LA SCORTA



Guardando il buio del soffitto che ci divide dalla pesantezza di cieli umidi, in quelle notti insonni che nessuno di noi ha mai contato, spesso ci poniamo delle domande. Domande che magari, ad occhi aperti e con la luce del sole, non siamo neanche in grado di formulare. Tanto il giorno è abbagliante ed i colori ci strappano, solo per una mera casualità, quella melanconia che appartiene al nostro essere più privato. Quell’essere che, nel nascondiglio notturno, ci sussurra chi siamo veramente. Cosa pretendiamo da noi stessi, cosa pretendiamo dagli altri, in una partita senza margini di errori ma ricolma di incertezze. Incertezze che generano paure. Dalla più piccola alla più grande. E quella che ci travolge, come uno scacco matto al re o alla regina è forse la paura più grande: la paura di essere felici. Così quando ci interroghiamo sulle ragioni che ci portano a dire, o a pensare, che forse saremmo  stati più felici da soli, il più delle volte la risposta esce senza una logica ben definita. Come una radice che spacca, improvvisamente, il terreno. Tutti i terreni, anche quelli più duri e cementificati. Forse lo diciamo perché pensiamo che quando ci doniamo  completamente, quando amiamo senza limiti o confini, e poi la fine arriva a mettere un punto di sutura alle nostre emozioni allora, forse, non siamo in grado di farcela. Allora pensiamo che, forse, è decisamente più facile, o meglio conveniente, stare da soli. Questo perché se ci affidiamo ed impariamo ad aver bisogno di qualcuno, di qualcosa, dell’amore insomma, e poi questo, magari, si traduce in un’illusione, un miraggio che per un attimo prende il senso del reale e poi ritorna evanescente, cosa ci succede? Se ci appoggiamo all’amore e fondiamo su questa condizione tutta o buona parte della nostra vita, cosa succede se alla fine ci vengono tolte le fondamenta mentre siamo intenti a costruire il tetto? La domanda è sempre la stessa. Quando, pur non decidendo di amare, amiamo lo stesso… potremmo mai sopravvivere al dolore che sopraggiunge quando non veniamo amati allo stesso modo oppure veniamo abbandonati? Perdere l’amore  è una lesione inferta con precisione chirurgica al nostro organo principale, il più importante ma il più debole e senza protezioni. Ammettiamolo. Chi ha inventato il cuore lo ha fatto con troppa superficialità. Non ha creato nessuna protezione. Non ha creato un lucchetto che, una volta aperto, si possa chiudere a chiave. Non ha creato né mani, né dita, per evitare un abbandono. Un distacco. E quando qualcuno entra non possiamo fare quasi nulla per trattenerlo, quando decide di andarsene. Se vuole restare deve farlo autonomamente, senza che noi possiamo fare o dire nulla per fermarlo. E’ vero. Il cuore ha una porta girevole ma ha sempre un interno di argilla. Prende la forma del suo inquilino. Si conforma così bene a quella persona che  quando questa decide di andarsene, se decide di farlo, quello che rimane è un cuore diverso. Il cuore non è in grado di trattare l’uscita come una cosa naturale. Non è un albergo dove, una volta fatto il check-out, si rifà la stanza, si cambiano le lenzuola, le asciugamani, si pulisce tutto per garantire l’ingresso di nuovi ospiti. Eppure non credo sia una questione di chi entra, credo, piuttosto, sia una questione di chi decidiamo di far entrare e del rispetto che quella persona decide di avere, non solo per quello che è un nostro organo vitale, ma per noi stessi. Ma, tralasciando le azioni e l’accortezza che ci aspettiamo da chi entra (la dipendenza è sempre un grave errore) sarebbe comodo se si potesse cambiare, quell’organo oramai modellato ed impregnato del vecchio inquilino. Già, cambiare e prenderne uno nuovo...se solo avessimo ciò che per le auto è una ruota e per noi potrebbe essere un cuore di scorta.

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