Si mi oto a quera via. Christian Sarni

Il mondo antico, quello della rimembranza, dei ricordi più dolci, anche di quelli languidamente più dolorosi eppure ovattati per la discendenza nel borgo antico che, come un balsamo tutto avvolge e cura, anche nelle fasi più delicate della vita, è il protagonista del libro di Christian Sarni, poeta montellese che, nei suoi versi predilige, senza alcuna reticenza, l'uso del dialetto, di quello "pseudo-mondeddrese moderno" come l'autore stesso lo definisce nella nota personale al testo.

Al giornalista Giulio D'Andrea è affidata la prefazione di cui riporto un estratto: "In "Si mi oto a quera via" c'è la malinconia di fondo di chi non ha mai dimenticato il suo paese d'origine, Montella. C'è una sorta di ringraziamento indiretto per ciò che i nostri borghi hanno regalato alla generazione degli attuali quarantenni, di quelli travolti inconsciamente dal terremoto del 1980".

E', quindi, la lingua vernacolare a farla da padrone, tra le pagine del suo vissuto emotivo, storico, generazionale, con la capacità, che solo quell'idioma sa dare, di essere autentico, non banale, profondo, sentimentale (ma non melenso), delicato, articolato, definito nelle sue manifestazioni creative: fuochi che ardono nel suo Io più nascosto e che vengono alla luce per riscaldare il cuore di chi legge, per carezzare le emozioni di chi si lascia avvolgere dalla sua narrazione magica e accattivante, che da colore non solo alle giornate ma agli stessi disegni che accompagnano ogni sua poesia. Ed è l'autore stesso a spiegacelo con queste parole "Mi è piaciuta l'idea di corredare i contenuti di questa raccolta con alcuni disegni fatti a mano, al fine di arrichire e rendere più piacevole la lettura, in virtù di una deiscenza di senso e bellezza che le immagini possono meglio dischiudere ad integrazione della semplice espressione verbale. Fortunatamente in mio soccorso è venuta un'artista vera e propria, Nadia Marano, che col suo pregevole tocco ha saputo arricchire questo libricino."

Le illustrazioni seguono il fluire dei versi, lo accompagnano con la delicatezza della matita, sfumata nei colori, senza troppo calcare la mano, a riprova che le liriche si lasciano avvolgere da una delicatezza essenziale e limpida, senza sovrastrutture di dogmi linguistici ricercati, o di quel "Monteddrese Accademico" che, probabilmente, l'autore stesso rifugge. Se ci inoltriamo in questo bosco fantastico e sentimentale di Christian riusciamo a scoprire ogni minimo particolare delle cose che ci racconta, con la devozione che si da alle cose sacre, altresì a quelle ritmiche cantilene che hanno fatto parte non solo della sua ma anche della nostra infanzia. In questi percorsi emozionali, deificanti quel mondo che si guarda con rammarico, nostalgia e come destinazione del cuore in ascolto, anche i disegni mutano come muta la lingua. Colorati, ma non accesi, per le liriche sposate al vernacolo, in chiaroscuro per l'alter ego in italiano. Come a dire che nella lingua antica, quella dei nostri padri, dei nostri nonni, ancora permane il tono e il colore della genunità, dell'onestà, della sincerità e spontaneità che, giocoforza, si modifica nella traduzione in italino, perdendo per strada molte di quelle peculiarità proprie e, per questo "colorite" della lingua vernacolare. 

Nel libro sono raccolte anche "perle" di cultura popolare da "accogliere come dono dei nostri giovani di ieri, anfratti di una cultura ai più sconosciuta, perchè tramandata spesso solo oralmente" ed è quindi edificante "vedere" come un ragazzo dei tempi più moderni sia così legato alle tradizioni, alla cultura di un tempo che fu, alle caratteristiche antropologiche di una lingua che non smette mai di germogliare, anche nelle divagazioni lessicali e linguistiche che il futuro impone. 

Non si tratta del "vecchio" messo in mostra, ma di quello che io chiamo "antico" nel senso più edificante e meravigliosamente accattivante, un tesoro inesauribile di bellezza e di trasporto emozionale che non si prosciuga anzi vive e sopravvive ai giorni a venire con la sua decisa maturità e la sua leggera propensione al futuro, ancorato al passato di cui non rinnega niente. 

