UN PRESEPE DIVERSO



Era strano ma c’era. L’aria cercava di farne incetta, di accaparrarsene quanto più possibile. Aveva bisogno di stasi, di un barlume di quiete e, da quell'inaspettato regalo, molti iniziarono a respirare senza affanno. Come era giusto, come doveva essere. Fu così che il silenzio, in una giornata come tante, eppure diversa, entrò da padrone tra le strade, tra le case, tra la gente. Entrò appresso ad un signore che, in quella giornata di sole cocente, con addosso una tunica di lana grezza, scura e pesante, iniziò a camminare, con passo elegante e spedito, per le vie semi deserte della città. E mentre camminava ogni cosa mutava. Quell'assenza di rumore ricopriva ogni cosa. Doveva essere sicuramente uno straniero. Chi altri avrebbe mai avuto il coraggio di uscire di casa a quell'ora del giorno? Quella tunica ricopriva buona parte del suo corpo, compreso il volto, ma si potevano scorgere, di tanto in tanto, piccoli tratti somatici di un viso incredibilmente severo con una smorfia simile ad un sorriso. Inutile dire che non c’era nulla da ridere, eppure la contrazione dei muscoli del volto era chiara (se si poteva parlare di muscoli). Quando sembrò che ogni elemento esterno fosse stato soggiogato dal suo pallore, i suoi tratti somatici erano incredibilmente bianchi, apparentemente ovattati, ecco arrivare, fulmineo, il fendente della paura. Una folata di vento scoprì quello che prima era celato ai più. E fu come colpo ben assestato nei fianchi. Preciso. Che fa male, che provoca dolore, che lo provoca con una ripetizione incredibile e costante. Nel silenzio, in quel silenzio, non aveva asilo la serenità. Non era una calma, quella che si materializzava tutto intorno, era di più. Era il preludio a qualcosa di grande, di sconvolgente mentre la paura teneva banco e colava. Colava come olio grasso ed untuoso, come resina che incolla, ricopre e corrompe le cose, le persone, le sensazioni, gli stati d’animo. Quello straniero andava diritto e spedito verso l’ospedale. Salendo il piano che mancava. Aprendo l’unica porta che lo divideva dai bambini. E tra i tanti innocenti distesi nei loro lettini di fortuna, posò lo sguardo sulla più malata. Quanti anni poteva avere? Poco meno di sei anni. Un tempo decisamente inutile per dire di aver vissuto quanto utile per capire quello che stava vivendo. E quello che stava vivendo ora. C’erano i suoi occhi, grandi, neri e fissi sulla finestra che aveva di fronte. Lo sguardo era attento, acuto. Capiva, annuiva, chiedeva conforto alla madre che le stava di fianco, che le teneva la mano incerottata. In quello sguardo c’erano i suoi anni. Quelle corse che erano state bruscamente interrotte. La bambola che aveva lasciato durante la fuga. Fuori da quella finestra c’era l’inferno eppure era la sua vita. C’era la sua casa, un buco dove districarsi per trovare un angolo di pace per non sentire le urla, per non sentire gli spari, le bombe, il caos. C’erano i suoi fratelli, suo padre, i suoi nonni. Affetti che modificavano quella città, che la trasformavano in un piccolo presepe. Eppure quando anche lei vide quell'uomo, quando nei suoi occhi si materializzò la forma del suo futuro, un sibilo sottile ruppe il silenzio. Meno intenso di un fischio, come quando il padre richiamava le capre al pascolo, forse un po’ più lungo nella durata. Fu questione di un attimo e quell'uomo aprì le braccia senza dire una parola. Dalle pieghe della tunica fuoriuscirono milioni di ragnatele e di ragni neri e non ci fu tempo di chiedere aiuto. Lei e i suoi compagni scomparirono per sempre sotto la bomba che “per errore” centrò l’Ospedale di Aleppo, mentre il mondo cambiava canale per festeggiare il Natale. Eppure, il presepe di Aleppo è un presepe diverso. Ma è diverso non perché non ci sono pastori, non ci sono mestieri, non ci sono i Re Magi, non ci sono culle di paglia, stelle comete e serenità nei cuori. E’ diverso perché se a Betlemme si celebra la vita ad Aleppo la morte celebra la sua potenza prendendosi, quotidianamente, la vita di tanti innocenti. 

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