SENZA FARE TROPPE DOMANDE - dedicata a Lia

Il lutto che mi porto addosso mi scava gallerie nel cuore, strade che non trovano alcuna via d’uscita. Ho ancora poche lune nella mia vita ma è come se il buio mi avesse dissolta, senza chiedere permesso. È entrato tutto, non ha lesinato niente. Non ha dato tregua al respiro, non ha dato tregua alla ragione. Si è preso ogni cosa e mi ha ributtato sul pavimento senza pudore. Pago il peccato e vivo il castigo di essere estremamente sensibile, di essere prima una figlia e poi, se resta qualcosa da vivere, anche una donna. Ho tanta gente intorno, sguardi, volti, sembianze o fantocci di anime che tentano, a volte riuscendoci, di colmare un vuoto incolmabile. Vuoto che si muove nel sottosuolo dei miei pensieri. Un’assenza che  brucia e stilla piaghe sempre dolenti. Sono sola, non per volontà ma per dovere di nascita. Eppure vado avanti. Dimentico, quando posso, di avere qualcuno che ha il mio stesso sangue. Che è lontano o si allontana da me. Sovente mi piego alle voci di chi mi chiama. Ho orecchie per ascoltare ma non vengo ascoltata. Di parole sanguigne ne avrei a centinaia. Potrei scrivere un poema con il sangue che mi scorre nelle vene se non fosse che, oggi, ha un colore simile al vetro. Chi non crede alla mia tristezza lo vede rubicondo. Io, invece, posso percepirlo nella sua vera sostanza. Si muove e si affatica nel percorso, per darmi modo di sopravvivere ai giorni che mio padre ha ancora da vivere. Ebbene ora potrei chiedere perché. Perché la notte deve succedere al giorno? Perché le albe, costruite come una scenografia meravigliosa, poi devono dileguarsi quando il sole prende posto nel cielo? Perché se il tramonto mi inebria, questo deve finire trangugiato nel nero più cupo della sera senza neppure il ristoro delle stelle? Perché il mantello della brezza mattutina deve, per forza, lasciare evaporare gli aliti di vita dai fiori di quella radura, corolle che si inchinano al caldo d’agosto come pie donne all’ingresso di una chiesa deserta? Perché, se la luce del mattino carezza la pelle questa si lascia corrompere dai raggi e muta di colore? Tante, troppe domande mi scivolano nella mente ma non trovano la forma per pretendere risposte. Esecrabile è questo tempo, mi chiede costanti attenzioni e fende le mie radici. Lo fa con una terribile movenza. Piano. Senza dare troppo nell’occhio. Mi prende e mi spreme come se sapesse che domani avrà altra linfa da succhiare. Ed io mi lascio bere come se mi importasse poco o niente di rimanere con la gola secca. E’ paradossale. Non ho una goccia d’acqua per me stessa ma possiedo fonti inesauribili per chi mi chiede ristoro. Darei ogni singola parte di me stessa, di tutto ciò che possiedo, al resto del mondo, se solo mi spogliasse da questa solitudine che ho addosso. Ed anche lui, che aveva promesso di rimanermi accanto, si è celato, codardo, nella foschia più cupa di un mattino qualsiasi. Ha colto, o forse reciso, il fiore e lo ha lasciato cadere alle sue spalle, quando la fatica di una figlia si è scontrata con quella di essere moglie. Mi ha imposto una scelta ed io ho scelto la mia terra, le mie ossa, la mia famiglia. Oramai non mi importa più di tanto. Ed anche se ho contato ogni singola lacrima che è caduta sul terreno dei miei anni migliori, la forza che avevo e che ho nelle braccia mi ha sorretto e salvato prima di cadere nel precipizio della pazzia. Se sono ancora viva e se sono ancora sana di mente lo devo a me stessa, alla devozione di essere quella che sono senza maschere e senza inganni. Guardo il mio riflesso nello specchio. I capelli in disordine, qualche ruga intorno agli occhi, il volto stanco, eppure sono io. Quella è la faccia di chi mi ha dato i natali e se so di esistere lo devo a loro. Tento o provo a formare parole che non pronuncerò mai se non al cospetto del Signore. Di notte mi assale la paura. La paura di non farcela. La paura di soffrire ancora e così come l'avverto questa torna puntuale. Come quando è tornata a prendersi Lui, dopo mia madre. In quel momento il terrore ha forgiato un dolore sempre nuovo ed inverecondo. Un dolore che strappa e non si ricuce. Una ferita che genera sempre liquida sofferenza, senza far uscire una goccia di sangue. Rimane tutto dentro. Eppure dal dolore, che potrebbe essere la rovina per qualsiasi altra persona, non mi discosto e non cedo il passo al nemico. Rimango ferma nella mia dimora, nella mia vita ed attendo il nuovo giorno...senza fare troppe domande. 


