Se riuscissimo a rapirla...


Lo sguardo fisso. E’ la più bella. La vedi. Spicca tra tutte e sembra chiamare il tuo nome, senza che nessuno lo senta all’infuori di te. Il sogno dei sogni: una bicicletta. E tu sei così, immobile, con le mani giunte. Mani che stringono una cantilenante preghiera e sembra che dicano: “ti prego, ti prego, compramela.” Intanto la voce di tuo padre si fonde in uno sguardo di apparente approvazione. Finge di dire “si” ma in mezzo secondo capovolge la speranza che resta appesa ad un ricatto: “forse, se andrai bene a scuola”. Poi, il resto della storia si riavvolge nel vecchio nastro dei ricordi, rientrando nel passato mentre tu rimani fuori, più avanti, nel presente. A chi non è capitato, almeno una volta, che i ricordi si accendano da soli, a intermittenza, in un determinato momento della giornata? Lo fanno senza sforzo, senza impegno, quasi sciattamente. Da bambini le nostre maggiori preoccupazioni erano assimilabili alle costruzioni lego. Ogni pezzettino si incastrava senza difficoltà, ovunque. Se sul tetto mettevi la staccionata o se facevi una casa senza finestre non cambiava nulla. Il gioco era sempre quello ed era divertente. I sorrisi uscivano senza sforzi. Di pancia. Senza meditazione, quasi virali, contagiando te e chi ti stava di fianco. E come uscivano i sorrisi così uscivano le lacrime. Prima piccole poi a goccioloni. Pezzettoni liquidi di incomprensibili “picci” o “lavii” (come li chiamavano i nostri nonni) che avevano un’uscita ma anche un’entrata a risucchio. Se ne tornavano dentro con estrema facilità davanti ad una carezza, un gioco, un generoso pezzetto di torta al cioccolato. Eravamo così. Una porta girevole delle emozioni. Emozioni semplici. Senza pesi, senza limiti. Dove la felicità (anche assoluta) era una bicicletta nuova o andare in gita con gli amici e la tristezza (o la massima disperazione) era aver bucato il pallone nuovo o aver perduto la Barbie più bella. Da adulti ridiamo e piangiamo ugualmente, ma lo facciamo in maniera anomala, carichi (alcuni stracarichi) di responsabilità e convenzioni. E questi pesi ci costringono a vivere le emozioni con una maschera sul volto. Se ridiamo, anche se slanciati dalla felicità più pregnante, lo facciamo col freno tirato sulle gengive. Legati al preconcetto, a quello che ci è stato detto: “non farti vedere felice, che ridi, sarai giudicato un folle della vita e avrai su di te l’invidia della gente”. Quando piangiamo, anche se sottomessi al dolore più ineluttabile, lo facciamo mettendo un tappo ai dotti lacrimali, sempre per la solita storia del: “mai mostrarsi deboli perché la gente gode del tuo dolore”. Eppure se riuscissimo, scientemente e volontariamente, a catapultarci in uno di quei rewind (che spesso compaiono nella nostra mente senza essere richiesti) forse tutto cambierebbe. Se riuscissimo a riprenderci la materia di cui eravamo fatti; se riuscissimo a riprenderci quella pelle, quei muscoli, quelle ossa e quell’anima che abbiamo perduto chissà in quale momento della nostra vita; se riuscissimo a premere riavvolgi e beccare il minuto che ci serve, a rivestirci dell’animo giusto, quello di un bambino, allora tutto sembrerà modificarsi in pochi istanti. Ma cosa ci sarà mai nell’animo di un bambino da ricercarlo come il toccasana per ogni male? Se ci facciamo troppe domande finiremo per girare intorno al problema senza soluzione. Ma se ci facciamo guidare dall’istinto comprendiamo che quello che ci serve è la spontaneità. Quell’energia vitale che abbiamo perduto quando, da adulti, abbiamo fatto a botte con le responsabilità. Responsabilità che ci hanno cambiati, modificati, presi per mano e condotti, magari, nella direzione opposta a quella che volevamo. Allora, dico io, dovremmo provare a riprendercela (questa spontaneità) e rimetterla dove si trovava un tempo: nel nostro cuore. Se riuscissimo a rapirla dalla nostra infanzia...allora tutto prenderebbe una piega diversa. Perché dovremmo essere “spontanei come i bambini che, quando vogliono una carezza, ti prendono la mano e se la mettono sul viso”. 

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