Il libro si snoda in due parti fondamentali: la prima "Poesie in Monteddrese"; la seconda "Cose perdute" (quelle perle a cui faceva riferimento Sarni). Nella parte privata e poetica l'autore srotola, di verso in verso, il gomitolo dei ricordi, quelli più intimi e legati agli affetti che non smettono mai di pulsare nel suo animo bello e accogliente ma anche carico di sofferenza, ed ogni creazione, direi io quasi carmica, si libera in una dedica che accompagna la dolcezza e la soffice cura delle parole da utilizzare per raccontare ciò che scalcia nel cuore. Alla sorella Simona, in particolare, vi è il "dono emotivo" o la "dedica" più pregnante, quella all'inizo del libro "Continuo a cercarti perchè so che sei li da/ qualche parte in fondo agli occhi tuoi./Avrei da dirti tutto il cielo che è sopra di noi". Questo a riprova che nel vissuto, nel passato e presente di Christian, posti speciali vengono dati a persone speciali che non smetteranno mai di bussare alla porta dei suoi, seppur dolorosi, ma "includenti" sentimenti. Eppure, non solo questo legame viene alla luce, un mondo di persone, che ha tracciato solchi e seminato bellezza nella vita di Christian, è  messo a nudo nei suoi versi con quella essenziale e precisa definzione dialettale che caratterizza scenograficamente anche le storie più emozionanti. Persone e anche eventi che hanno lasciato un segno, indelebile, di commozione, trepidazione e turbamento come ad esempio il sisma del 1980 a cui fa da contraltare il senso più leggero e appetitoso che viene evidenziato nei versi legati al cibo. nelle sue peculiari caratteristiche raccontate in una maniera tale da far sentire nelle papille finanche il gusto di quelle pietanze. Ancora riemergono le antiche usanze, le catarsi legate alla fede, alla devozione al Santo, le stagioni e le loro fasi temporali, il clima, le feste, le piccole cose semplici eppure grandi nella dimensione dell'infazia e della storia che, probabilmente, non torna. Eppure, se non torna, possiamo farla riemergere prendendola da nostro tempio privato, dal cuore che custodice immagini di un tempo che fu: Si chiuro l'Uocchi: Si mo chiuro l'uocchi/vero quera sala/lo sole chi passa/miezzo a re lastre/e bai posanno/a pieri ra mamma/ chi stai coeta/ pe pepà vicino./ E io cammino/dra senza remore/respiro l'addore/re quero ch'è stato/stanzie uacande/re tanda romande/ lo tiembo pirduto/ chi no n'ammo uiruto./ Dio però nge le dato/ cummigliato no core/addò si pote tornà/fino quanno si more/drani uero passà/enno pe tutte re età/ re storie e li romanzi/ma s'adda uard'annanzi". 

La bravura del poeta si nota anche nella concretezza del suo sentire che si trasfonde nel dire e nell'usare parole senza preamboli di stile ma ricchi di elegante e autentica caratterizzazione vernacolare che arricchisce ogni singola frase, altrimenti slegata e senza magia. 

Il poeta e critico Armando Saveriano, così parla del libro, in una recensione: "Una accurata, elegante autopubblicazione di Christian Sarni, questo volumetto che raccoglie poesie in vernacolo monteddrese e aneddoti memoriali. L'edizione in proprio è arricchita dalle efficaci tavole dell'artista Nadia Marano ed è presentata da una 'lettre' di attestazione d'affetto e stima da parte dell'amico, ex collega di studi, Giulio D'Andrea, giornalista. Ce morceau d'amitié sincère vale più di qualunque dotta e impettita prefazione che Sarni possa o abbia intanto potuto ricevere. L'afflato mnestico è potente e fortemente visualistico, a partire dal titolo 'Si mi oto a quera via', che implica sentimenti di nostos, malinconia, felicità e rimpianto e amore per i luoghi natali e per la vita. Nella querelle fra dialetto e lingua, risulta ineguagliabile la vis del primo rispetto alla comune koinè culturale, vis capace di sprigionare coloriture, sensazioni e immagini di straordinario impatto psicoemotivo."

