madre, alle sue supplicanti preghiere, ai suoi sussulti nervosi, al suo grembo sicuro. No, non ho pensato a mio padre, ai suoi occhi cerulei così uguali al cielo di Manhattan. Ho solo visto migliaia di persone accecate dal fumo, schiave di occhi in supplizio. Focolai di pelle bruciata, maschere sfigurate dal dolore. Memoria che si ferma,  all'orizzonte un tetro bagliore, poi un secondo uragano di pazzia, devastante. 
Vili belve lebbrose, quanta follia stanate? Di quanto sangue e urla, tristezza e angoscia, sofferenze atroci avidamente vi cibate? 
Ovunque si perdono sospiri, pianti, lamenti. 
Migliaia di anime sconosciute, condannate a morire insieme si stringono per mano, trasmettendosi una febbre pallida di sconforto. E la mia mente si è gettata su per le scale ripercorrendo a grandi balzi una via oscura, avvertendo ad ogni passo il respiro di qualcuno che volava nel vuoto. 
Poi un ragazzo, accovacciato sotto una scrivania, mi ha chiamato per nome: "Fratello, ti prego aiutami!”e l'ho abbracciato. Tremava e l'ho aiutato ad alzarsi. Dal suo corpo ho ricevuto una strana sensazione: stava morendo, perdeva vita, sangue e speranza, come le sue lacrime nere. Ombre infiammate di tormento che carezzano un viso tumefatto. "Fa così caldo"  ed il suo corpo è diventato un brandello, cera che si liquefa, azzannata da mille fauci bollenti. Il suo sguardo incredulo non mi ha più lasciato. "Figlio mio ti prego strappati di dosso quella divisa e corri fuori". 
No mamma, non temere, non ho avuto paura quando la morte mi ha divorato accanto a lui. 

La mattina dell'11 settembre 2001, 19 affiliati all'organizzazione terroristica di matrice islamica Al-Qāeda, dirottarono quattro voli civili commerciali. I dirottatori fecero intenzionalmente schiantare due degli aerei sulle torri 1 e 2 del Worl Trade Center di New York, causando poco dopo il collasso di entrambi i grattacieli. Nell'attacco alle torri gemelle morirono 2.752 persone, tra queste c’erano 60 poliziotti e 343 vigili del fuoco. 

LASCIATEMI GIOCARE

Di giorno, ed alcune volte anche di sera, quando la luce dei lampioni mi aiutava con la vista, se mi alzavo, giusto un po’, sulle punte, la potevo vedere in tutta la sua bellezza. Se ero per mano a mia madre fingevo di passare senza distrarmi, ma la coda dell’occhio riusciva a vederla sempre. Così iniziavo a saltellare per darmi quei piccoli aiuti che mi servivano per vederla. Se, invece, ero con i miei amichetti, quando si giocava a nascondino, il mio posto preferito era dietro la grande pietra che faceva angolo con la strada dell’asilo. Da li quasi dimenticavo il gioco e potevo rimanere ore ed ore ad osservarla. A vederla fluttuare. Per qualche mio compagno, pessimista, non era poi un granché ma per me, ottimista, l’altalena era bellissima. Due funi rosse intrecciate, una tavoletta di legno bianco, legata al ramo più grande di un albero di cedro, sempre carico di foglie. Foglie corte, che mi sembravano leggermente pungenti, di un colore verde brillante con qualche punta di blu. E bastava una lieve carezza di vento per sentirne il profumo sin dove mi trovavo. Di giorno, negli orari di scuola, a turno e rispettando l’ordine della fila, ci andavano i bambini dell’asilo. Avevano tutti un grembiulino bianco. Erano poco più grandi di me. Avevano un sorriso così bello e che mi faceva sorridere, per simpatica risposta, solo a guardarli. Loro erano felici e non mi vedevano. Non vedevano me che li spiavo, di nascosto, attratto da quel gioco come fosse un dolce sul davanzale. E felice lo sarei stato anche io se fossi potuto salire su quell’altalena. Ma non mi abbatto. Fra qualche minuto comincerà anche per me l’asilo e sarò anche io uno dei bambini che farà la fila per andarci. Datemi giusto il tempo di annegare. Così, quando sarà il mio turno, mi siederò con calma, tenendomi bene alle funi. Darò prima delle spinte delicate, per capire se mi tiene e poi, una volta che avrò preso confidenza, farò dei voli così alti che la maestra mi urlerà di scendere. Magari i miei compagni mi diranno che sono pazzo. Ma io non li ascolterò. Spingerò sempre di più con la schiena sino a toccare il cielo con la punta del naso. Riuscirò a sentire il profumo dell’aria. La farò entrare nei polmoni. Aprirò anche la bocca e mangerò tutto l’ossigeno possibile. Ossigeno che mi manca adesso, adesso che sto affondando. Anche io metterò un grembiule bianco. Toglierò questi abiti inzuppati d’acqua. Questo pantalone blu, la maglietta rossa, oramai scoloriti dal sale. Metterò dei sandali al posto di queste scarpe piene di acqua di mare e ragnatele d’alghe. Avrò i capelli asciutti. Pettinati con cura. La faccia pulita e non sporca di sabbia e schegge di conchiglie. Gli occhi aperti e non chiusi dalla morte. Il mio atroce destino mi ha iscritto all’asilo dei bimbi morti. Ma non voglio pensarci. Sono ottimista. Vedo il lato positivo delle cose anche quando non dovrei. Avrò lo stesso nuovi amici e salirò sull’altalena. Ci salirò da morto e risorgerò nella spinta verso il cielo. Sarà un gioco senza fine. Che bella, questa altalena è ancora più grande di quella che c’era in Siria. Prima che la barca affondasse mia madre mi raccontava che nessuno voleva darci asilo. Io non capivo. Le chiedevo perché non potevo andare all’asilo? Ma non era di una scuola con l’altalena che mia madre parlava. Poi ho capito. Ho capito quando ho sentito urlare il mio nome mentre le onde del mare mi inghiottivano. Per questo vi chiedo, ora che sono morto, lasciatemi giocare su questa altalena, perché il paradiso è un asilo che mi spetta di diritto. 

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