UNA STALATTITE


È uno strano incantesimo questo. Ogni anima che si riversi in un uomo, una donna o un bambino, ha lasciato, alle lancette del tempo, la frenesia della vita quotidiana. Si è abbandonata nel sonno.
Anche la luna ha scelto una via di fuga. Si è come volatilizzata. Se ne è andata senza dare nessuna spiegazione. Il cielo ha caricato enormi manciate di silenzio. Ha assunto una tonalità intensa. Un blu profondo, cobalto, quasi potesse contenere il mistero degli abissi marini sottostanti. O forse lo contiene? In lontananza, si riesce ad intravedere solo un puntino, all’estremo nord. Forse è Sirio, anni luce da questo universo malandato. Eppure è una scintilla di speranza nel fondo di una bottiglia. Se si fa attenzione, se ci si sofferma su quella altura di roccia marina e sedimento lavico, su cui sembra incollato un grosso castello cadente, si riesce ad intravedere una figura. Una donna si incunea dietro le grate di una finestra. Una mano si protende verso l’esterno, sgancia il lucchetto che le teneva chiuse. Il rumore dell’evasione dura un secondo. Vestita nella sua tunica di lino bianco, una fascia le avvolge i capelli. Sospira e si affaccia voracemente alla balaustra. Si inchina verso il mare. Lo guarda. Il mantello della notte sembra calarsi, leggermente, su di lei. Quasi l’avvolgesse in un tenero abbraccio. Ad ogni sussulto delle onde fa da eco il richiamo di mille cicale. Un concerto appena abbozzato che dà il senso della notte. Della primavera che bussa alle porte. L’aria è immobile, non si lascia smuovere dal vento. Vento oramai lontano, disperso su qualche montagna ancora innevata. Di sotto, la marea lentamente sovrasta la battigia. Risale. Si muove avanti e indietro. Si allunga e poi si ritrae. Lascia una spuma brillante che evapora magicamente. Disegna una traccia. Sembra una mano tesa verso qualcosa, qualcuno. Sembra uno sguardo solitario, quello della donna. Non è così. Ci sono strade lontane e vicine che si intersecano nella vita di quell’anima silenziosa. Come in un’autostrada dove nessuno vuole pagare il pedaggio per esorcizzare qualcosa che assomigli ad una fine, anche in quella donna il pensiero, le idee, le domande, si tramutano in una richiesta d’aiuto.
“Non ti conosco, eppure ci sei. Tu sei solo? Lo sono anch’io. È come se stessimo scontando, insieme ma divisi, questa specie di limbo che ci fa percorrere strade lontane, parallele. Strade che ci riportano sempre allo stesso punto di partenza, senza mai farci incontrare. È un viaggio verso di noi ed al contrario di noi stessi. Un viaggio che iniziamo cercandoci e che finiamo allontanandoci. Nessuno dei due riuscirà mai a toccarsi. Girovaghiamo, attorcigliati alle nostre esistenze. Ci accartocciamo. Ci avvitiamo ai nostri giorni che scorrono sempre più impietosi, sempre più veloci. Ogni tanto ci fermiamo, presi dalla voluttà di ricordarci chi siamo. Ci curiamo le ferite. Poi, nuovamente, ci dimentichiamo chi eravamo e ricominciamo a sanguinare. Sento che mi chiami. Puoi sentire che ti chiamo? Le nostre voci non fondono mai la risposta per farci trovare. È una specie di apnea, quella che stiamo vivendo. Quando tu affondi nell’acqua, io respiro a grandi boccate. Quando tu riemergi, io mi inabisso. Quando tu risali la corrente, io scendo nel fondale e provo a riannodare i fili del tuo passaggio. Il mio tempo è immobile. Cristallizzato. Come una stalattite che continua a crescere, senz’aria e senza luce. Si ciba di fede, speranza, idealità. Si lascia vivere semplicemente nella sua triste crescita. Più cresce e più fa male l’assenza che genera quotidianamente. Lacrime che assottigliano una stalattite che diventa simile ad uno spillo ma che, caparbiamente, ancora si prolunga, tagliando l’orizzonte, la realtà. Come una lama che squarcia ogni possibilità di reazione. In questa assenza rotolo, ricoprendomi di polvere. Arida materia che frena l’uscita di nuove lacrime. Polvere che brucia e mi richiude gli occhi, come per istinto. Eppure non mi lascio soggiogare dal vuoto ingombrante. Continuo a ferirmi per sentirmi viva e di quella vita assaporo solo l’idea: il come sarebbe stato.”
Così, mentre il sole fa capolino dentro le crepe della notte, ed i raggi invadono le acque sottostanti, il giorno schiocca le dita e ferma la magia. Ogni cosa ritorna al suo posto. La donna rientra. Chiude il balcone. Apre l’armadio. Infila l’abito di sempre. Si fa il segno della croce, scende nella cappella a pregare. Il mattino riempie il paesaggio e svuota i sogni. Il mare riprende lo sciabordio naturale. La brezza marina si attacca alla spuma e la rivolta nelle onde. In quella genesi di giornata normale la donna ritorna suora e dimentica.
Dimentica l’uomo, o l’idea di quell’uomo. Di quell’amore anelato e non vissuto. Dimentica quella presenza mai conosciuta eppure ricercata. Ma lo dimenticherà soltanto…fino all’arrivo della notte, dei sogni.

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