L'autore è riuscito nel suo intento, quello di riedificare la lingua dialettale unitamente alle a sue cattedrali di bellezza, in netto antagonismo con in tempi moderni di cui Italo Calvino, nel 1965, aveva timore per la perdita d'esistenza del vernacolo: "Finché l’italiano è rimasto una lingua letteraria, non professionale, nei dialetti (quelli toscani compresi, s’intende) esisteva una ricchezza lessicale, una capacità di nominare e descrivere i campi e le case, gli attrezzi e le operazioni dell’agricoltura e dei mestieri che la lingua non possedeva. La ragione della prolungata vitalità dei dialetti in Italia è stata questa. Ora questa fase è superata da un pezzo: il mondo che abbiamo davanti, – case e strade e macchinari e aziende e studi, e anche molta dell’agricoltura moderna, – è venuto su con nomi non dialettali, nomi dell’italiano, o costruiti su modelli dell’italiano, oppure d’una interlingua scientifico-tecnico-industriale, e vengono adoperati e pensati in strutture logiche italiane o interlinguistiche."

Questo mondo di "ricchezza lessicale", invece, in Sarni resta e prende, col passare del tempo, sempre maggiore consistenza, non smette di pulsare, di essere vitale perchè, come diceva qualcuno, "il dialetto nasce dentro, è lingua dell'intimità, dell'habitat, "coscienza terrosa" di un popolo, sta all'individuo parlante come la radice all'albero; nasce nella zolla, si nutre nell'humus, si fonde nella pianta stessa. È, insomma, l'anima di un popolo."

E la si può "vedere" nel libro, l'anima del poeta che si muove, avanza, torna indietro, si contorce, si riavvolge, si snoda, si allunga, si amplia, come se fosse un lenzuolo candido lasciato ad asciugare al vento caldo, ma non troppo, della primavera. Le sue percezioni, le cadenze della sua lingua, la semplice essenza di quel mondo mai perduto, sono tutte centrate, ferme, colonne della sua vita, di come si è costruito prima il ragazzo poi l'uomo sui mattoni del bambino. Colonne che, tuttavia, non possiedono l'attanagliante freddo del marmo ma sono tornite di legno pregiato, che vive e respira ancora come elemento naturale e parte fondamentale dell'ambiente. 

Il libro si conclude con i ringraziamenti dell'autore di cui riporto un estratto: "(...) Grazie ai miei familiari, e in modo speciale a mia madre, Maria Gabriella Cianciulli, vera poetessa che io seguo come astro eliaco, per avermi sempre sostenuto e ben consigliato. Alzo gli occhi dal foglio, e mi volgo ancora da quella parte, per un ultimo e sentito ringraziamento al mio paese e alla sua gente di ieri e di oggi (...)"



Poesie sghembe. Matilde Cesaro


Quasi impossibile da scrivere, forse ancora più complicato da pronunciare, il titolo conferito a questa raccolta di poesie, di Matilde Cesaro, è probabilmente un segno premonitore di quello che sarà il senso prodromico del testo rispetto a quanto emerge, graficamente, sin dalla copertina. 

Se il titolo ci da, da sempre, il significato o, perlomeno, un elevato dettaglio, un riferimento introduttivo e introspettivo, rispetto a quello che andremo a leggere, da questo incipit "fuori dagli schemi" e, per una parte, "capovolto" si comprende la piega che prenderanno, dalla seconda pagina in poi, le parole utilizzate ed unite al senso, o forse sarebbe più giusto dire non-senso, che l'autrice, di volta in volta, vorrà conferire alle stesse. 

Se vogliamo, solo per un attimo, riferirci al significato del termine "sghembo" diremo che letteralmente indica: non diritto, storto, tortuoso [Tra erto e piano era un sentiero sghembo - L'anima di Beatrice, con la mia scrittura sghemba e in discesa - Dante] o strambo, trasversale o, più comunemente, obliquo. In arte spesso si ritiene una donna sghemba una raffigurazione nello stile picassiano ed ancora, nello spazio tridimensionale, due rette sghembe sono rette per le quali non esiste alcun piano che le contiene. In modo equivalente, due rette sono sghembe se e solo se non sono né incidenti, né parallele distinte, né parallele coincidenti (come si può notare dalla figura sottostante).

