LA STAFFETTA


Quella notte era una ragnatela dalla trama sempre più fitta. Quasi una coperta, buttata su quel piccolo pezzo di mondo, quando il giorno iniziava il trapasso verso altri luoghi. 
Non una lenta gradazione dei colori, ma un interruttore. Qualcuno che spegne la luce alle prime avvisaglie del tramonto. 
Dario rimaneva seduto a guardare proprio la notte. Notte orfana di stelle, fuggite chissà dove per non farsi infettare da quella tristezza. Tristezza che aveva contagiato tutto e tutti. Metteva fuori la sedia quando il nero diventava padrone delle strade ed il paese scompariva. 
Così gli altri, come lui, completamente avvolti nell’abito stretto delle ore notturne, rimanevano seduti a fissare il niente e di quel niente si sentivano, stranamente, appagati. Esistenze che battevano il tempo, i giorni, gli anni, le stagioni, con catalettica noia. Uscivano solo per le strette necessità. Le case barricate, baluardi di solitudine. 
Si concedevano mezz’ora, la domenica mattina, nel ritrovo della piazza. Stretti sotto gli ombrelli, per contarsi, per vedere se il buio della notte avesse consegnato uno dei loro corpi, sgualciti dall’egoismo e consunti dall’indifferenza, al camposanto. Ma di morte fisica neanche a parlarne. 
Erano corpi prosciugati dalle anime e strangolati dal tempo, trincerati dietro colpevoli mattoni, impolverati da una gigantesca cecità dei sensi. Non riuscire più a cibarsi della semplicità era la loro più atroce condanna. Una poesia non smuoveva alcun turbamento. I profumi del cibo non solleticavano l’olfatto né preparavano le papille al gusto. Una carezza non istigava il tatto alla dolcezza. Le note di una melodia lasciavano i timpani incatenati ed immobili. 
Avevano completamente dimenticato che cos’erano le emozioni e soprattutto come viverle. Avevano dimenticato che la felicità non era fatta di grandi esplosioni, ma di sensazioni delicate, avvertite quasi sottovoce. Avevano abbandonato la dolcezza delle piccole cose per ricercare solo la grandezza. Grandezza che li aveva fagocitati. 
Da allora una scacchiera di nubi era apparsa sul paese e la pioggia scendeva, costante, a caricare i loro spiriti di noia, stendendo delle strisce simili alle sbarre di una prigione. Per questo di notte, l’unico momento in cui il cielo sembrava rasserenarsi, si abitava dei “disabitati del giorno”. I loro cuori, ridotti a meri muscoli, non pulsavano d’altro se non dell’interesse per se stessi e per i propri beni materiali. Cuori che, oltre ad irrorare sangue idraulico, non erano più riusciti a risalire sino agli occhi e farli spremere di lacrime, né di gioia né di dolore. Intanto una cappa assoldava il silenzio circostante e lo faceva diventare così pesante che non si sentiva più neanche il suono dei loro respiri. 
Poi, ad un tratto, ecco un suono inaspettato ma conosciuto. Un rumore di passi, qualcuno che corre. Sobbalzarono tutti dalle sedie. Il cigolio del legno sembrò uno scatto di vita in quella catarsi all’incontrario.“Che è stato?”singultò Dario entrando velocemente in casa ed uscendone con una lanterna. La luce era così bassa che non cambiò molto lo scenario ma, stranamente, erano finiti tutti per avvicinarsi. Un ritrovo inconsueto, innaturale.“Alza la fiamma”lo riprese Aurelio. Dario eseguì il consiglio senza batter ciglio. L’aumento della luce riuscì a tagliare il velo dell’oscurità e Aurelio notò una persona che si accasciava sul sagrato della Chiesa. 
A quella vista sentì uno strano formicolio nelle gambe. In un attimo si ritrovò a correre. Quello scatto lasciò tutti sorpresi. Era quasi incapace a camminare, eppure ora lo muoveva una forza miracolosa. Anche gli altri decisero di seguirlo. Lo ritrovarono chino su un corpo rivestito di stracci, per giunta lerci. Dario avvicinò la lanterna e vide che era una fanciulla. Sembrava svenuta, ma ogni tanto dava un tiro di fiato. Non era morta: era incinta ed in pieno travaglio. Diversamente da quanto si poteva prevedere, nessuno ebbe esitazione. In pochi secondi si improvvisarono levatrici. Corsero nelle case, chi a prendere dell’acqua calda, chi delle bende, chi delle forbici e del disinfettante. Una volta fuori notarono l’estemporanea ricomparsa delle stelle ma non diedero alcun significato alla cosa. 
La nascita era vicina, non c’era tempo da perdere. Poi un urlo tranciò il silenzio ed una bambina venne al mondo. Dario la prese in braccio per avvolgerla con la sua giacca ma, appena l’ebbe sul petto, avvertì un calore intenso risalire dal centro dello sterno sino alla gola. “Tienila tu”disse porgendola ad Aurelio. Appoggiò la mano sul cuore ed incassò un’eco diversa. Un battito nuovo che sbriciolava le sue diffidenze, lo mondava dalle contaminazioni della tristezza. La metamorfosi di una crisalide. Le gote si risollevarono, levigandosi. La barba scomparve lasciando il posto ai lineamenti di gioventù. Le mani si spogliarono delle rughe. Evaporò l’opacità dalle pupille e gli occhi ripresero a brillare. 
Lo stesso accadde anche al resto dei presenti. Colpiti dalla stessa strana sensazione fecero della bambina una staffetta della rinascita. Così, quando la restituirono nelle braccia di sua madre, dall’alto della rupe, magicamente, ricomparve il sole che, sfrondando le ultime tenebre inondò tutti con raggi caldi, resuscitanti. 
Allora ogni cosa si mostrò diversa da quella che sembrava. I portoni aperti, veicolo di voci e vita. I balconi spalancati, ridipinti da ceselli di fiori e piante. Nell’aria onde di profumi in movimento. Era quello il primo giorno senza pioggia. 
La prima-vera-vita di quel paese. 
Da quel piccolo germoglio di carne e gorgheggi erano rinate le sensazioni, le emozioni. Ritornate le anime nei corpi. Ricomparsa la relazione, la coralità. Da quel travaglio erano rinati anche loro. Denudati dell’indifferenza si erano rivestiti d’amore. 
Un amore unico, straordinario, ma semplice, senza alcuna pretesa: quello di una madre per sua figlia. Così, a quella bambina arrivata per caso,o forse non tanto per caso, fu dato il nome di Felicità. 

(Racconto di Emanuela Sica tratto dal libro: Cairano Relazioni Felicitanti - Edizioni Mephite 2014) 

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