MI CHIAMO EVA



Nella gabbia della paura, carica di silenzio, le parole facevano a gara per non fiatare. Tenute ferme, strette sino a soffocare, dai pugni e dalle sberle che, come “regali d’amore” ricevevo quotidianamente. Anche questo Natale sarebbe stato carico di lividi sapientemente sistemati, quasi con “eleganza”, come palline sull'albero. Un albero che tuttavia resisteva alla pesantezza degli “addobbi” perché saldo nelle radici. Le mie gambe non si erano mai mosse nonostante l’anima fosse praticamente evasa…da un bel po’. Ricordo il primo “regalo”, arrivò nel periodo di Pasqua. Consumai in silenzio, come cibo frugale ma sapido di dolore, l’identico percorso della Passione, insieme a Cristo, denudato, deriso, flagellato, c’ero anche io. Denudata, derisa, flagellata dalle parole che con “sapienza” mi “donò” senza limiti di sorta. Infiocchettate e incartate insieme al fantoccio della gelosia, iniziò con un “togliti quel trucco e quella gonna che sembri una sgualdrina”. Cosa mi costava fare quello che mi chiedeva? Nulla. Fu così che presi del latte detergente, tolsi il trucco. Sfilai la gonna, indossai un pantalone. Mi guardai allo specchio, sembravo quasi un uomo. Ero come mi voleva lui. Mi aveva denudata della mia femminilità in un solo istante. Eppure ancora non ero “esattamente” come lui desiderava. Se penso che quel giorno dissi che le parole fanno più male delle sberle adesso posso affermare, con assoluta certezza, che mi sbagliavo. Sento ancora l’eco, nella mia mente, di quel “primo” ceffone che, improvvisamente, “mi regalò”, mentre litigavamo sul mio andare a cinema “con quelle puttane delle tue amiche”. Il palmo della sua mano si stampò prima sul naso, poi sull'occhio e mi rivoltò la faccia, da sinistra verso destra, facendola sbattere, come un cencio, contro il muro della cucina. Proprio lì si sviluppò la “foto tessera” di questo rapporto. Il mio sangue vivo aveva creato un profilo di donna quasi perfetto. Sangue che mi colò dal naso (rotto) per quasi un’ora prima di arrivare in ospedale e dire che “ero caduta dalle scale”. Neanche allora le mie gambe si decisero a lasciarsi andare, restarono salde, ferme in quel terreno arido di sentimento, nonostante un lieve tremore le avesse percorse a lungo. Da quel giorno in poi non mancò occasione per dimostrare che “l’uomo dei miei sogni” aveva praticamente cambiato personaggio ed era diventato “l’uomo dei miei incubi”. Eppure io continuavo a chiudere gli occhi e dormire, sognare, sperare di risvegliarmi “in un giorno nuovo, diverso, pieno di sole”. Ma ogni volta che le ciglia si aprivano la mia razionalità combatteva una lotta violenta con il cuore. Cuore sempre in ombra, quasi completamente assuefatto dalle lacrime a comparsa sistematica dopo l’orrore accompagnate dai soliti: “mi dispiace, perdonami ma io ti amo troppo.” Avvolgevo da sola il mio destino, chiudendolo in un sacchetto di plastica, come carne da conservare e mettere in congelatore. Mi dicevo che un giorno l’avrei tolta dal freddo per gustarla nella sua naturale bontà e non avrebbe più avuto quel sapore metallico che aveva oggi. Perché io lo sento, ancora adesso, il sapore del pugno che mi diede quando mi intravide, davanti al bar, mentre parlavo con un mio vecchio compagno di scuola: Samuel. Eppure lo aveva salutato con garbo scenografico ed un sorriso di circostanza prima di dirmi che avevamo un impegno e dovevamo tornare a casa. In macchina diventò o meglio tornò ad essere il mostro che era: “Se ti vedo ancora parlare con quel negro di merda ti ammazzo…” ed il pugno, non solo uno, fu l’inizio delle successive e “solite scuse”. O forse dovrei dire l’inizio della fine perché da lì in poi cominciò anche a colpevolizzarmi dicendomi che “se mi picchiava era solo colpa mia”. Riflettevo, chissà quante donne, come me, vivono una vita piena di questi “regali” e la domanda restava appesa, senza punto interrogativo. Quasi sospesa nell'iride liquida di mia madre che ricompare, proprio adesso, come un tarlo, e mi implora di stare zitta, di resistere, tenere il segreto come aveva fatto lei…che mai aveva detto ad anima viva cosa le faceva mio padre. Ma io ho deciso, siamo quasi nel periodo più “bello” dell’anno e per strada già si sente “l’aria della festa”, l’annuso come un cerbiatto che sente il suo predatore. Così aspetto che esca per andare al bar, prendo con me soltanto la borsa e il telefono, in memoria ho foto e messaggi che mi potranno servire, muovo le radici e sposto quest’albero prima che arrivi il “solito” Natale. Per strada mi fermo un attimo a pensare, “che sto facendo?” ed eccola quella gabbia di paura dove le parole fanno fatica ad uscire. Poi una rosa, mi compare sotto il naso, alzo lo sguardo quasi spaventata ma è solo il mio amico Samuel, che mi porge quel fiore e mi chiede perché piango. Con una semplice rosa, “regalatami” da chi celava un’arma pronta ad uccidermi, era iniziato l’inferno. Ma in quell'inferno non volevo e non devo tornare più. D’istinto lo abbraccio, senza parlare mi ricarico di coraggio, respiro fiducia in me stessa e in un attimo sono davanti al portone della Questura: “Buongiorno, vorrei fare una denuncia…mi chiamo Eva!”       

Il canto delle Muse. I libri del mio tempo

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