Eppure non vi spaventi questo preambolo. Anzi, vi stuzzichi e vi solletichi la fantasia, così come è stato per me. La realtà che, evanescente appare e scompare, si sveste di astrusità e diventa momento di sintesi giocosa. La difficolta  scompare nel momento in cui la voce prende possesso della lettura. Da li fuoriesce un circolo di estro e fantasia dialettica che costruisce, di volta in volta, liriche, definite ed indefinite, pregne dell'essenza più autentica, e anche accattivante, con un linguaggio fatto di case, cose, dimensioni, luoghi, in una parola di "vita oggettiva" eppure "soggettivizzata" nella sua più eclettica e "divertente" estensione. 

Immaginatevi di essere ad uno spettacolo di prestigio dove l'escapolazione, ossia lo scampare da un pericolo imminente, la fuga da un luogo chiuso da lucchetti e da chiavistelli, (pensiamo a quello di Harry Houdinì) sia rappresentato dalle parole che fuggono dal senso "normale" e "statico" che gli diamo per essere collegate ad elementi impensabili e da quelli costruire magia e stupore.

Rifuggendo la "scontatezza" o "pesantezza" di visioni assolute, la poetessa rende partecipe il lettore mutuando, dalla brezza energizzante delle parole, l'essenza (spesso irriverente) dell'io, della donna, dell'uomo, degli oggetti ridipinti con il tatto di chi fa entrare, nell'imbuto uniforme del sentire, ritmi e cadenze ludiche, spaesanti a volte, dirette dal chiaroscuro delle azioni reali e verosimili. Un canale da cui entrare senza lasciarsi svuotare bensì uscirne rinvigoriti. La dimensione è quella della scoperta, la scoperta di una meta nuova della poesia. Non necessariamente introspettiva, non necessariamente "pedante" ma decisamente "leggera" e assolutamente "edificante". Emozioni che fanno della semplicità e della sorpresa un binomio indissolubilmente perfetto. 

Le poesie sghembe - come dice la stessa autrice - sono "brevi testi nati come divertissment - sono irriverenti, a tratti insolenti, giocano col finale e spingono il lettore a una contrazione di sguardo, a una rotazione su possibili mondi che si animano e si vestono di emozioni, di sentimenti, e dialogano e vogliono essere prese in considerazione, dire la loro, manifestare interesse, disinteresse, dispiacere, ansia".

Il plettro della lingua suona con decisione, con audacia, altre ancora con la delicatezza di una piuma tali da diventare quasi impercettibile nella trama. In ogni caso il balsamo della quotidianità scivola delizioso nelle pagine e si nutre, a sua volta, dell'attenzione del lettore che viene rapito da alcuni smarrimenti, quando il dubbio arriva a rendere complicate le cose, a ingarbugliarle nelle trame e nelle sfilate consistenze. Anche se poi, come spesso accade nel libro, si resta basiti rispetto alla fine di quello che sembrava e che non è più la stessa originaria "apparenza" al saldo delle operazioni e alla fine dei voli poetici, dotati di una "mirabolanza" straordinaria.  

E', probabilmente, il gioco o "divertimento" o forse "esercizio ma non stilistico" che riesce meglio alla poetessa: indicare un sentiero, annodare i fili delle parole, talmente bene da rendere la trama concreta, comprensibile e poi, improvvisamente, decidere di disperderci nel bosco del sussulto, dell'indefinito finale o direi della sarcastica conclusione che rende quel principio la balaustra da cui spiccare il volo dell'indecifrabile. Quasi una sfinge che, scientemente, indica soluzioni non conformi al senso del testo o che aprono porte da cui non ci si aspetta di trovare una tazzina di caffè (Effluvi) o addirittura la lavastoviglie dei propri sogni (Mi manchi). 

