Il respiro del vento si rigirò tra le foglie, sibilando un
accennato lamento. I rami, arti contorti dal tempo, furono smossi nella loro
apparente rigidità. La corteccia, scura e rugosa, una barriera inestricabile a
protezione della linfa vitale, vibrò, inspiegabilmente, al semplice tocco della
mano. Quando il palmo si posò sul tronco, spinto dalla disperazione di lasciarsi
soggiogare da un peso tremendo, un’impronta si definì su quella pelle legnosa.
A stento si potevano udire le voci provenienti dal villaggio. Flebili echi in
lontananza, si spensero alla seconda folata di vento. Un soffio corrosivo e
gelido che preannunciò l’arrivo del silenzio. Silenzio pesante, oppressivo, sceso
a spingere terrore su quelle spalle smagrite. “Padre” riuscì a dire, poi cadde
in ginocchio. Le gocce di sudore, che prima si rincorrevano sulla fronte,
iniziarono a colare, come piccole perle luminescenti, sul terreno arido di
pioggia. Ed ogni volta che precipitavano, creavano un tonfo ovattato. Un rumore
impercettibile che, tuttavia, distruggeva la serenità del volto, caricandolo di
tormento. Forse era solo quello il modo in cui poteva piangere. Le lacrime
rimanevano ferme, immobili, confuse nell’iride stanca, arrossata, incredula. Non
poteva dire di no. Non poteva tirarsi indietro. Lo sapeva bene. Così era
stabilito. Così doveva essere. L’arrivo dell’UOMO era ineluttabilmente iniziato.
L’innesto della paura, nella sua anima eterea, aveva preso l’arteria principale.
Nulla riuscì a fare per bloccare l’ingresso del dolore nella sua carne sacra.
Tutto fu così violento, crudele, quasi rabbioso. Gli sembrò che il fiato gli fosse
entrato, per la prima volta, nei polmoni. Tirò l’aria dalle narici e venne travolto
da una sensazione di caldo intenso, bollente. Nessun argine poteva bastare a
quel sentimento che, furioso, gli strappò ogni minima resistenza. Fu come
ingoiare il mondo intero in un sol boccone amaro. Senza indugio era entrato,
senza indugio lo aveva accettato. O forse aveva indugiato soltanto un secondo,
credendo che il disegno poteva mutare. Impossibile. Il suo compito era scritto.
Quella pagina doveva essere riempita del finale. Da quel finale doveva nascere
la storia dell’uomo. La nuova esistenza dell’umanità senza peccato, senza
miseria, senza catene. Con le mani, percorse da inediti brividi sanguigni, scarnificò
una zolla d’erba secca. La schiena ebbe un sussulto. Una scarica, un fulmine che
si avventa sul midollo appena creato. Le ossa si cementificarono sull’anima
bianca. I muscoli si svilupparono lungo nuovi percorsi. Radici di nervi crearono
la rete per il futuro dolore. Gli impulsi invasero la materia cerebrale. Divenne
uomo e padrone di un corpo già rapito da una pena mai provata. Le redini del cuore
si sfaldarono, sopraffatte da un caldo rovente. Tutto era cambiato. Se prima avvertiva
il freddo del dovere ora sentiva il caldo abbraccio di suo Padre. Un galoppo
muscolare, tonico, creò l’immagine, prima solo accennata, della sua nuova esistenza.
Di quello che era stato fino a pochi istanti fa. Di quello che doveva essere adesso.
Il protagonista dell’agonia sulla croce, del tragitto faticoso, della via
dolorosa che lo separava dal Golgota. Una visione della realtà, della
coscienza, della mente, del figlio di Dio, che era appena diventato uomo per
morire come un uomo. La trasformazione dell’Agnello che viene immolato sul
calvario del mondo. Solo così tutti avrebbero visto la morte. La sua morte. Non
vissuta come un Dio, ma come un uomo semplice. Uguale ad ogni altro uomo che
muore e che soffre per morire. Nessuno sconto, nessun aiuto, solo vita che
viene tolta nella forma più dolorosa possibile. Prima la flagellazione, poi la
prostrazione davanti al peso della croce. Poi i chiodi, infissi nella carne
senza alcun ritegno. Poi il pianto di una madre. Poi la preghiera, l’urlo
rivolto all’infinito, la condizione ultima, prima del perdono. Solo così
sarebbe potuto risorgere come Gesù Cristo e sedersi alla destra del Padre. Solo
così avrebbe potuto salvare noi, ingrati, peccatori eterni.