PENSATE - In memoria di Aurelio Popoli


Un sostenitore dell’unicità. Questo sono sempre stato. Lo ripetevo alla noia. Forse esagerando nei toni. Cercavo di spingere il messaggio oltre quella coltre, statica, che è la vita di paese. Ogni persona è unica. Non esiste un individuo che si possa equiparare all’altro. Forse esiste qualcuno che abbia, nei tratti o nel carattere, qualche elemento di somiglianza. Eppure anche in quello si evidenzia la sua diversità. Quello che ci contraddistingue dagli animali è il cambiamento, l’evoluzione, ma soprattutto il ricordo. L’uomo si è evoluto e nell’evoluzione è già insito un cambiamento che è ancora in divenire. In ogni anima c’è una potenzialità. Come in ogni mente c’è una genialità. Non esistono geni ed ignoranti. Esiste solo chi riconosce quella potenzialità e la fa sua. Chi di quella potenzialità non se ne fa niente, perché vive la sua vita così com’è. Senza clamori. Così anche io, nel mezzo di questa duplice volontà, ho voluto creare la mia esistenza. Vissuta all’ombra di un campanile. Ad ogni suo rintocco, potevo sentire, forte e chiaro, l’eco della storia. Storia che si è impossessata di tutta la mia vita. Plasmata nelle pagine di un libro a me caro e sofferto. Ho cercato di fare, dell’insegnamento, il valore aggiunto alla mia unicità. Da quei rintocchi non sono mai fuggito. Rimasto dov’ero e dove mi trovo anche ora, che è l’ultima “ora” della mia vita. Non ho intenzione di fare testamento delle mie azioni. Di ricordare quali sono stati i miei passi sulla terra guardiese. Voglio solo tramandare un messaggio di amore. Un amore semplice. Che non ha pretese. Che spontaneamente si dovrebbe donare, senza chiederlo, né elemosinarlo. Amore che mi ha ricoperto e mi sta ricoprendo come un caldo piumone, allontanando il freddo. E quando la morte arriverà a chiamarmi per nome, risponderò come ad un appello in classe: presente! Per questo vi dico: Amate. Amate quello che siete. Amate voi stessi, ma amate chi da voi si discosta in tutto. Amate senza rifuggire la diversità di razza, classe o età. Amate l’uomo o la donna che vi stanno accanto. Di quell’amore non sarete mai privati. Di quell’amore avrete ricompensa. Se donerete amore, quello vi ritroverete nei momenti di grande dolore. Generare l’amore serve, ma serve, di più, coltivarlo ed accudirlo. Prendersene cura. Non basta mettere il seme nel terreno per far nascere una pianta. Serve la terra. Serve il calore della fioritura accudita. Come si accudisce una donna nel momento del parto. Serve l’acqua ed il suo giusto dosaggio. Né troppa, né poca. Serve la cura, la presenza. Solo da quello potrà nascere una pianta. Siate come siete ora, pieni di amore e di affetto. Curate i vostri cari. Non rimandate la vostra presenza. Il gelo che respirate nei periodi invernali non fatelo mai entrare nel vostro cuore. Dipanate la matassa della notte. Lasciatevi avvolgere dal sole. Prendete le ombre del crepuscolo e fatene fantocci. Esorcizzate la paura. Abbracciate il coraggio. Siate testimoni dei vostri affetti. Sorridete ai vostri nonni, ai vostri padri, alle vostre madri. Sorridete a quello che sarete domani. Ascoltateli. Fosse anche un inutile pensiero. Lasciateli guardare la vostra presenza. Non permettetegli di fissare l’assenza. E' l’uomo, dentro di noi, che chiede asilo. Che chiede di essere preso per mano e condotto fino all’ultimo passaggio del destino. Ricordatevi chi siete stati, ricordate il bambino che era stretto dentro di voi. Ricordate la voglia che aveva di giocare, sorridere, addormentarsi in un letto caldo. Ricordate chi siete stati. Ma pensate chi diverrete. Sia che finiate in un letto come questo, o che finiate i vostri giorni improvvisamente, chiedetevi come sarà. Come sarà morire nel ristoro dei propri cari. Come sarà morire senza nessuno che ti prenda per mano e accompagni la tua anima al trapasso. Tra i banchi di scuola, ai mie alunni, questo ho cercato di insegnare. Oggi quell’insegnamento mi sta visitando per l’ultima volta. Mi dice che tutto passerà in fretta. È il mio dottore. Lo conosco, mi conosce. Sa che ho paura. Non paura di morire, ma paura di abbandonare qualcuno. Così cura quella mia debolezza, prendendo per mano mia figlia. Abbracciandola stretta per non farla crollare dal dolore. Come lui altre braccia la stringono. Altri cuori la sostengono, asciugano le sue lacrime. Una giovane donna è seduta accanto al mio letto. Ha poggiato un rosario tra le mie mani. La sento pregare. Sento voci, parole, presenze. Quanta gente in questa stanza. Sembra una scuola. La mia scuola. Il vociare è prima inteso. Poi decresce. Lentamente diviene silenzio. Ora le parole non servono più a niente.    

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