Potrebbe essere paragonabile all'esercizio delle ombre cinesi? Mostrare qualcosa nella "non-dimensione" e poi notare che quel coniglio altro non è se non una mano stretta in un pugno con due dita sovrastanti? Svuotare la concretezza della materia, di cui sono sovrabbondanti le nostre case, ed alleggerirla dell'arte poetica, come è capitato addirittura ad un "rubinetto" (Schizzi) può sembrare cosa da poco, in realtà significa percepire, andare oltre quella consistenza, elaborare un concetto "alto", renderlo fluido nell'ars poetica, farlo diventare fruibile al lettore come se, esso stesso, ne diventasse parte integrante. Si riesce a "sentire" l'oggetto o la cosa, quale focus attrattivo dell'intuizione del poeta, quasi avesse un'anima, autonoma, distinta, nuova, rispetto all'immobilismo di occhi inconsapevoli e disattenti.

Quello che riesce a Matilde è qualcosa di unico e raro. Dare dignità ad elementi apparentemente non degni di avere attenzione elevandoli in uno spazio di percezione molto profondo eppure leggero, disincantato alla fine, carico di un mordace "significato" - in alcuni passaggi - e vettore di movimenti che determinano un viaggio dal centro di un luogo  in ogni sua direzione possibile, anche quella più impensabile. Come se il nostro habitat fosse un enorme parco di giocattoli a cui dare vita con la nostra fantasia e le nostre percezioni. Matilde, dunque, è sicuramente dotata di grandi occhi, focalizzanti, capaci di radiografare le cose, di dargli vita, costruirci intorno un paesaggio, lasciarle muoverle tirandone i fili, come pupi, da "spettacolarizzare" all'attenzione dei terzi, appunto spettatori spiazzati ma sorridenti e sicuramente più gioiosi alla fine della lettura. 

Quel dare "coscienza" a quelle cose che "coscienza" non hanno, come un aspirapolvere (Sono stremato) o finanche una bottiglia di latte (Manutenzione di un amore) o rinvigorire consapevoli eppur caduche riflessioni slabbrate d'intendimenti, spesso concretizzati, altre volte disattesi. Il movimento è quello dell'andirivieni, partendo da una parola, che il nostro vissuto "categorizza" con un certo significato perché poi, fateci caso, ognuno di noi darà un senso diverso alle prime parole di ciascuna poesia per poi smarrirsi "inequivocabilmente" nel finale, in una partita degli specchi, riflettenti e non, equivoci o illusori, ricercata, analitica, come la lista esatta dell'intruglio di uno speziale. Un sortilegio, appunto, carica le parole prima di un elemento narrativo, poi le denuda, infine le riveste di altri abiti, che nessuno gli avrebbe mai messo addosso. Parole a cui, Matilde, toglie il "peso specifico" della "normalità" e gliene da un altro, forse quello più proprio...dal suo "point of view". 

Un libro da leggere nelle sere di Natale, e non solo, da osservare (questo potrete farlo solo voi) nelle raffigurazioni iconiche delle foto di Paolo Menduni, che danno il successivo senso al primo significato che è del tutto fuorviante, non preciso, appunto "sghembo" forse potrei dire "funambolico". E forse è tutto qui il senso del libro: leggere poesie sghembe significa indossare degli occhiali che animano cose prima inanimate, che smuovono leggerezze così pure e, infine, immediate, da farci rimanere "senza parole" o "spaesati" eppur alleggeriti dalla pesantezza del mondo con le sue parole perfette e precise, ma severe, purtroppo senza fraintesi che ci salvino dalla "scura" realtà. 

****

https://www.oedipus.it/libri/cesaro-poesiesghembe.html 

"Ci si scopre coinvolti da questa raccolta di Matilde, si legge con curiosità crescente la sequenza di brevi storie ammiccanti per scoprire quale sarà il soggetto del prossimo testo, perché ci troviamo di tutto in questa apparentemente tranquilla casa di Barbie: dal mouse all'aspirapolvere, dal caffè alla protesi dentaria e, addirittura ma in sintonia con l'impianto, possiamo leggere anche un "Monologo alla pagina bianca" (...). [Costanzo Ioni]"


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