Se non respiri attraverso la scrittura, se non piangi nello scrivere, o canti scrivendo, allora non scrivere, perché alla nostra cultura non serve. - Anaïs Nin -
UNO STRUMENTO
Fu questione di un attimo. L’istinto primordiale che
prende il sopravvento sulla razionalità indotta dalle convenzioni. Le dita
delle mani che si annodano a formare un pugno, stretto e deciso. Pugno che afferra
i bordi di una veste, fatta di seta purissima ed inserti preziosi. Poi uno
strappo, improvviso. Il rumore, degli abiti che si lacerano, squarciò il
silenzio di quel giorno come tanti, eppure diverso da tutti gli altri. Gli
occhi della folla, increduli, guardavano quella rappresentazione di follia,
senza gettare fiato e parole sulla scena. Soltanto un grande suono di
incredulità, una “O” aperta e corale, si avvertì quando i lembi sbiechi, di
quella veste, così offesi dalla necessità di un mutamento, caddero a suoi piedi.
La caduta dei peccati davanti al pentimento. Lembi, eleganti e raffinati, che abbracciarono
la nuvola di polvere, arida e misera, che si era sollevata dalla terra. Quell’uomo,
così gracile eppure forte, dai tratti esili e cortesi, stava rinascendo dalla
sua stessa carne. Come se fosse stato quello il suo primo giorno di vita. Riemergeva
nel presente, cancellando, con un gesto inconsulto, buona parte del suo
passato, se non tutto. Si risvegliava da un sonno troppo lungo e ingombrante da
sopportare. Risorgeva dal suo corpo come se, da quella nudità improvvisa,
avesse potuto comprendere il vero senso di se stesso. Tremendamente indifeso, foderato
solo della sua pelle bianca, da quel momento aveva udito, sentito, il richiamo
di una voce amica. Una voce che lo aveva smosso nella coscienza. Che lo aveva sostenuto
nelle forze. Che gli aveva dato la spinta per quel gesto, per alcuni versi
folle, per altri necessario. Una voce che lo rendeva unico ma incompreso
davanti al mondo. Una voce, forse un sussurro discreto, che gli mostrava la via
da percorrere. Una via in solitudine ma non da solo. Una voce che era parte di
una vita più grande, immensa, che lo avvolgeva di una luce eterna. Voce che lo
purificava nello spirito, prima così inquieto, ora così etereo e distante dalla
normale essenza dell’uomo. Lontano dalla ricchezza, da ogni cosa che si poteva
barattare o comprare. Vicino alla povertà, sorella di virtù, fede e carità. Fu
così che, quasi assuefatto dalla calura del sole, rinvigorito di nuova linfa,
si mise in cammino. Il respiro composto, non più incostante ed oppresso dalla
paura. I piedi scalzi. L’incredibile ed improbabile ristoro che sentiva nei passi,
veloci e sicuri, sulla nuda terra, a tratti erbosa, a tratti pietrosa. L’aria,
l’ossigeno impalpabile, che stimolava la sua tenacia. Ed ogni prezioso dono
della natura, che gli era di contorno, sembrava guidarlo in quel percorso,
sicuro ma lontano dalla sua casa natale. La strada era remota, distante, ma gli
sembrò un guizzo di metri e nulla più. Arrivato davanti ad un ammasso di ruderi
sbilenchi e travi spezzate, rimase folgorato dai tratti di una vecchia scultura.
Si avvicinò, mutando il portamento in segno di assoluto rispetto. Posò la mano
sulla base di quel legno logoro e malridotto e sentì, di nuovo, quella voce.
Era arrivato. Piangendo di gioia, si inchinò alla croce e disse: “Oh Signore, fa di me uno strumento della
tua pace. Dove è odio, fa che io porti l'amore, dove è offesa, che io porti il
perdono, dove è discordia, che io porti l'unione, dove è dubbio, che io porti
la fede, dove è errore, che io porti la verità, dove è disperazione, che io
porti la speranza, dove è tristezza, che io porti la gioia, dove sono le
tenebre, che io porti la luce. Maestro, fa che io non cerchi tanto di essere
consolato, quanto di consolare, di essere compreso, quanto di comprendere, di
essere amato, quanto di amare. Perché è dando, che si riceve, perdonando, che
si è perdonati, morendo, che si resuscita a vita eterna.” (S. Francesco
D’Assisi)
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